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DA “KAFKIANO” A “FANTOZZIANO”: LA VIA ITALIANA AL SARCASMO BUROCRATICO

DA “KAFKIANO” A “FANTOZZIANO”: LA VIA ITALIANA AL SARCASMO BUROCRATICO

Articolo scritto da Marco Ongaro per la rivista Inchiostro

Celebrando il centenario della morte di Kafka, il pensiero non può che correre al suo erede italiano del Novecento, Paolo Villaggio.

In quanto coautore delle canzoni di Fabrizio De André Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitier e Il fannullone, nonché autore del testo, se così lo si vuol definire, della Ballata di Fantozzi di Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e Fabio Frizzi, Villaggio non sfigurerebbe in questa rubrica. Ma per una volta preferiamo esondare dalla canzone verso il più ampio mare della creazione letteraria. E quando Paolo Villaggio dichiara che “Fantozzi non è un personaggio comico, è un personaggio tragico, l’uomo più sfortunato che la letteratura italiana abbia mai avuto” è consapevole di usare il termine letteratura a proposito.

C’è una linea satirico grottesca che lega il Gogol’ del Cappotto, il Melville di Bartleby lo scrivano, il Kafka del Castello, Il Bulgakov del Maestro e Margherita, il Beckett di Aspettando Godot e il Buzzati di Sette piani al Villaggio di Fantozzi ragionier Ugo, matricola 1001/bis, come Kafka impiegato in una Compagnia di Assicurazioni, e come Kafka, all’Ufficio Sinistri. Tale linea parrebbe sgorgare dal realismo gogoliano, la grande capacità di estremizzare con venature visionario fantastiche situazioni burocratiche sullo sfondo di una desolante mediocrità umana, riassunta nell’intraducibile termine pošlost’, definito controvoglia da D.S. Mirskij come “meschinità autosoddisfatta, morale e spirituale” e da qualsiasi dizionario russo-italiano come “volgarità”. Doveva essere un principe in grado di rinunciare da giovane al proprio lignaggio come Mirskij a riconoscere questa particolare dimensione umana, foriera di peripezie bizzarre spinte all’assurdo da Beckett in personaggi incapaci di impiccarsi con la propria cintura senza che gli cadano i pantaloni.

E Villaggio è giunto buon ultimo, non necessariamente minore, in questa sequela di creatori dediti a ritrarre le miserie umane con grandi o piccoli effetti comici. Si apparenta a Kafka saltando la componente trascendentale di Buzzati per legarsi più strettamente alla concretezza impiegatizia in cui la trascendenza finisce ingoiata dalla sedicente realtà, assorbita nell’inesorabile organizzazione politica della società occidentale novecentesca.

Se Aspettando Godot debutta in teatro nel 1953, è solo due anni più tardi che troviamo Villaggio intento a scrivere testi e a fare il conduttore nella Compagnia goliardica genovese Mario Baistrocchi, laboratorio di artisti emergenti che in seguito avrebbero giganteggiato nel mondo dello spettacolo come Fabrizio De André, Enzo Tortora e Carmelo Bene. Villaggio prende parte a quasi tutte le edizioni dal 1956 al 1966, per poi farsi notare al Teatro di Piazza Marsala, a Genova, dove mette in scena gli embrioni dei suoi futuri cavalli di battaglia, tra i quali il prototipo fantozziano, l’infelice Giandomenico Fracchia capace di subire con innocenza infantile ogni sorta di angherie da colleghi e superiori.

Famiglia tutt’altro che comune quella che dà origine alla speciale creatura di nome Paolo Villaggio a Genova, il 30 dicembre del 1932, insieme al fratello gemello dizigote Piero, futuro docente alla Scuola normale superiore di Pisa. Il padre è un ingegnere edile palermitano, la madre veneziana è insegnante di tedesco. Frequenta il liceo classico e si iscrive a Giurisprudenza all’università di Genova, ma abbandona per guadagnarsi da vivere dedicandosi a svariati impieghi: da cameriere a speaker della BBC a Londra, ma anche cabarettista e intrattenitore sulle navi della Costa Crociere, insieme all’amico d’infanzia e gioventù Fabrizio De André, a Silvio Berlusconi e a Fedele Confalonieri. «Le crociere si facevano d’estate nel Mediterraneo e d’inverno ai Caraibi. Ho passato sulle navi cinque anni, mi chiamavano le petit connard, il coglioncino. Ho avuto compagni straordinari come Fabrizio De André. Saliva sul palco e davanti agli ottuagenari attaccava: Quando la morte ti chiamerà. Tutti con le mani sulle palle, uomini e donne. Mentre ai piani inferiori c’era lui, un pianista pieno di capelli umani che cantava Come prima, più di prima ti amerò. Era Silvio Berlusconi. Non era un creativo, usava le barzellette per farsi accettare, e con le donne era molto timido». Con il Berlusconi delle tv private anni più tardi i rapporti diverranno professionali, ma con un tocco sempre speciale: «Mi ha detto che sono un grande comico. Gli sono molto grato: per questo e per aver perso le ultime elezioni».

