Tutti gli articoli di Marco Ongaro

LA SCINTILLA DI KIKI DE MONTPARNASSE

La scintilla di Kiki de Montparnasse

Estratto dal libro Kiki la Modella di Marco Ongaro (Anordest Editrice 2011)

Scrive Guillaume Apollinaire: “Ecco la Montparnasse che è diventata per i pittori e i poeti ciò che Montmartre era per loro quindici anni fa: la casa della semplicità, della bellezza, della libertà”. La Scuola di Parigi è una legione di stranieri che festeggiano la gioia di stare al mondo e di creare. Tra loro, la miseria infiltra alcune storie tragiche, altre ridicole. Le più frequenti sono significative, poiché gli artisti tendono a significare nel momento in cui rappresentano, e gli strumenti a loro disposizione si accendono col sole al mattino e brillano la notte con la luna, luccicano delle risate nei cabaret e dei canti di una figlia illegittima venuta al mondo da una madre snaturata, grazie a un padrino contrabbandiere di alcolici.

Kiki ha fatto un ritratto a suo padre: si vede quest’uomo in una cucina con una bambina bionda. A chi le chiede chi è, dice che è suo padre. Quando le chiedono perché la piccola è bionda, risponde che è la bambina che suo padre ha sempre voluto. Quanta verità si nasconde sotto la verità.

La lotta per la vita rende vivissima Kiki. Tamara de Lempicka, con l’immenso successo aggiuntosi a una vita partita in modo facile e agiatissimo, tenore riconquistato dopo il rovescio rivoluzionario grazie proprio all’esperienza pittorica, ha conosciuto una fortissima depressione. Alice Prin, in arte Kiki de Montparnasse, non si è mai potuta permettere la depressione. L’ha vissuta di certo, ha sperimentato anche un po’ di psicosi e paranoia nel “periodo Mendjisky”, ma in genere si è lasciata guidare dal luccichio che l’ha sempre accompagnata, la scintilla di attaccamento alla bellezza della vita che ha sempre avuto dentro, anche quando andava in giro per Parigi con scarpe da uomo numero 40 o riparava quelle dei soldati in fabbrica durante la Grande Guerra. L’ha vinta temporaneamente a colpi di sbronze e sniffi di coca, a furia d’indigestioni erotiche con amanti occasionali di entrambi i sessi. Pure la baronessa polacca si è data alla bella vita e agli stravizi dissoluti nella Parigi degli Anni folli, ma si è anche concessa un ritiro in convento, e poi un secondo marito nobile quanto lei, per un epilogo agiato negli Stati Uniti in attesa che la sua arte tornasse in auge con nuova risonanza. È vero, non le mancava il genio. Tamara è una vera pittrice, la regina dell’Art Déco, non un fenomeno spontaneo e incolto come Kiki.

Quest’ultima, lo si è detto, è stata soprattutto una modella. Cantante per allegria e sopravvivenza, cabarettista e animatrice delle notti parigine, amica degli artisti e loro musa. Icona del Surrealismo, ha sognato di fare “film veri”, rimanendo vagamente delusa dalle pellicole che oggi, una volta di più, la consacrano opera d’arte. Avrebbe preferito essere attrice. Con l’amica Thérèse Treize, andavano in giro per i caffè, ciascuna con un topo ammaestrato sulla spalla. Un vezzo da dive per il quale non ha mai però sconfessato le sue origini di popolana. Immessa nel centro gravitazionale della cultura e dell’estetica del Novecento, tra un saluto a Modigliani, una posa da Picasso, una conversazione con il raffinato Cocteau e un ritratto preso ad Eisenstein, la modella ha sempre trovato il tempo e la voglia di andare nei club a cantare canzoni condite con lazzi da trivio. È la voglia di vivere a farla brillare, l’irriducibile voglia di vivere che le impone fino all’ultimo di “non lasciarsi abbattere”. Anche “lo scaldino tra le gambe” è espressione di quella voglia di vivere, spinta primordiale verso una procreazione che non avverrà, verso una rivincita sull’esistenza che solo tramite l’arte – la capacità d’ispirare l’arte – riuscirà a conseguire.

