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Il Blog di Marco Ongaro.

Qui si trovano articoli che Marco Ongaro ha scritto per alcune testate giornalistico-culturali e scritti vari

Ascoltare Dylan in Iran – Ironia dell’ipocrisia

ASCOLTARE DYLAN IN IRAN – Ironia dell’ipocrisia
Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Bob Dylan pubblica With God on Our Side nel 1964. Una canzone tristemente ironica in cui la visione umana di Dio, tirato dalla propria parte dai vari clan che intendono giustificare la propria condotta in fatto di guerra, soprusi e atrocità, si presta a ogni insana manipolazione storica. Così lo sterminio dei nativi, la guerra ispano-americana, la guerra civile statunitense, le due Guerre mondiali, la Guerra fredda, la Shoah, e perfino il tradimento di Gesù da parte di Giuda vengono di volta in volta etichettati come cause protette se non promosse dalla volontà divina.

Oh il mio nome non è niente
La mia età conta meno ancora
Il paese da cui provengo
Si chiama Midwest
Mi hanno cresciuto lì e insegnato
Le leggi da rispettare
E quella terra in cui vivo
Ha Dio dalla sua parte

Oh, lo raccontano i libri di storia
Lo raccontano così bene
Le cavallerie caricarono
Gli indiani caddero
Le cavallerie caricarono
Gli indiani morirono
Oh, il paese era giovane
Con Dio dalla sua parte

Lo guerra ispano-americana
Ha fatto il suo tempo
E anche la guerra civile
Fu presto messa da parte
E mi son stati fatti memorizzare
I nomi degli eroi
Con le pistole in mano
E Dio dalla loro parte

La prima guerra mondiale, ragazzi
È venuta ed è andata
La ragione per combattere
Non me l’hanno mai data
Ma ho imparato ad accettarla
Accettarla con orgoglio
Perché tu non conti i morti
Quando Dio è dalla tua parte

La seconda guerra mondiale
Arrivò ad una conclusione
Perdonammo i Tedeschi
E poi fummo amici
Anche se ne hanno uccisi sei milioni
Li hanno fritti nei forni
Adesso anche i Tedeschi
Hanno Dio dalla loro parte

Ho imparato a odiare i Russi
Per tutta la mia vita
Se arriva un’altra guerra
È contro di loro che dobbiamo combattere
Per odiarli e temerli
Per scappare e nascondermi
E accettare tutto questo con coraggio
Con Dio dalla mia parte

Ma ora abbiamo le armi
Di polvere chimica
Se siamo costretti a bruciarli
Allora dovremo bruciarli
Una pressione sul pulsante
E uno sparo in tutto il mondo
E non fare mai domande
Quando Dio è dalla tua parte

Attraverso molte ore buie
Ci ho pensato
Che Gesù Cristo fu
Tradito da un bacio
Ma non posso pensare per te
Dovrai decidere tu
Se Giuda Iscariota
Aveva Dio dalla sua parte

