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CASANOVA DANDY

CASANOVA DANDY

Estratto dal libro Elogio dello snob di Marco Ongaro (Historica Ed. 2017)

È Giovanni Giacomo Casanova, che alla presunta ascendenza nobiliare per il sospetto di esser figlio naturale del nobile Michele Grimani aggiunge l’autonomina a Cavaliere di Seingalt, a costituire una autentica prelibatezza in chiaro odore di dandismo senza che nessuno si sia premurato d’includerlo nelle sue fila. È lui lo snob più riuscito nella continua ambizione a una migliore condizione, sociale, economica, d’ingegno, che mai gli viene riconosciuta e che a sprazzi, incessantemente, conquista e perde. Lui che da tanta passione è mosso a parole, mostra nei fatti un disinteresse smisurato per ogni aspirazione regolarmente realizzata tanto da farsela presto sfuggire di mano, curando abbigliamento ed eleganza, intelligenza e garbo come l’arbitro del gusto del suo tempo per poi mescolarli alla volgarità della nobiltà circostante, inevitabilmente inferiore ai suoi sforzi.

Scrive nelle sue Memorie: «Non avendo mai visto un re in tutta la mia vita, credevo, per una strana idea, che un re dovesse avere qualcosa di eccezionale, quanto a bellezza e maestà di aspetto, non comune agli altri uomini. Ero un giovane repubblicano che ragionava e la mia idea non era del tutto stupida; ma me ne sono liberato ben presto, quando ho visto il re di Sardegna, brutto, gobbo, imbronciato e trasandato anche nei suoi modi».

La superiorità del dandy è facilitata dall’inferiorità regale.

«Pur presumendo molto di me, non nutrivo in realtà alcuna fiducia in me stesso», è la sua dichiarazione più onesta e falsa. Consapevole dell’importanza dell’apparire, fa dell’apparenza il punto di forza senza mai cedervi fino in fondo, compromettendo così il successo che, se gli fosse stato davvero a cuore più della libertà, avrebbe conseguito in ogni sua impresa. Non per niente è l’unico a evadere dai Piombi, famigerato carcere veneziano. Picarescamente attratto dalle avventure quotidiane, ne rimane impregnato solo al fine di narrarle, adorando sopra ogni cosa la propria mitopoiesi.

In questo è vero precursore di Baudelaire più che di Brummel: nel riconoscimento della superiorità della scrittura, dell’unica nobiltà delle Lettere, della forza postuma di ogni progetto abortito, purché minimamente scritto. Enorme la mole di avventure del Veneziano, immenso il monumento registrato nelle Memorie in francese, lingua universale dell’epoca, cui nessuno snob avrebbe saputo resistere. A classificarlo snob è la sua natura, a classificarlo dandy è la sua superiorità intellettuale, la sua intima indipendenza da qualunque vincolo sociale.

Nelle sue Memorie si leggono aneddoti che sarebbero piaciuti a Thackeray, in anticipo su di lui di una cinquantina d’anni.

Gli dei che qui si venerano, anche se non hanno altari, sono le novità e la moda. Basta che uno si metta a correre perché tutti gli corrano appresso. Si fermeranno soltanto quando scopriranno che è matto; ma una scoperta simile è come bere il mare.

Sta parlando della città di Neully, della quale racconta un sapido esempio di snobismo volgare che il dandy ch’è in lui deride vivace.

Il nostro re un giorno, andando a caccia, si trovò al ponte di Neully e gli venne voglia di bere del ratafià. Si fermò a un’osteria e chiese del ratafià; per puro caso il povero oste ne aveva una bottiglia. Il re ne bevve un bicchiere e poi disse agli astanti che quel liquore era eccellente, e ne chiese un altro. Non c’è stato bisogno di altro per fare la fortuna dell’oste. In meno di ventiquattr’ore tutta la corte e l’intera città seppero che il ratafià di Neully era il miglior liquore d’Europa, perché l’aveva detto il re. Le compagnie più in vista cominciarono ad andare a mezzanotte a Neully per bere del ratafià e in meno di tre anni l’oste si arricchì e fece costruire nel medesimo luogo un edificio sul quale potete leggere la scritta ex liquidis solidum, abbastanza comica, che fu dettata a quell’uomo dai nostri accademici.

Da questa parabola istruttiva, non si evince soltanto il senso di superiorità che il vero snob nutre nei confronti dei meri conformisti seguaci dell’apparenza più vieta, ma pure l’idea di una superiorità trasversale che nutre nell’osservatore dandy il suo distacco dalle miserie umane.