Ho conosciuto un americano che fa delle belle fotografie (…). Mi dice: «Kiki, non guardarmi così! Mi turbi!», scrive nel capitolo dei Souvenirs del 1929 soppresso poi nel 1938. Man Ray è turbato dallo sguardo della modella, e ciò è preludio d’ispirazione. C’è qualcosa, nell’anima onnivora della ragazza cresciuta a pane e tè, che sollecita corde segrete nello spirito dell’artista. C’è un luccichio nello sguardo che il pittore cerca di possedere immobilizzando il corpo nella fissità della posa. Eppure quella scintilla dagli occhi sfugge ancora alla posa, e prende forma in quella che per Kisling è malinconia e per Foujita erotismo, per Krohg semplice, irriducibile vitalità. Parte dal suo corpo ma non è lì che ha origine, non nella carne che ingrassa e dimagra, ma nello sguardo che la fotografia allarga e appuntisce prima di archiviarlo, negli occhi che solo l’artista sa accordare col naso per stringerne lo spirito. Le gambe sono distese o raggomitolate come il pittore vuole, il sorriso è allentato come desidera lo scultore e le braccia stanno nella posizione decisa dal fotografo. Eppure sfugge, il luccichio, da quel lontano marciapiede di Châtillon-sur-Seine in cui ha lottato per accendersi, scintilla lungo l’esistenza e illumina i marciapiedi dei boulevard, le terrazze dei caffè, balugina oggi in ogni quadro, nel ricordo che i poeti e gli scrittori porgono di lei.

NIKI E JEAN – Eva e Adamo nel Giardino dei Tarocchi

 NIKI E JEAN

Eva e Adamo nel Giardino dei Tarocchi

Estratto dal libro Psicovita di Niki de Saint Phalle di Marco Ongaro (Historica Ed. 2015)

Jean Tinguely era Superman e Niki de Saint Phalle era Wonder Woman, si stimolavano a vicenda con l’ammirazione e la competizione. Chi fa cose più estreme, più grandi? Chi aiuta di più l’altro? Il loro rapporto d’amore è indissolubile dall’arte. “EUREKA! Ho avuto l’idea di chiedere a Jean Tinguely di trasformare la Ruota della fortuna in una fontana con l’acqua che sarebbe sgorgata dalla bocca della Papessa”, scrive nelle brevi spiegazioni che compaiono sulle sue carte dei Tarocchi.

Harry Mathews e Niki hanno in comune due figli e una nipotina, Jean e Niki no. Eppure Bloum, di cui Niki è nonna, è innamorata di Tinguely e gli fa scenate di gelosia da piccolissima perché lui prepara la colazione per portarla a letto alla sua regina.

Li descrive meravigliosamente come coppia. Niki sempre inappuntabile negli elegantissimi abiti Dior disegnati su misura, tanto charmante da venire rimproverata dalla congrega dei Nouveau Réaliste perché poco scapigliata, troppo in ordine, in fondo poco credibile secondo la società dell’immagine che sempre circonda coloro che le immagini le creano. Lui costantemente avvolto in una tuta blu da operaio, in giro in macchina con una nipotina piccolissima e una squadra di saldatori sfasciacarrozze sempre in cerca di rimasugli industriali da inserire nelle bislacche opere del capomeccanico. Qualche volta una giacca molto modesta in una specie di nylon a dargli un tocco da operaio rivestito in fretta per un appuntamento importante.

Jean è un intellettuale, teorico e pratico dell’arte che lavora in trance, di getto, in fretta per non lasciarsi sfuggire il sogno, l’idea, senza quasi riflettere, con stupefacente capacità d’improvvisazione. Niki non ama regole e teorie di cui sono intrisi gli artisti maschi, suoi compari, è riflessiva ma sognatrice, un’antenna parabolica che assorbe segnali dal mondo, li traspone sulla carta sotto forma di disegni e li restituisce al mondo trasformati in arte monumentale. Dalle parole di Tinguely “Niki era assai più tranquilla (di Eva Aeppli, sua prima moglie n.d.r). Aveva la tendenza a sedersi al tavolo, a disegnare a lungo… E questo mi portava automaticamente a riflettere, mentre disegnavo… Prima del 1960 disegnavo sulle tovaglie, esprimevo un’idea in gran fretta, vagamente… Con Niki ho cominciato a sognare”.

Con Niki, Jean si è seduto a riflettere. E Niki, con lui? Lei si è buttata nella grandiosa avventura artistica accettando la sfida che Tinguely e il gruppo di artisti sciamani e visionari che lo circondavano le hanno lanciato. Di sicuro insieme, Niki e Jean, hanno pescato e ri-assemblato gli scarti dalle discariche della vita per farli esplodere in spettacolari e apocalittiche, quanto irriverenti e dissacranti, bombe nucleari artistiche.