A scoprire la vena artistica di Villaggio è il giornalista e conduttore Maurizio Costanzo, che nel 1967 gli consiglia di esibirsi al Sette per otto, un noto e frequentato cabaret di Roma. «Andai. La prima sera c’era ad assistere allo spettacolo una Roma incuriosita da questo strano comico arrivato da Genova. Ricordo Garinei e Giovannini, Ugo Tognazzi, Ennio Flaiano che alla fine a forza di ridere cadde dalla poltrona». Poi al Derby di Milano, dove frequenta Giorgio Gaber e Renato Pozzetto. Nel 1967 la trasmissione radiofonica Il sabato del Villaggio. Il 4 febbraio 1968 esordisce sul piccolo schermo come conduttore del programma d’intrattenimento Quelli della domenica, scritto da Marcello Marchesi, Enrico Vaime, Italo Terzoli e dallo stesso Maurizio Costanzo. La comicità strettamente fisica dell’aggressivo e sadico Professor Kranz fa da contraltare all’umiliazione e alla sottomissione del suo primo personaggio impiegatizio e frustrato: Giandomenico Fracchia. Di lì i successi s’inanellano in una reazione a catena.

Esordisce nel cinema con Mario Monicelli in Brancaleone alle crociate e sul set si lega artisticamente a Vittorio Gassman, che lo vuole coprotagonista nel suo Senza famiglia, nullatenenti cercano affetto, per condividere poi l’interpretazione in Che c’entriamo noi con la rivoluzione? di Sergio Corbucci e partecipare con l’amico a numerose trasmissioni televisive. Negli anni Settanta pubblica libri sulle avventure di Fantozzi e altre amenità satiriche che riscuotono un entusiastico riscontro di pubblico, al punto che finalmente il personaggio approda al cinema con la regia di Luciano Salce.

«Fantozzi è il prototipo del tapino, la quintessenza della nullità». In principio ha vissuto come personaggio stampato, nato da una serie di articoli-racconto scritti da Villaggio per l’Europeo tratti dai monologhi recitati in tivù, e anche sullo schermo pare mantenere la sua natura fondamentalmente diegetica. Questa resta la sua forza, la profonda narratività che rende ciascuna scena delle pellicole materiale per ulteriore narrazione tra gli spettatori all’uscita del cinema. Paolo Villaggio è creatore di un timbro umoristico personalissimo, ed è un brillante scrittore riconosciuto da Pasolini e Umberto Eco per la potenza innovativa del suo linguaggio e per la sua facile assimilazione nella permeabilità del tessuto dialogico popolare. Lunghe frasi senza verbi, predicati aboliti in cataloghi regolati dall’irresistibile climax ridisegnano la sintassi nazionale attecchendo negli strati più popolari con sorprendente immediatezza: “Nelle prime otto ore: escursione in battello sul Tevere, visita veloce a Colosseo, San Pietro, Musei Vaticani, catacombe di Priscilla, Pantheon, piazza Navona, Fontana di Trevi, via Veneto. Arrivo in piazza di Spagna. Al posto della vescica, un’anguria”.

Con i libri e i film su Fantozzi negli anni Settanta e Ottanta la sua popolarità diventa occasione di confronto intellettuale in un calderone emotivo-culturale capace di sfogare ironicamente tensioni politiche e sociali. «Fantozzi ha liberato gli Italiani dall’incapacità di essere felici secondo i dettami della cultura consumistica», spiega Villaggio. «Lui consuma, fa vacanze, parte per la settimana bianca e torna massacrato e infelice. Come tutti gli Italiani. Fantozzi è un terapeuta che dice: tutti quelli che subiscono questo tipo di cultura sono condannati a essere infelici». La poetessa Alda Merini dirà di essere sopravvissuta alla reclusione in manicomio grazie alla lettura di Fantozzi.