Quindi ora mentre me ne vado
Sono stanco da morire
La confusione che sto provando
Nessuna lingua può dirla
Le parole mi riempiono la testa
E cadono sul pavimento
Che se Dio è dalla nostra parte
Fermerà la prossima guerra
A parte l’ultima strofa, la canzone trasuda ironia, figura retorica che consiste nel dichiarare l’opposto di ciò che si pensa, uno strumento straordinario contro l’ipocrisia, che consiste nel fare il contrario di ciò che si dichiara, a patto che si sia in grado di rendersi conto che di ironia si tratta. Le metafore, quando sono elevate e non si limitano a una frase ma a un intero corpus simbolico, vanno colte con l’intelligenza o finiscono per essere interpretate letteralmente mettendo in scena nonsense, quando non addirittura significati antitetici a quanto desiderato nel formularle.
Così può accadere che il video girato dai boia iraniani prima dell’esecuzione del ventitreenne Majidreza Rahnavard, giovane impiccato per aver partecipato alle proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, colpevole di non aver indossato il velo in modo corretto il 13 settembre 2022 in un luogo pubblico a Teheran, venga divulgato dai suoi giustizieri per avvalorare la sua condanna a morte senza processo. Le sue ultime volontà: «Non piangete sulla mia tomba, non leggete il Corano, non pregate. Siate gioiosi. Suonate musica allegra» diventano la prova di empietà utile a giustificare pienamente l’esecuzione. Nella mente di carnefici dediti al fanatismo religioso istituzionalizzato le parole di Majidreza non sono l’ultimo desiderio di un martire che si ribella all’oppressione integralista, bensì un’estrema ammissione di colpa. Perché Dio è dalla loro parte, come cantava Dylan, così interamente dalla loro parte da venire sconfessato sull’orlo della morte da un giovane ribelle a cotanta arrogante convinzione. Un video che avrebbe dovuto rimanere secretato per un secolo, tanta è la potenza spirituale del ragazzo che riconosce nella vitalità della musica l’essenza divina che lo anima, è invece diffuso stolidamente a testimonianza del rigore mentale, prossimo al rigor mortis, di un regime che strangola il suo popolo tra le spire della sua inflessibile quanto pretesa interpretazione della religione.
È ancora la musica, sono ancora le canzoni, come la Zombies dei Cranberries cantata dalle giovani manifestanti russe nella primavera di proteste contro la guerra in Ucraina, a segnare il distacco tra l’elasticità del pensiero libero, avvezzo all’ironia, e la fissità di quello totalitario incapace di comprenderla. Majidreza Rahnavard rammenta al mondo che il canto è preghiera, dalle piantagioni di cotone in cui nacque il blues ai gospel ritmati nelle chiese afroamericane, il canto è espressione spirituale nella forma d’arte più astratta e forse per questo più prossima al divino.
Shervin Hajipour ha vinto i Grammy Awards 2023 nella nuovissima categoria “Miglior canzone per il cambiamento sociale” con il brano Baraye, diventato un inno delle proteste in Iran dopo l’uccisione di Mahsa Amini ad opera della polizia morale. Baraye è una parola persiana che significa “per”.

Per

Per ballare nei vicoli
Per il terrore quando ci si bacia
Per mia sorella, tua sorella, le nostre sorelle
Per cambiare le menti arrugginite
Per la vergogna della povertà
Per il rimpianto di vivere una vita ordinaria
Per i bambini che si tuffano nei cassonetti e i loro desideri
Per questa economia dittatoriale
Per l’aria inquinata
Per Valiasr e i suoi alberi consumati
Per Pirooz e la possibilità della sua estinzione
Per gli innocenti cani illegali
Per le lacrime inarrestabili
Per la scena di ripetere questo momento
Per i volti sorridenti
Per gli studenti e il loro futuro
Per questo paradiso forzato
Per gli studenti d’élite imprigionati
Per i ragazzi afghani
Per tutti questi “per” che non sono ripetibili
Per tutti questi slogan senza senso
Per il crollo di edifici finti
Per la sensazione di pace
Per il sole dopo queste lunghe notti
Per le pillole contro l’ansia e l’insonnia
Per gli uomini, la patria, la prosperità
Per la ragazza che avrebbe voluto essere un ragazzo
Per le donne, la vita, la libertà
Per la libertà
Per la libertà
Per la libertà
 

Hajipour l’ha pubblicata per la prima volta su Instagram nel settembre 2022. In soli due giorni Baraye ha raccolto 40 milioni di visualizzazioni e ha dato grande notorietà all’autore attirando l’attenzione del governo iraniano che lo ha fatto arrestare e poi rilasciare su cauzione. Nel frattempo è stata cantata dai Coldplay in concerto a Buenos Aires e intonata negli stadi dei mondiali in Qatar come inno contro il giogo iraniano grazie al suo testo esplicitamente libertario, di scarsa ironia ma di urgenza esemplare.
La canzone di Shervin Hajipour potrà essere riproposta in ogni epoca e in ogni luogo senza grande fraintendimento. Non si può dire lo stesso di Dio dalla nostra parte, che per essere compresa necessita di un livello lievemente superiore alla semplice, per quanto poetica, emotività. La canzone di Bob Dylan, fosse cantata oggi in Iran, potrebbe essere presa alla lettera e usata come inno degli Ayatollah, tanto sono convinti, come altri prima di loro, che Dio sia dalla loro parte.