E l’amore? Com’è il rapporto d’amore tra questi due sposi separati eppure sempre in contatto, sempre a misurarsi perfino sugli amanti che rispettivamente hanno? Chi sono questi due che convivono con altri, che hanno figli con altri? Jean ne ha segretamente uno nella pancia di un’amante e appena lo scopre corre a sposare Niki per assicurarsela e non concederle mai più il divorzio. Lei e il giovane scrittore Constantin Mulgrave convivono quattro anni, è un grande amore. Jean accetta che Constantin occupi il letto di lei, non lo tratta male, ma impone la sua presenza a casa quando gli gira, lascia le lettere nel “proprio” cassetto, fa come fosse a casa sua e quella fosse sua moglie. Lei È sua moglie. La casa è di lei, ma lei È sua moglie. La prima moglie di lui, Eva Aeppli, è grande amica di entrambi. L’amante di Jean, Micheline Gygax, la madre del famoso figlio Milan che causò le nozze improvvise tra Tinguely e la Saint Phalle, scambia telefonate con Niki per avvisare quando sta arrivando Jean, così che sappia regolarsi con chi ha nel letto, e viceversa. Chi sono questi due, insomma, come stanno insieme o separati? Cosa li lega?

La carta dei Tarocchi degli Innamorati, chiamata anche La Scelta, è così illustrata da Niki: “Alcuni mazzi di Tarocchi chiamano questa carta gli Innamorati. Adamo ed Eva erano la prima coppia ed hanno fatto la prima scelta. È per questo che li ho scelti per rappresentare questa carta. La carta implica che c’è una scelta giusta e una scelta sbagliata. Un errore ci può portare a capire meglio noi stessi”. Nel Giardino sono rappresentati come Adamo ed Eva seduti a un tavolo da picnic in mezzo all’erba. Qualunque sia la scelta, l’errore non sarà mai fatale, basta continuare a stare insieme, non lasciarsi mai del tutto.

Lui fa congegni inutili, gigantesche macchine che hanno come unico scopo quello di mostrare il loro aspetto ludico. Lei trasforma i miti in gioco, e Niki e Jean s’incontrano sul territorio del gioco. Così fanno arte i due artisti, i due innamorati che non scelgono. Perché scegliere è soluzione evolutiva che deteriora la purezza dell’esistenza primordiale. E loro stanno giocando con l’essenza del gioco, che è l’essenza dell’universo.

“C’è una scelta giusta ed una scelta sbagliata. Un errore ci può portare a capire meglio noi stessi”, dice Niki della carta degli innamorati. Loro rappresentano la scelta e la scelta è sempre tutte e due le scelte, quella giusta e quella sbagliata, perché senza l’errore non s’impara niente e fare solo scelte giuste comporta la rinuncia a metà dell’esistenza. Gli innamorati sono due metà che si uniscono, due scelte che diventano una. Ma devono anche restare singole scelte possibili. E il letto di Niki viene visitato da innamorati altri, così come quello di Jean. Bloum scrive che all’epoca si usava così.

Si è sempre usato così in certi mondi, a certi livelli di realtà. Niki si fidava totalmente solo di Tinguely, lui solo di Niki. Le loro opere hanno continuato a incontrarsi per tutta la loro vita. L’impegno a proseguire e curare l’uno l’opera dell’altra in caso di morte prematura è stato rispettato da chi è sopravvissuta all’altro e ne ha completato il Ciclope. Le macchine e le fontane necessitano manutenzione. La squadra strepitosa delle maestranze artistiche di Jean, spesso condivisa con Niki, non è disponibile in eterno. Ecco perché una fondazione come la Niki Charitable Art Foundation ha senso. Per le opere di lei e per quelle di lui, per le opere che insieme hanno costituito l’essenza della loro vita insieme, il loro amore superamore, superiore alle liaison, agli amanti, molto al di sopra dei tradimenti che tra loro non sono mai esistiti.

La bella e la bestia, lei sottile e perfetta, lui operaio anarchico, scuro e brutale saldatore, disegnatore di mostri meccanici dalle dimensioni calcolate a occhio, a occhio nudo come i grandi architetti concepiscono opere incommensurabili senza l’aiuto di una laurea accademica. Lei a coprire con i colori e i disegni apparentemente puerili, intrisi di sapienza profonda, le macchine che lui costruisce in preda a visioni di assemblaggio postindustriale, postmoderno, post-realista, post-pop, post-post. Lei ingentilisce con la sua bella violenza la gentilezza segreta nei macchinari di lui. Il vero rapporto sessuale tra i due è nell’arte, un’avventura infinita di strutture a sostegno della femminilità e di veli e colori a coprire ruvide angolarità metalliche maschili. Questo è il loro amore infinito. In ciò Niki non mente quando scrive nel 1990 all’uomo che morirà l’anno seguente: “Non ci si lasciò più”.