Villaggio estende l’area di alienazione dalla catena di montaggio delle fabbriche ai quadri impiegatizi delle multinazionali, non più privilegiati rispetto alla classe operaia bensì tormentati senza pietà da un potere sovrannaturale che infierisce perfino con la proverbiale nuvola piovosa loro dedicata in gite e vacanze. “Ogni impiegato ne ha una. Sono nuvole maligne che stanno celate dietro le montagne anche 12 mesi, ma quando s’avvedono che il loro uomo sta per andare in ferie gli piombano sulla testa scaricandogli in nuca un quadrato di grandine in un metro per un metro e lo accompagnano implacabili”. Per Marchesi c’erano le domeniche per ammalarsi, per Villaggio la nuvola del weekend è appiccicata all’individuo anche qualora si prendesse ferie infrasettimanali.

Le disgrazie esagerate del ragioniere, l’insormontabile difficoltà con i congiuntivi, la sua ossessione del potere e l’irrefrenabile pulsione al servilismo mettono a fuoco mistificazioni diffuse che un po’ tutti, attraverso la risata, finalmente esorcizzano: “«Allora, ragioniere, che fa? Batti?» «Ma… mi dà del tu?» «No, no. Dicevo: batti lei?» «Ah, congiuntivo»”. Ben prima che l’Italia rinunciasse a usare i congiuntivi sulla scorta dell’esempio televisivo commerciale, gli ultimi fantozziani, che sono ultimi proprio perché infilati nella categoria di mezzo tra la classe operaia e quella dirigente, mero strumento inconsapevole della burocrazia, si atteggiano a una cultura che non possiedono cercando comunque di declinare i verbi secondo tempi che non padroneggiano. Un congiuntivo sbagliato in Fantozzi è un aforisma sull’inadeguatezza di un intero ceto, quando non di una intera nazione. È la “volgarità” di Gogol’ individuata da Mirskij.

Muore il 3 luglio 2017 a 84 anni a causa di complicanze respiratorie dovute al diabete. Nel frattempo Fantozzi si accomoda non senza incomprensioni, cui peraltro è abituato, nell’ufficio di sottoscala vicino ad Arlecchino, Pulcinella, Brighella, Totò, Monsieur Hulot, Mister Bean e Charlot. La commedia che sopravvive alla sua epoca diventa poesia. Dopo il suo passaggio sulla Terra, La Corazzata Potëmkin non sarà mai più un capolavoro.

C’è un che di liberatorio nella vigliaccheria rappresentata dagli scatti subito puniti del ragioniere che si assoggetta per conformarsi, lamentandosene però in privato, c’è del sublime nel riflesso fedele che il suo personaggio offre alla miseria della mediocrità. Le tentate reazioni si riversano sui suoi simili: dirette in alto finiscono inevitabilmente per ricadere verso il basso aggravando ulteriormente il fardello dei famigliari, dei colleghi, degli uscieri, dei parcheggiatori in una sorta di ordinamento immutabile nel destino dei miserabili.

Ma sono gli impiegati, i diplomati ragioniere e geometra, i non laureati però neanche del tutto analfabeti il vero bersaglio del dileggio divino. Coloro che non hanno potuto o osato innalzarsi oltre una accettabile mediocrità sono puniti con il ridicolo che per la classe operaia invece si ribalta nella resistenza cinica del Cipputi di Altan. Nel caso di Fantozzi, inguardabile la moglie, primate la figlia, sottoscala l’ufficio, procacemente ributtante l’oggetto dell’inconsumabile desiderio: la signorina Silvani. In quel “signorina” brilla come uno specchietto per allodole tutta la libertà dello stato civile, sull’orlo della zitellaggine lustrata da una autostima comunque insufficiente: “Mi conquisti, mi seduchi. Ecco… mi colghi una stella alpina”. Nella guerra tra insignificanti non si risparmiano colpi bassi, si sprecano i rimasugli di dignità e si torna a casa con la coda tra le gambe, senza perdere però la speranza di uniformarsi l’indomani alle presunte fortune altrui imitandone le aspirazioni. Ai tre bulli che lo pestano nel corso della sua prima fallimentare uscita con la signorina Silvani, Fantozzi reagisce nel modo più civile nel tentativo di salvare la faccia irrimediabilmente spaccata, e a disastro già avvenuto osa un timido: “Badi a come parli”. La frase fatta che abitualmente dà il via agli alterchi, Villaggio la pone laddove ormai non c’è rimedio, quale estrema prova di debolezza nell’istante in cui il disgraziato vibra un sussulto di dignità per non sfigurare idealmente, essendo già fisicamente sfigurato, di fronte alla donna che desidera unicamente perché è meno rassegnata di sua moglie. Il “Lei non sa chi sono io” diventa un miraggio, giacché proprio questo spera Fantozzi, che non si sappia realmente chi è, che non se ne riconosca la pochezza. A tale scopo deve mostrarsi pari, se non superiore a quelli che, se andasse a guardare bene, nell’intimo sono spesso diversi da lui per una mera mancanza di scrupoli.