VIAGGIO A BREMA – La musica come arma

VIAGGIO A BREMA – La musica come arma

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Non è certo Il Pellegrinaggio in Oriente di Herman Hesse, uscito nel 1932, il primo esempio di apparente inconcludenza che un’esperienza di viaggio suscita in una narrazione. I protagonisti, che dopo aver percorso parte dell’Europa e del Medio Evo si incagliano in un contrattempo che li blocca a Bormio Inferiore, stimolano una visione mistico metaforica della natura iniziatica del viaggio. L’insegnamento viene dal progredire attraverso lo spazio e il tempo, non dal raggiungere una meta fittizia la cui prospettiva è utile più che altro a dare avvio all’avventura. Si fermeranno e si disperderanno a Bormio Inferiore ben prima di scoprire che quell’intoppo, la sparizione di un servitore insieme ad alcuni loro oggetti personali, era la vera prova da superare per raggiungere l’obiettivo spirituale. L’Oriente, come culla filosofica ma anche come semplice punto sorgente della luce del mattino, si trova ovunque la misera personalità del neofita abbia l’opportunità di temprarsi. Qualunque prova del pellegrinaggio ne è la meta nella misura in cui forgia lo spirito del viaggiatore. Come si diceva, non è certo questo gioiellino di mise en abyme e metaletteratura mistica il primo esemplare di incompiutezza nella narrazione di un viaggio. Basti pensare a Giovinezza, racconto autobiografico pubblicato da Joseph Conrad nel 1898, in cui il carico nella stiva di una nave che il secondo ufficiale deve contribuire a far giungere a Bangkok non arriverà mai, ma importa poco, perché le promesse che l’età ha in serbo per il giovanotto superano di gran lunga le vicissitudini e la mancata realizzazione della missione. Ancora una volta, la meta non è geografica ma esistenziale e lo scopo è connaturato alla stagione della vita che si sta attraversando. Il protagonista del Pellegrinaggio è ormai ben adulto e alla ricerca di una elevazione religiosa, quello di Giovinezza è talmente immerso nei suoi vent’anni da accogliere la meraviglia sotto qualunque forma gli si presenti, sia pure come traversia. Il viaggio è iniziazione in entrambi i casi, a dispetto dell’approdo in un luogo designato.
Grande anticipazione in tal senso si trova nella gustosa fiaba I musicanti di Brema, pubblicata dai fratelli Grimm nel 1819 ma risalente, come denuncia la scelta della città nel titolo, al periodo anseatico in cui essa si fregiava di diritti speciali di libertà. La Lega anseatica è un’alleanza tra alcune città che dal tardo Medioevo fino all’inizio dell’Era moderna hanno mantenuto il monopolio dei commerci su gran parte dell’Europa settentrionale e del Mar Baltico, favorendo l’emigrazione all’estero lungo il Weser via Brema. La sua fondazione viene fatta risalire al XII secolo, epoca a partire dalla quale Brema assume musicisti per la municipalità fino alla fine del XVIII secolo. Nella fiaba è naturale che diventi l’immagine di un luogo di nostalgia per gli animali che sono fuggiti dal loro paese per evitare di finire male, ciascuno a suo modo. Molte sono le chiavi di interpretazione di una storia così essenziale e stralunata. Un asino, un cane, un gatto e un gallo si incontrano sulla via di fuga dalle rispettive inospitali fattorie di provenienza e, dopo essersi narrati minacce e peripezie che li hanno spinti fino a lì, decidono di proseguire insieme per trovare lavoro a Brema come musicisti.
Qual è il loro strumento musicale? Il verso. Il ragliare dell’asino, il miagolio e pure il soffio del gatto, l’abbaiare e il guaire del cane, nonché la celebre onomatopea del gallo, unico ad aver diritto nel suo verso all’appellativo nobile di “canto”. Il primo piano metaforico è quello dell’orchestra, una realtà in cui le differenze si intrecciano per miracolo risultando in un’armonia che, proverbialmente, non sarebbe poi naturale tra bestie non affini come il cane e il gatto. I musicisti devono farsi andar bene lo scopo comune, la band è un crogiuolo che trasforma in accordo, grazie alle comuni disgrazie, ciascuna nota stridente tra i caratteri dei suonatori. Il livello simbolico si innalza così alla diversità delle specie, delle etnie eterogenee costrette a giungere a miti consigli e fare “lega” per l’obiettivo comune di sopravvivere.