TUTT’INTORNO ALLA TORRE DI GUARDIA

TUTT’INTORNO ALLA TORRE DI GUARDIA
Articolo di Marco Ongaro pubblicato sulla rivista 
Inchiostro 

La colonna sonora della fortunata serie tv The young pope per la regia di Paolo Sorrentino è una versione che il rapper Devlin ha fatto di un classico di Bob Dylan, All along the watchtower, a suo tempo rivisitato da Jimi Hendrix in una ancor più celebre versione. A riprova di come un classico suoni sempre nuovo all’orecchio delle nuove generazioni, il brano inserito dal menestrello di Duluth nell’album John Wesley Harding nel 1968 rotola ancora nell’etere nella fiction tv di maggior successo della scorsa stagione.
Un classico è un’opera dell’ingegno che continua a rispondere a una domanda che forse non era ancora stata posta. Se non c’era risposta nella Blowin’ in the wind del 1962, in All along the watchtower forse non c’è domanda, e in questa vaghezza sta il segreto della sua universalità. L’universo è irrimediabilmente vago, a dispetto degli sforzi dei fisici che cercano di definirlo, teorizzarlo e riteorizzarlo. Così com’è vaga da sempre l’esistenza. Ben prima che Sartre venisse a ricomporla in forma di “posizione” e “situazione”, da secoli le grandi religioni monoteiste che hanno scalzato la pletora divina degli Olimpi aggiungevano fantasia a vaghezza nello sforzo di perimetrare l’essere e l’esistere, il tempo per vivere e il tempo per morire.
L’album di Dylan che contiene la canzone affonda le radici nella visione religiosa degli umani, attribuendo al fuorilegge John Wesley Harding un’aura messianica non distante da Cristo. Tutto l’album trasuda Sacre Scritture e loro rivisitazioni, incluso Sant’Agostino venuto in sogno e il Landlord padrone di casa del Regno. Nel libro The Bible in the Lyrics of Bob Dylan, Bert Cartwright indica sessanta citazioni provenienti dalla Bibbia di Re Giacomo nell’album, quindici nella sola The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest. La madre di Dylan ha raccontato di come fosse sempre presente una grossa Bibbia sulla scrivania del figlio nella casa di Woodstock in quel periodo. Bibbia da cui Bob prende spunto e ispirazione per scrivere i testi delle nuove canzoni nel periodo di riflessione ed essenzialità che segue il quasi fatale incidente motociclistico del 29 luglio 1966 nei pressi di quella casa. Dylan è ancora lontano dalla presa di posizione che nel 1977 lo porterà momentaneamente a convertirsi al Cattolicesimo, nondimeno è immerso per estrazione ebraica nelle Scritture che stanno all’origine della scrittura.
Il primo gesto dell’uomo nel vergare segni su una superficie è stato di ordine religioso. Dalle scene di caccia nelle caverne ai geroglifici egizi, dal Genesi ai poemi omerici la scrittura è stata principalmente sacra e il poeta lo sa. Dylan è poeta, e il sillogismo è presto fatto.

Ecco il testo della canzone

Dovrebbe esserci una via d’uscita
disse il giullare al ladro
c’è troppa confusione
non riesco a trovare sollievo
gli affaristi bevono il mio vino
i contadini arano la mia terra 
Nessuno che alzi il livello
Nessuno che valga la pena

Non c’è motivo di agitarsi
disse gentilmente il ladro
sono in molti qui tra noi
a sentire che la vita non è che uno scherzo
ma tu e io ci siamo passati
e non è questo il nostro caso
dunque smettiamo di raccontarcela
l’ora si sta facendo tarda

Tutt’intorno alla torre di guardia
i principi stavano all’erta
mentre tutte le donne andavano e venivano
come pure i servitori scalzi
lontano nella distanza
una lince ringhiava
due cavalieri si stavano avvicinando
e il vento cominciò a urlare

Una volta menzionata la modifica testuale operata da Jimi Hendrix sugli ultimi due versi della prima strofa, in cui la visione sconsolata del giullare sull’inutilità e lo scarso livello della scena generale vengono ridimensionati a una colloquialità meno profetica (Nessuno che alzi il livello / nessuno che valga la pena di Dylan diventa in Hendrix Nessuno di loro su tutta la linea / conosce il valore di questo), non resta che osservare l’intero testo per rinvenirvi gli stimoli pregnanti del classico. Fin troppo facile è risalire ai rimandi biblici, in particolare al libro del profeta Isaia, laddove si parla di una torre di guardia, si preannuncia la distruzione di Babilonia e si rileva l’inquietante presenza di due cavalieri. Limitarsi alla sola chiave delle Sacre Scritture sarebbe svilire la potenza evocativa simultanea di un poeta lisergico e modernista come Bob Dylan. E parliamo proprio di Modernismo inteso come corrente poetica, riconoscendo nelle donne che “andavano e venivano”, un richiamo alla poesia di Thomas S. Eliot Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock:

Nelle stanze le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo

Il distico-ritornello posto da Eliot a emblema della vacuità dei ricevimenti mondani e dell’arte usata come argomento di conversazione in società sarà ripreso anche da Francesco De Gregori, fedelissimo dilaniano, nella sua Buenos Aires dell’album Viva l’Italia.