L’ambizione a migliorarsi o darsi un tono con sport, diete, escursioni, feste di Capodanno, raduni conviviali e gala non viene mai meno, e in essa ogni perdizione trova sfogo per l’insufficienza intrinseca del povero snob ricacciato nel recinto della sua inferiorità sociale, culturale, economica. La dieta ideale prevede: “Per dormire, mai letti morbidi. (…) Durante la giornata bere almeno settanta litri d’acqua tiepida. Uscire per una veloce passeggiata nel bosco di sei ore, brucando molta erba. (…) Non cenare mai con tori da combattimento spagnoli”. I suggerimenti non hanno solo l’esagerazione alla base della loro comicità, hanno anche un nonsenso qua e là che, reso accetto dall’autorevolezza della disciplina intrapresa per migliorare sé stessi, disorienta l’intera struttura di saggezza sociale contrabbandata come valida. “Uscite senza salutare nessuno e partite al galoppo verso l’ippodromo più vicino per una sgambata. Per non dare nell’occhio vi consiglio di nitrire ogni duecento metri”. L’idea salubre della locuzione “per una sgambata” offre un senso di gioiosa ragionevolezza a una prescrizione folle. Quella “sgambata” serve a unire in una promessa di allegria e benessere il malcapitato che cerca disperatamente, come spiega Villaggio, di conseguire la felicità attraverso la rubrica di spassi ed esercizi di salute offerti da una società assurda e aliena. Uscire senza salutare nessuno è come tuffarsi all’improvviso nell’agone, donarsi interamente all’avventura dimagrante, con fede cieca in totale competizione con il resto del genere umano. L’impulso all’imitazione, più che al miglioramento, che lo spinge nella morsa ferrea del dietologo gli suggerisce di imitare un animale, un cavallo, per poter tornare ad avere un normale peso umano.

Non ha pretese extraterritoriali Paolo Villaggio, i suoi miserandi personaggi sono decisamente italiani, come molti bersagli flaianei, grazie all’ibrido nazionale che già per lo scrittore pescarese costituiva un affettuoso crocevia di «vorrei ma non posso». “L’Italia è un Paese di sportivi sedentari, che guardano lo sport in televisione ma non lo praticano. Lo sport nazionale è la maldicenza, che viene, invece, praticato a tutto campo”, annota. E altrove: “Gli italiani quando sono in due si confidano segreti, tre fanno considerazioni filosofiche, quattro giocano a scopa, cinque a poker, sei parlano di calcio, sette fondano un partito del quale aspirano tutti segretamente alla presidenza, otto formano un coro di montagna”, scrive Villaggio, e il coro di montagna è la peggiore delle aggregazioni, con l’impulso a condividere e primeggiare che trascina un po’ tutti verso il baratro del “tragico”, aggettivo riscritto dal creatore di Fantozzi con significato opposto, a mostrarne spietatamente il lato umoristico, incapace di suscitare commozione, costantemente teso alla ferocia del risibile.

“C’è sempre in ogni agglomerato umano l’«organizzatore di sfide calcistiche». Mentre godono fama di organizzatori, questi elementi sono in realtà solo dei criminali pericolosi e la loro monomania porta periodicamente dei padri di famiglia sull’orlo della tomba”, è aforisma forse neanche tanto iperbolico. Le diete e il calcio, il ciclismo o la settimana bianca sono occasioni di emancipazione sociale e immancabili prove negative per l’hýbris del travet. È il loro trovarsi in una classe intermedia, di mezzo, a far sì che finiscano per essere “messi in mezzo” ogni volta che qualcuno cerca di salire o tener sotto gli altri. “Soprattutto dietro agli sportelli delle banche di periferia, consumano la loro vita i «lampadati». (…) Il loro sole sono i raggi UVA di un tragico parrucchiere sotto casa. (…) Quando escono il fetido parrucchiere, che prima faceva il fornaio, dice: «Sei splendido! Sembra proprio che tu abbia fatto una vacanza a Sharm el Sheik» (…) Sotto il rosso mogano della fronte, spicca il naso rosso fuoco dei nani da circo”.