La canzone che ne ha tratto Vinicio Capossela nel 2019 si ferma al di sotto di questo livello limitandosi a interpretare in dettaglio le ragioni che hanno spinto i poveri animali a scappare dalle loro case e il miraggio che Brema li accolga nell’orchestra cittadina. La speranza di salvarsi insieme è sorretta da un’Utopia che la canzone giustamente non si cura di mostrare raggiunta mentre la fiaba, pur non narrandone a sua volta la realizzazione, affina la tavolozza delle corrispondenze a un livello superiore con morali della favola avvitate a spirale e potenziate. E qui il prodigio del canto, del verso, del fraintendimento diventa il vero tema in un mondo che si affida alla comunicazione tra umani.
Durante il viaggio i quattro migranti si trovano a passare per un bosco di notte e, affamati, decidono di trovare rifugio in una casa abitata da briganti che stanno apprestandosi a mangiare ogni ben di Dio. I quattro animali allora si pongono l’uno sopra l’altro e tengono il loro primo concerto, denunciando la consapevolezza di quanto la loro arte sappia essere molesta. Il fracasso è tale da far scappare a gambe levate i ribaldi, convinti che il frastuono sia conseguenza di un maleficio di fantasmi. Non c’è niente di più spaventoso di ciò che non si capisce: questa potrebbe essere una morale del racconto, giacché i bruti temono l’ultraterreno e sono portati a credere alla sua esistenza. Una seconda morale, che la musica può essere celestiale ma anche infernale a seconda della volontà dei suonatori, e qui è evidente che l’intento del gruppo era di spaventare, non senza svelare la loro malafede di aspiranti strumentisti. Il loro progetto di suonare per la municipalità di Brema, per quanto città illuminata dagli accordi anseatici, non avrebbe forse avuto buon fine. Ne sono coscienti, non per niente usano la loro musica come arma.
Ma l’intrico dei segni malintesi non si ferma a questo punto del racconto. Nella notte uno dei briganti, forse il più furbo o il più affamato, torna alla casa per sincerarsi di poter riprenderne possesso. I presunti musicanti stanno dormendo, la casa è immersa nel buio e ciò favorisce l’ispessimento semiotico della fiaba: entrando al buio il poveretto va in cucina per trovare una candela e vede brillare nell’oscurità gli occhi del gatto. Li prende per carboni ardenti e avvicinando lo stoppino stimola la reazione violenta del felino che gli salta in faccia e lo graffia. Qualche passo indietro e il cane gli addenta una gamba. Uscendo una zoccolata d’asino lo prende in pieno mentre il gallo dal tetto emette uno dei suoi versi più lugubri e acuti. Di nuovo in fuga ma stavolta per minacce ben più concrete della cacofonia di un concerto animalesco, il malcapitato torna dai compari e fa il suo resoconto dell’accaduto. Leggiamolo nella preziosa traduzione di Antonio Gramsci:
“Il brigante corse come meglio poté dal suo capo e disse: «Ahimè, nella casa si è stabilita una orrenda strega, che mi ha soffiato in faccia e con le sue lunghe dita mi ha graffiato; dinanzi alla porta stava un uomo con un coltello che mi ha pugnalato la gamba e nel cortile era sdraiato un mostro nero che mi ha bastonato con una mazza, e sopra il tetto c’era il giudice che gridava: – Consegnatemi quel briccone! – Sono riuscito a stento a scappare».
Il travisamento è degno delle migliori interpretazioni psicoanalitiche in merito alle personali fobie. Ciò che non si vede lo si immagina, si riveste qualcosa di ignoto con ciò che è noto anche se del tutto infondato, il buio favorisce fantasie sperticate, l’oscurità della ragione offre sempre spiegazioni la cui plausibilità risiede nei fantasmi della mente di chi ignora. Alla ridda di morali assommate nello squisito finale si aggiunge l’equivoco del verso del gallo scambiato per un discorso compiuto: “Consegnatemi quel briccone!” Quanta paura ci vuole per trasformare l’ululato di un capo-pollaio nelle parole di un magistrato? E quanto il giudice temuto assomiglia in verità a un galletto allarmato?
Il trucco narrativo che dovrebbe insegnare ai bambini a non fidarsi delle apparenze chiude la storia: i velleitari musicisti in cambio di una casa tutta loro, il sogno del migrante, rimangono nel frutto del loro esproprio proletario e rinunciano a raggiungere Brema. Rubare una casa a dei briganti non è reato. Le illusioni artistiche scemano non appena il loro obiettivo utilitaristico viene a decadere. In fondo non erano musicisti nell’anima, volevano solo sbarcare il lunario e avere salva la vita. Ora che la sopravvivenza è assicurata, chissenefrega della musica e della municipalità.
Accade questo con i viaggi della speranza, hanno una destinazione cangiante, autoriducibile a seconda delle circostanze. E tutti i viaggi, sotto sotto, lo sono.