Difficile comprendere un’affermazione tanto categorica alla luce degli amanti, dei figli di lui, dei figli e nipoti di lei, in una famiglia allargata con ex mariti ed ex mogli in giro per casa. Ma la famiglia è sempre stata ristretta al numero due di un creatore di congegni e della sua musa pronta a renderli meno brutali, a coprirne le fattezze rudi con la bellezza semplice e maliziosa che nasce nello sguardo del bambino. Così loro due, gli Innamorati che hanno scelto entrambe le scelte, quella giusta e quella sbagliata, sono diventati i protettori dei bambini, creando per loro giocattoli da esibirsi in pianta stabile nelle fontane e nelle piazze, trabiccoli semoventi dai colori vivi del balocco, raffiguranti mostri spaventosi resi accessibili con scivoli e scalette, con finestre al posto degli occhi e porte nelle bocche. Come nelle favole migliori, li fanno addormentare ridendo, non a occhi chiusi per il terrore.

Niki de Saint Phalle lascia questo mondo il 21 maggio del 2002 per complicanze polmonari, a La Jolla, in California. Ma la commovente commemorazione avviene a Parigi, nella chiesa di Saint-Merri, dietro alla piazza Stravinskij in cui un’allegra fontana unisce per sempre nella memoria Niki al suo Jean. La morte dell’una viene ricordata nel punto più vicino al ricordo di entrambi, indissolubili nell’arte molto più che nella vita.

Nel Giardino dei Tarocchi la scultura che raffigura gli Amanti quasi sfugge alla vista, tanto l’occhio si è abituato alla megalomania delle altre. Sono Eva e Adamo millenni più tardi, ancora alle prese con il gran trambusto che hanno combinato. Indulgenti reciprocamente verso i rispettivi errori: “Che stupido sono stato, tu non fare mai una cosa così!”, riferisce Bloum dai loro dialoghi. Protettivi e comprensivi, lui protervo e ingombrante, lei sottile e determinata, non si lasceranno mai, neanche dopo la morte. Resteranno sul limitare del Giardino alle prese con un mistero che hanno quasi compreso e presto confuso.

Potrebbe forse non esserci un serpente in loro compagnia?

IL PARADOSSO DEL VERO PICASSO

IL PARADOSSO DEL VERO PICASSO

Estratto dal libro Elogio dello snob di Marco Ongaro (Historica Ed. 2017)

Arthur Koestler (1905-1983) nel saggio L’atto della creazione racconta di una signora che colloca un disegno di Picasso sulle scale fintantoché lo crede una copia, per poi appenderlo al posto d’onore in salotto non appena viene a conoscenza della sua autenticità. Il Duca di Bedford nel suo pamphlet sullo snobismo teorizza che il quadro, in virtù della corretta attribuzione d’autore, abbia acquistato non solo un valore simbolico ma anche estetico. «Brillava, era fonte di delizia e di sincera commozione per le stesse persone che prima erano passate a pochi passi dallo stesso quadro con assoluta indifferenza». È a proposito di questo rappresentativo episodio di snobismo che il Duca afferma che «l’apparenza è realtà» attribuendo all’ipocrisia l’essenza dello snob.

Certo, è l’essenza dello snob che vuole farsi riconoscere in quanto individuo attiguo a nomi altisonanti, possessore di status symbol di casta, auto eleganti, abbigliamento comme il faut, appiccicato a mode in cui identificare una guida al comportamento, al vestire, alla tendenza culturale condivisa da “chi conta”. Questo è il povero snob alla Bouvard e Pécuchet, che non capisce l’essenza di ciò che dovrebbe ammirare per apparire nobile e si affida dunque alla fama già acclamata da altri. Non è certo lo snob dandy, che nello sprezzo di quella fama si elegge ad arbitro del gusto snobbando le mode non appena ne avverte l’olezzo.

In questo aneddoto, tanto Koestler quanto Bedford, lasciano fuori il vero snob, il dandy che supera le classi fregandosene altamente e traendone profitto, il magnete, l’autentico per eccellenza, il creatore che non parla di nessuno e di cui tutti parlano, l’uomo spettacolo che ha animato senza curarsene le meschine vicende snob di quella dimora signorile: Pablo Picasso.

Né Koestler, né il XIII Bedford né tantomeno l’oscura signora proprietaria della casa e del disegno eguaglieranno mai lontanamente in fama e aristocrazia dello spirito l’artefice dell’opera, che nella consapevolezza della sua implicita nobiltà soleva riferirsi a Dio come a «l’altro artigiano».