Il Duca Conte Barambani e la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare sono espressioni della superiorità fintamente democratica costretta all’ecumenismo dalla necessità di sfruttare a dovere i nuovi sudditi. La facciata civile richiede una certa ipocrisia. L’impiegato ragioniere, che nutre un’ammirazione perfida e invidiosa per chiunque gli stia al di sopra, si piega al servilismo più abietto perseguendo una mimesi impossibile con chi, essendo nato nobile, non ha bisogno di mostrarsi più di quello che è, cioè crudelmente volgare e insensibile.

“Dopo quella diamantata pazzesca la contessina Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare gli fece conoscere alcuni amici e gli presentò nell’ordine: la signora Bolla, i coniugi Bertani, la contessa Ruffino, i fratelli Gancia, Donna Folonari, il barone Ricasoli, il marchese Antinori, i Serristori Branca e i Moretti, quelli della birra. A metà di quel giro di presentazioni Fantozzi era già completamente ubriaco”.

Queste figure nobili si trasferiscono agilmente dall’aristocrazia all’elevatezza culturale senza reali differenze. Come i cittadini di Capalbio, secondo Villaggio divisi distintamente tra contadini e intellettuali: “I contadini leggono, a fatica, «Il Tirreno»; gli intellettuali, uomini e donne, vestiti rigorosamente di lino bianco e con dei candidi golfini di cachemire annodati in vita, scorrazzano con «il manifesto» o «l’Unità» sotto il braccio, che i locali credono siano scritti in turco”. Lo spettro del Bar Casablanca di Gaber/Luporini si aggira tra queste righe la cui stilizzazione è estremamente precisa. “Ogni tribù veste i costumi nazionali, gli indiani da indiani, i Masai da Masai, i capalbiesi di lino bianco”. Il sospetto che questa suddivisione non solo sia etnica ma naturale, divinamente disposta, è più reale di quanto si creda.

Perciò il Megadirettore Galattico ha sembianze e poteri ultraterreni. L’ingiustizia sociale, nell’ateo pessimismo di Paolo Villaggio, si manifesta come il risultato di un volere celeste: “C’erano due bambini molto belli, biondi, figli di ricchi; tutti i figli dei ricchi sono biondi e eguali, i figli dei braccianti calabresi sono scuri e diseguali”. Qui spira l’influenza della cultura dell’epoca, con echi gaberiani di Signor G. Ovviamente l’insinuazione che Dio abbia voluto le diseguaglianze che portano all’oppressione è una critica a chi sfrutta la fede per mantenere lo statu quo, secondo una tecnica satirica di grande tradizione. “Temo che il Papa non creda in Dio” è invece la dichiarazione più potente contro tale fede. Ma le differenze sono le benvenute e proprio Fantozzi ne ha espresso, immolandosi, la ragion d’essere. “Perché ha avuto quella fortuna enorme?”, dice Villaggio. “Perché finalmente criticava questa imposizione: doversi travestire da tutti”. E lo Zelig di Woody Allen, il “camaleonte umano” uscito nel 1983, pur nella sua rarefatta sofisticatezza, non può dirsi del tutto innocente quanto a ispirazione.

La compagine soprannaturale fissa lo stato delle cose in forma inamovibile, dunque Paolo Villaggio è portato a ricercarne il comune denominatore in un’animalità primordiale, una condizione ancestrale che designa la raffinatezza voluta e non accessibile ai Fantozzi come un’illusione dell’Homo sapiens sapiens incapace di staccarsi dalle sue origini bestiali. L’unica verità che si staglia a distinzione degli esseri umani, italiani a paradigma del cosmo, è l’ammissione della loro sordida animalità. In questo effetto comico, da alcuni considerato facile per la sua volgarità, si trova invece la massima critica e comprensione dell’umano costretto a fingersi evoluto in un mondo mai emancipatosi dalla giungla. “Non ho paura degli attentati ma degli aliti terrificanti e indescrivibili che hanno gli Italiani di tutte le estrazioni sociali” orienta l’obiettivo in alto. Ma non tarda ad abbassarsi poi verso altre espressioni dell’infelicità dei corpi: “I mammiferi esperti di calcio che si fanno trasportare dai mezzi pubblici ne approfittano ignobilmente per scoreggiare come elefanti africani. Non sono scoregge rumorose perché hanno messo a punto una tecnica raffinata: il terrificante soffione con effetti devastanti. Ho visto due anziane signore di Liverpool piangere in silenzio, poi chiedere aiuto e infine buttarsi dai finestrini in corsa”. Siamo sicuri che gli hooligans siano avulsi da tali abitudini? Un sotteso lascito rabelaisiano attraversa gli scritti meno concessivi di Paolo Villaggio, un monito che trova il coraggio di allertare l’intera umanità sulla sua scarsa evoluzione: “Non fate mai l’errore madornale di fare i vostri bisogni negli insidiosissimi cessi detti “alla turca”, nei quali vengono risucchiati ogni anno una cinquantina di giovani”.