CUORI GENITALI – Stefania Tramarin in love

In un’epoca in cui il cuore diviene l’immagine più diffusa al mondo, un emoji da scambiarsi via social, un quadro devozionale sui muri della Casa di Giulietta a Verona, un fregio per magliette, borse, cravatte, abiti e accessori vari, nel momento in cui la sua stilizzazione pre e post pop, da Mirò a Frida Khalo passando per Chagall, tra Peynet, Keith Haring e Niki de Saint Phalle, dal Cuore Sacro di Jack Kerouac ai cuori iperkitsch di Jeff Koons, affrontare il tema nelle arti plastiche costituisce a priori una sfida. Dove il tipo viene abusato, lo stereotipo si solidifica rendendo concreto per l’artista il rischio di finire nel pozzo del già visto, già consumato, prossimo alla nausea. Per quanto le variazioni sul tema siano moltiplicabili all’infinito, la riconoscibilità dell’immagine brucia ogni sorpresa e categorizza in modo sommario l’operazione relegandola tra le rappresentazioni non interessanti per l’eccessiva celebrità del modello. Questo perché quel tanto di dolciastro sopravvissuto quale residuo deleterio del Movimento Romantico pare essersi condensato nella rappresentazione semplificata di un organo da sempre trasferito metaforicamente dalla sfera anatomica a quella dei sentimenti.

In un’epoca in cui il cuore diviene l’immagine più diffusa al mondo, Stefania Tramarin decide di affrontare l’argomento dedicandogli un’opera monumentale quanto a serialità, tanto impegnativa da fissarsi nell’obiettivo ambizioso di un disegno al giorno per 365 giorni. Un anno ipotecato nell’attività che Baudelaire definisce sorella dell’ispirazione, il lavoro giornaliero, un’impresa entusiasmante da ideare ma non facile da realizzare.

Nel farlo, il pensiero dell’artista si espande e dalla semplice stilizzazione del cuore, organo sentimentale privo di sesso, l’idea si accresce del contrappunto periodico di altre due stilizzazioni, corrispondenti agli organi sessuali dei due sessi. Quello femminile in verità gode di due differenti visualizzazioni: l’una piana, emblematica, che dell’evocazione “botanica” ritiene la genuina rappresentazione un tempo mimata nelle manifestazioni femministe unendo le due mani in un bacio verticale, l’altra tratteggiata nel vuoto tra le due cosce nude della donna, inquadrate di fronte, sarcastico trompe-l’oeil di un predicatore a braccia spalancate verso un cielo corporeo. Così il misticismo intorno alla fertilità, da cui prende significato l’etimologia di “felice”, quadra il cerchio di una ricerca formale felicemente indovinata. Le tre figure, che sono quattro, s’incontrano tra loro di tanto in tanto a mo’ di riassunto e puntualizzazione delle molte, differenti fasi del discorso. I cuori si inanellano l’uno nell’altro citando stili e movimenti artistici, tematiche concettuali e superficiali profondità, alternandosi di tanto in tanto a falli perfettamente identificabili, pur trasfigurati in figure stranianti di cactus o motociclisti appiedati, e a vulve prese di piatto o di fronte, inglobate nell’insieme di una vitalità sentimentale che non nega alla carne la stretta connessione con lo spirito.

Il cuore diventa così il terzo e onnicomprensivo organo genitale, quello che li contiene entrambi e ne combina i generi con sorprendente fluidità. Uno dei due organi femminili riproduce di tanto in tanto un cuore nel suo centro del piacere, mentre i cuori chiamano a raccolta i due organi femminili e quello maschile in una sorta di sinergia riassuntiva prima di riprendere il loro viaggio nelle diverse tappe che dagli spettri ai castelli, dalle nuvole alle lacerazioni conducono lo spettatore lungo un anno d’amore che ne concentra forse una sessantina, tale è l’età anagrafica dell’artista messasi in gioco.