Le donne vanno e vengono
Nel porto di Buenos aires

Ecco che la Bibbia miscelata alla poesia del cristianissimo Eliot s’innalza alla potenza evocativa di tutti i secoli che ci stanno in mezzo. Secoli trascorsi inutilmente o nell’attesa dell’Armageddon che la rivista dei Testimoni di Geova, non a caso intitolata Torre di guardia, sventola ostinatamente sotto il naso di borghesi semiaddormentati la domenica mattina. I due personaggi che discorrono nella canzone di Dylan sono alquanto rappresentativi. Uno è il giullare, il buffone di corte, l’altro è il ladro. Il Joker delle carte, la matta, quello che non prende niente sul serio ma è pure in grado di sostituire tutte le altre carte, si lamenta di vedere il proprio lavoro vanificato. Il suo compito, lo dice la parola, è quello di scherzare (joke), ma ormai lo fanno tutti. Sono le altre carte a sostituire lui. Gli affaristi gli bevono il vino e i contadini gli rubano la terra. Ed è con il ladro che si lamenta dei furti, ladro che lo tranquillizza in merito al lavoro del buffone: sono in molti qui tra noi / a sentire che la vita non è che uno scherzo (joke). Questo però non è il loro caso, sono gli unici due a sapere come stanno le cose. La vita non è uno scherzo, soprattutto quando tutti diventano buffoni e ladri, rubando il lavoro agli unici seri professionisti tenuti a ridimensionare l’illusorietà esistenziale verso un senso meno fasullo del reale. Devono smettere di raccontarsela, loro che sanno come funzionano le cose, maestri di ipocrisia (come il poeta-lettore baudelariano mon semblable – mon frère). Si sta facendo tardi.
E nella terza strofa esplode oggettiva, fuori dalla loro conversazione, tutta la gravità della situazione: segni e segnali di sterilità e minaccia circondano i poveri sforzi dei principi di vedetta e delle donne affaccendate con i servitori scalzi. Il presagio cristallizzato nella distanza millennaria si sta attualizzando negli indizi che solo la poesia più recente sa interpretare. La lince, il wildcat americano ringhia in lontananza. Ma il wildcat nello slang d’oltreoceano è anche la trivella petrolifera che ringhia in una terra dove il petrolio non c’è. L’aridità da Terra desolata canta rudemente in quelle inutili, ostinate perforazioni. E il vento non fischia, il vento cui la Sibilla affidava la risposte non soffia ma ulula come un coyote, o meglio urla (Howl) come il Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg,

Ho visto le menti migliori della mia generazione
Distrutte dalla follia
Affamate nude isteriche
Trascinarsi per strade di negri all’alba
In cerca di droga rabbiosa

L’ultima parola dell’ultima strofa della canzone riprende il vento di Blowin’ in the wind e lo attualizza nella catastrofe della beat generation (beat come “colpo” ma anche come “beato”, esiste illusione più ambivalente?). Il timore è che quel vento tanto volubile improvvisamente scarichi la sua risposta sull’umanità, mettendola di fronte alla vacuità della sua esistenza con un urlo che è appena cominciato.
La scena rimane congelata, gravida di premonizioni, il canto del profeta è come l’esametro della sacerdotessa, deve restare sospeso come un monito. Non si può negare che nello scegliere questa canzone a sigla del suo Young Pope, Paolo Sorrentino sia stato tutt’altro che superficiale.

RISPOSTA NON C’È – Dalla Sibilla a Mogol

RISPOSTA NON C’È – Dalla Sibilla a Mogol

Articolo di Marco Ongaro pubblicato sulla rivista Inchiostro

Così la neve al sol si disigilla,
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.

Così Dante, nei versi 64-66 del XXXIII Canto del Paradiso, rammenta la peculiarità del responso affidato al vento nell’Antro della Sibilla, a Cuma presso Napoli o in altri luoghi ventosi deputati allo scioglimento dei suoi oracoli. La sacerdotessa ispirata da Apollo, dio della veggenza come della poesia, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma che, alla fine della predizione, erano mischiate e ingarbugliate dai venti delle cento aperture dell’antro, illudendo i destinatari sulla non definitiva pertinenza delle profezie al loro riguardo. Il messaggio era affidato al vento, dunque al caso, chissà se la risposta era davvero per loro o per il vicino. Come se non ci fosse un dio anche per il vento, il vecchio Eolo, figlio di Poseidone.
Il paradosso spaziotemporale su cui si fondano le predizioni se ne infischia di certi trucchetti. Non a caso il poeta Jean Cocteau ha intitolato la sua versione dell’Edipo, vicenda mitologica che dei responsi sancisce il beffardo trionfo, La macchina infernale. Gli Olimpici giocano col destino umano e si fanno beffe di chi cerca di sventarlo o ingannarlo ottenendo scorci di visione anticipata. Se la visione davvero penetra il futuro, lo trasforma in passato, dunque nessuna modifica è possibile. A che scopo interrogare l’oracolo?
Lo scrittore beat William Burroughs si era illuso non meno dei postulanti della Sibilla di raggirare il destino – l’arabo Mektoub: “è scritto” – tagliando e sminuzzando i testi per ricomporne le parole in connessioni casuali, perciò rivelatrici di verità oltre l’avarizia delle risposte divine. Né Burroughs né i postulanti greci hanno mai ottenuto soddisfazione all’ambigua ricerca di un responso sul futuro.
La domanda all’oracolo è la prima cugina della preghiera al dio.