Il suo nome nel certificato di nascita è Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Ruiz y Picasso. Nato a Malaga nel 1881, a vent’anni per distinguersi sceglie il cognome della madre, quel cognome di origine ligure che celebrerà la sua grandezza nel mondo con il suono e l’immagine di un marchio registrato.

Suo padre è un pittore di modesta levatura e insegnante, sposato a una cadetta di possidenti terrieri da parte di madre. Dalle prime parole che la mamma asserisce di avergli sentito pronunciare, «piz, piz», abbreviazione di lápiz, che in spagnolo significa «matita», si capisce che la nobiltà ricercata e trovata da Pablo sarebbe appartenuta a un ambito aristocratico diverso. Divenuto uno degli artisti più ricchi del mondo, se ne sarebbe rimasto sempre in disparte, nonostante l’inguaribile protagonismo, con l’atteggiamento blasé del monarca assoluto, alternando a un abbigliamento di vistosa eleganza, una tuta da operaio o una tenuta più volte fotografata dai massimi ritrattisti dell’epoca nel sud della Francia e consistente in un paio di pantaloncini corti larghi, a torso e piedi nudi.

Un dandismo di ritorno assimilabile a quello di Gandhi, non fosse per l’immensa distanza morale tra i due.

Quello di Picasso è lo snobismo vincente del genio, radicato nella coscienza di un’arte che solo alcuni, i migliori, riescono a comprendere pienamente e tutti gli altri fingono di accogliere con entusiasmo per pura ignoranza. La fame iniziale, il sospetto di anarchismo che gli sarebbe valso il rifiuto della naturalizzazione francese pur avendo vissuto in Francia per la maggior parte della sua vita, la curiosa adesione al comunismo combinata con il calcolo minuzioso delle quotazioni dei quadri, la misurata gestione dei collezionisti per trarre il massimo guadagno dalla propria opera e il senso innato per l’opportunità pongono Picasso all’incrocio dei venti di tutti gli snobismi tra Ottocento e Novecento senza mai incasellarlo in una categoria classificabile. La sua opera e il suo nome diventano status symbol del jet-set internazionale e modello di primissimo ordine per ogni rango dell’arte moderna.

Circondato da poeti, riconosce la poesia come unico complemento alla sua arte, il poeta come unica compagnia degna. Nutre la propria tirannia sull’amore femminile in virtù di una potenza creatrice senza rivali, cui aggiunge un connaturato senso del marketing che lo conduce alla vetta del successo mondiale, in posizione superiore a qualunque nobile più o meno snob. Non c’è regina o sovrano che possano ambire alla sua elevatezza, nessuno che lo possa snobbare senza apparire sprovveduto.

Dipinge quadri cubisti con Georges Braque e non si perita di firmarli, lasciando dubbi ancora insoluti in merito alla paternità delle opere. Fondatore insieme a Braque del Cubismo, se ne chiama fuori come Guglielmo Marconi potrebbe chiamarsi fuori dalla radiofonia. Scrutatore e anticipatore di mille correnti, non se ne lascia catturare ma le precorre tutte fino a oggi, imitando qualunque genere in modo inimitabile.

Nel nostro secolo, successivo al suo, la casa automobilistica Citroën ha in catalogo un’auto che ne porta il nome e la firma. Non perché Picasso ne abbia siglato la linea della carrozzeria, ma perché qualche erede ne ha permesso l’uso da parte della Citroën come marchio di garanzia artistica. Una forma di snobismo al contrario ha preso l’esempio inverso dalla pop art dell’altro dandy di nome Andy Warhol, appropriandosi della firma per avvalorare l’artisticità di un prodotto seriale anziché trasformare il prodotto stesso in opera d’arte esposta nelle gallerie. Non è la Coca-Cola a brillare in una serigrafia bensì la calligrafia e il nome di Picasso a viaggiare sulla lamiera delle auto in serie.

Morto nel 1973 alla veneranda età di 91 anni, ha trasformato ogni donna amata in una regina più o meno infelice e ogni figlio in un erede di alto lignaggio, con destino non sempre fortunato quanto la ricchezza paterna avrebbe lasciato immaginare. Avaro e munifico come chi non deve niente a nessuno, ha donato mille dipinti inestimabili alla città di Barcellona e altri a Parigi. Echi della sua ricchezza risuonano in un orfanotrofio del Vietnam lontano, come lascito remoto di aventi diritto che gli sono sopravvissuti per qualche tempo.

Le sue parole in punto di morte riecheggiano con maggior leggerezza quelle del Cristo, dandy leggendario ancora insuperato: «Bevete alla mia salute».