Perché di gioco si tratta, lo si evince dal tocco di umorismo che emana da alcune opere e da alcune serie d’immagini sconfinanti dal lirico nel drammatico, quando non nell’horror, in un’andata e ritorno senza frontiere evidenti. Dal puzzle scomposto e riunito alle manipolazioni bioniche, dalla serie chirurgica all’animalier, dal pop di Lichtenstein squisitamente citato in una vertigine abissale all’assurdo di Escher, dal fumetto a Halloween, dal surrealismo magrittiano all’autoritratto cubista, dal grandguignol al minimalismo, dall’incompiuto al sovrabbondante, dal barocco al classicheggiante, e ancora, di tecnica in tecnica, dal disegno a china al pennarello, dall’acquarello alla tempera, dalla matita all’acrilico: tutto testimonia la potenza dell’immaginazione applicata alla quotidianità in una dissertazione inevitabilmente filosofica a proposito dell’amore e del sesso. I castelli di carte crollano, i gironi infernali sembrano macine di mulino, i sonetti scespiriani si raccolgono in immagine, schiere di alfabeti e grafemi affluiscono come sangue a cuori e falli e defluiscono in vulve generose e austere, i mostri dell’inconscio ghignano mentre i genitali fanno bella mostra di sé diventando altro da sé in dimensioni cardiache inesplorate tra la satira e la beffa del sistema sentimentale globale.

Ci eravamo tanto amati ma come? Con quali organi esattamente e preposti a cosa? Era il cuore a pompare sangue nelle cavità cavernose del membro virile o era la vulva ad agitare gli ormoni dell’amore? Quale ossitocina circola in quale organo per assecondare i desideri e i ricordi di quali desideri? Se per Andy Warhol il sesso non è che la nostalgia del sesso, per Stefania Tramarin non è che irrisione dei suoi trascorsi prefigurati con la Caduta in un avvenire quotidiano già spersonalizzato, il gioco di bimba di una donna troppo consapevole per cascarci ancora senza averlo profondamente deciso.

Le zip si aprono e chiudono su amori arcobaleno in borsette zebrate sinuose fino alla civetteria. Membri rigorosi e affermativi fanno la figura dei gemelli che li sostengono, proverbialmente di scarsa intelligenza, vulve devote a sacerdoti ascetici si confrontano con la geometria sensuale dell’origine del mondo. Tutto ciò che ne esce entra nel cuore che circolarmente s’intreccia al suo itifallo da esposizione senza che alcuna pornografia intervenga nel più remoto pensiero dell’artista né dello spettatore. Il turbamento iniziale di vedere simboli destinati ai muri delle latrine pubbliche accostati all’icona più glicemica del millennio sfuma presto nella complessità poetica di una mescolanza mai osata prima, e tanto ripetuta da rendersi finalmente credibile.

Si tentenna allora, e si esita ad ammettere che il più delle volte in cui si pensava di porre il cuore in primo piano era qualcos’altro a trasparire o a muovere gli intenti. Dall’altra parte si comprende come ciò che spesso governava incontrollatamente gli impulsi genitali non fosse che il travestimento di sentimenti tanto profondi da risultare inconfessabili. E tutto questo senso esplode non da una singola opera o da una raccolta di poche decine di disegni, ma dal lavoro assiduo di un anno, accumulo e sommatoria di esperienze vissute, sognate, ricordate, immaginate da una donna che nell’arte ha saputo porre un ragionamento universale, nato non dalla visceralità espressiva propria dell’artista ma dalla sua genitalità concentrata e allargata a infrangere l’utilizzo fasullo e convenzionale del cuore umano. Come un motteggio sensuale di Marilyn Monroe denuda in sé l’esuberanza femminile che si appella alla maschia irrazionalità, così la raccolta dei Cuori Genitali di Stefania Tramarin smaschera la menzogna sdolcinata dell’amore avulso dal sesso per ricondurre la verità nella sfera complessiva di due dimensioni inseparabili, irrimediabilmente compromesse. Allora il cuore smette di essere icona abusata alla festa di San Valentino e riacquista la povera dignità umana di Eva e Adamo davanti all’Albero, più genitale che genealogico, da cui tutti si discende.

Stefania Tramarin – Cuori genitali 2021