Nell’identificare Paolo Villaggio con la sua creatura più famosa non si usa alcuna delle iperboli che della sua neolingua sono l’ossatura: i “mostruoso”, i “tragico” e i “pazzesco” entrati grazie a lui nel lessico comune come elementi pertinenti al buffo, al burlesco, al sarcastico. È l’aggettivo “fantozziano”, entrato come sinonimo di grottesco e tragicomico nel dizionario nazionale, a designarsi quale evoluzione tutta italiana e novecentesca di “kafkiano”. Eredità indubbia del suo celebre precursore.

LA VITA IN ROSA (Non solo Barbie)

LA VITA IN ROSA – Non solo Barbie
Articolo scritto da Marco Ongaro per la rivista Inchiostro

Se si tratta di individuare l’inno del ritorno alla vita nella Francia liberata dai nazisti e nel mondo liberato dalla guerra, non si può che parlare de La vie en rose.

Il testo è di Édith Piaf e, secondo la testimonianza di Norbert Glanzberg, anche la musica. «Quando mi ha chiesto di firmarla, ce l’aveva già tutta, la canzone è tutta sua, diceva “le cose” invece che “la vita”, ma il resto era già tutto fatto», dichiara il compositore. La melodia di sicuro, lui ne ha la prova perché la cantante gli ha chiesto di firmarla dopo avergliela fatta sentire, e lui non era il primo cui faceva una proposta del genere. Ha rifiutato per una questione di onestà. Come già aveva rifiutato il compositore e direttore d’orchestra Robert Chauvigny, con cui il Passerotto lavorava all’epoca. La storia dice che Chauvigny non ritenesse il testo alla sua altezza, in verità non riteneva tale la musica, già interamente concepita da Édith.

Marguerite Monnot, che da tempo collaborava e viveva a casa con lei, non ha accettato di firmarla perché trovava il ritornello troppo insignificante, troppo facile, troppo orecchiabile. È plausibile che vi abbia lavorato insieme a Édith, il passo del suo pianoforte s’intravede nella trama dei vari passaggi successivi. La sua riluttanza deve aver ispirato la scarsa fiducia in se stessa della cantante che, tornata di nuovo a mendicare sulla via dei musicisti, è andata cercando un autore che donasse dignità alla sua creatura, qualcuno che avallasse la musica da lei pensata per il suo testo. Ecco come nasce un capolavoro che segna un’epoca e diventa un sempreverde. Alla fine il pianista dell’orchestra accetterà, un artista destinato a passare alla storia per la celebrità di una firma posta su un’opera che non gli appartiene, buon per lui. Si chiama Louis Guglielmi, in arte Louiguy.

La canzone inizia con una quartina di preludio, la musica ne scandisce il carattere attendista con gli accordi al pianoforte, aperti, tratteggiati da corone frastagliate a sottolineare la funzione introduttiva dei primi versi, parole destinate unicamente a preparare la strada al poderoso ritornello che costituisce in effetti l’ossatura e l’essenza dell’intera canzone.

Occhi che fanno abbassare i miei / un riso che si perde nella sua bocca / ecco il ritratto senza ritocchi / dell’uomo cui appartengo.

L’uomo cui appartengo. Quanta forza e quanto abbandono in questa dichiarazione preventiva. È vero che Édith si rapporta così ai suoi uomini, anche se il suo è più un desiderio che una realtà. Un desiderio finora in parte frustrato. Non le è appartenuto fino in fondo nessuno degli uomini che ha amato, avevano altre donne, erano “belli indifferenti”, le facevano abbassare lo sguardo per l’emozione, certo, ma va anche detto che quando qualche uomo è stato assolutamente suo, come Raymond Asso, lei l’ha tenuto in disparte per cercarsi qualcuno che soddisfacesse con l’indifferenza e l’incostanza amorosa la sua sete di passionalità conturbata. Occhi negli occhi che lei non riesce a reggere, sguardo che deve abbassare e riso che si perde tra le labbra, ecco il ritratto schietto dell’uomo cui appartiene. Dopo la quartina d’introduzione, parte subito il largo ritornello, annunciato dalle note dell’orchestra accennate in un paio di battute a inizio brano, e il canto si stende semplice, in morbida discesa, di un’efficacia micidiale.

Quando mi prende tra le braccia / e mi parla sottovoce / vedo la vita in rosa. Intelligente ispirazione alla fine della guerra, epoca faticosa di ricostruzione e stenti, dipingere di rosa ogni cosa grazie all’amore di un uomo. Il suggerimento dato al mondo è: ora che abbiamo finito di scannarci, amiamoci, e ogni cosa cambierà colore, tutto diventerà più dolce e il futuro, che per definizione è bello se è roseo, crescerà nella fiducia e nella serenità. La realtà è ancora tutta qui, presente, ma il potere taumaturgico dell’amore può stendere una cortina colorata su tutto ciò che non va. La dichiarazione fondamentale sta nel verbo vedere coniugato alla prima persona singolare. Vedo la vita in rosa non significa necessariamente che lo sia, anzi. Sono le braccia dell’amato, è il suo dolce mormorare a cambiare il colore alle cose, è la presenza amorevole dell’uomo cui la donna si abbandona a mutare la prospettiva dell’esistenza e a renderla non solo migliore, ma meravigliosa.

Mi dice parole d’amore / parole di tutti i giorni / e questo mi fa qualcosa. Nella seconda terzina del ritornello l’amore non fa rima con sempre. Non è la coppia amour/toujours a fare rima, bensì la coppia “amore e giorni”. E neanche dei giorni speciali, “tutti i giorni”. Le parole che lui le dice sono ordinarie, parole d’amore che ripete tutti i giorni senza inventiva eppure, proprio in virtù di questo, “le fanno qualcosa”. Sarà il tono della voce, così sussurrato, saranno le braccia che la stringono, l’idea di quotidianità penetra nella magia del sentimento a offrire due chance alla vita: una, quella che ogni giorno si parli d’amore, l’altra, che delle semplici parole di tutti i giorni bastino a rendere felice una donna. Le parole di tutti i giorni sanno parlare al cuore della protagonista senza alcuna pretesa di essere poetiche. È l’autenticità delle parole, non il loro essere scontate, a muoverle qualcosa dentro. Il realismo passa attraverso il romanticismo e ne esce rafforzato, depurando di ogni stucchevolezza il lirismo dell’emozione.

Ora il ritornello può aprirsi verso l’alto, conducendo le note, che erano in graduale discesa, verso un punto di svolta: È entrato nel mio cuore / Una parte di felicità di cui conosco la causa. L’uomo cui appartiene è entrato nel suo cuore e coincide con una sensazione di piacere, di fortuna, di benessere che sembrerebbe inspiegabile, perché inattesa, ma da cui lei, con la solita aria da cantante realista, indica di non essersi lasciata prendere alla sprovvista, indovinandone bene l’origine. Questa gioia insperata viene dall’uomo che le è entrato nel cuore e dalla certezza che ne deriva: È lui per me, io per lui, nella vita / Lui me l’ha detto l’ha giurato per la vita. Questa specie d’inciso all’interno dell’ampio ritornello rappresenta il nucleo del concetto, la rivelazione centrale, la spiegazione che dalle parole di tutti i giorni si espande al giuramento di eternità. La nota sulla ripetizione di “vita” viene allungata in sospensione, come se la protagonista volesse rassicurarsi in merito al giuramento dell’uomo. E che la vita di cui si parla sia lunga, più lunga delle altre, così come la nota che si apre verso l’alto e si ripiega in una curva sentimentale per riallacciarsi alla terzina conclusiva del lungo refrain.

E appena me ne rendo conto / allora sento in me / il mio cuore che batte. È allora che avverte in sé, forse tumultuoso, il simbolo del sentimento restituirle la conferma delle sue funzioni vitali. Tra sollievo ed emozione, la vita pulsa.

Il ritornello è finito e riprende l’interludio, il secondo e ultimo che prepari nuovamente il balzo all’accattivante ritornello. Una quartina ancora che, come la prima, serve soprattutto a preparare, separare, annunciare il vero spazio della canzone. Notti d’amore a non finire / Una grande felicità che prende il suo posto / le noie, i dispiaceri si cancellano / Felice, felice da morirne. E riparte il ritornello, come una danza lenta, placida, che trasmette sicurezza. Non c’è alcuna maniacalità nell’asserire tanta gioia. La soggettività non ne sminuisce il valore. È lei che vede la vita in rosa, non è la vita a esserlo, eppure la cosa è vera e palpabile come il cuore che le batte in petto, e lo è perché lui le ha giurato che sarà per sempre e questo le basta ogni volta che se ne accorge. È come fosse stata perduta nei dispiaceri del passato e potesse tornare a immergervisi da un momento all’altro, non appena lui mollasse la presa e l’abbraccio sparisse, perché le parole sono di tutti i giorni, e non sono il vuoto “sempre” che fa banalmente rima con amore. Per lo stesso motivo non accadrà, non sprofonderà di nuovo nella tristezza che la circonda se osserva il mondo fuori da quell’abbraccio, perché quelle parole di tutti i giorni garantiscono che la promessa è autentica come la quotidianità in cui viene espressa. È questo a rassicurare la donna sull’amore e sulla sua durata. Forse una volta sciolto l’abbraccio torneranno noie, paure e dispiaceri, perché i tempi sono duri, ma lei gli crede e lui ha giurato, quindi in questo momento, mentre lui la prende tra le braccia e sussurra, la vita è rosa come lei la vede. E continuerà a esserlo, forse. Cosa conta? L’importante è l’adesso dell’abbraccio, questo “quando” che apre il ritornello. Perciò l’andamento è così placido, concedendosi la calma della solennità, quasi una berceuse, una danza che culla, una ninnananna regale che Édith canta a se stessa per convincersi che i tempi buoni sono finalmente arrivati. È struggente il fatto che lei ce lo racconti in prima persona. Una donna che insiste a narrarci la sua felicità per persuadersene, affinché noi ascoltatori le crediamo e, facendolo, confermiamo la promessa che lui le ha fatto. «Guardatelo il mio uomo», sembra dire. «Questo è il suo ritratto senza ritocchi, tale e quale. Guardatelo e ditemi voi che è tutto vero». Nel dubbio, ce lo ripete due lunghe volte, cercando di essere tranquilla e sognante il più possibile. In una versione successiva, interviene una variante nella ripetizione del ritornello: laddove s’innesta l’inciso, passa al “tu”, scivola nel discorso diretto, facendo aderire appieno forma e contenuto. Sei tu per me e io per te, amica mia / lui me l’ha detto, l’ha giurato per la vita. La donna ha interrotto la narrazione delle azioni di lui in terza persona e del proprio, roseo, punto di vista, e cerca di convincere l’uditorio con una scena mimata, un discorso diretto che spieghi ancora meglio che è tutto vero, lui ha detto proprio così: “tu per me e io per te, amica mia”. L’ha giurato, lo ricorda come se fosse qui in questo momento a ripeterlo, ci prega di crederci.

E noi le crediamo, perché lo vogliamo per lei e perché lo vogliamo per noi.

Non poteva che diventare l’inno della fine della guerra, l’invito all’ottimismo della Ricostruzione. La cantante rende il pubblico talmente partecipe della sua felicità da costringerlo a trepidare per lei come per sé. Se lei non si sbaglia, nemmeno gli ascoltatori si sbaglieranno nelle proprie rispettive esistenze. Il pubblico spera che la speranza di questa piccola donna vestita di nero sia fondata. La vie en rose unisce i cuori sotto un’unica, medesima aspettativa, per questo è un inno.

Nel 1946 unisce la Francia e si prepara a spopolare negli Stati Uniti, dove sarà cantata da Louis Armstrong, nel 1950, tradotta in inglese, mantenendo l’espressione francese del titolo anche nel ritornello anglofono e ripetendone l’enorme successo. Édith Piaf e Louis Armstrong, due figure artistiche e umane di levatura paragonabile.

La vie en rose è ormai un modo di dire, un proverbio, una poesia popolare, non è solo una canzone, non solo una donna e la sua visione del mondo tra le braccia dell’uomo che ama: è un prodigio esploso nel momento giusto, il ritorno alla vita in un mondo squassato dalla più orribile delle guerre. È il simbolo dell’arte che vince sulla crudeltà, della speranza che vince sulla morte. E tutto grazie a una concreta illusione d’amore.

Più tardi, nel nuovo millennio, il rosa diventerà simbolo di una bambola incarnata in un film di successo.

Ascoltare Dylan in Iran – Ironia dell’ipocrisia

ASCOLTARE DYLAN IN IRAN – Ironia dell’ipocrisia
Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Bob Dylan pubblica With God on Our Side nel 1964. Una canzone tristemente ironica in cui la visione umana di Dio, tirato dalla propria parte dai vari clan che intendono giustificare la propria condotta in fatto di guerra, soprusi e atrocità, si presta a ogni insana manipolazione storica. Così lo sterminio dei nativi, la guerra ispano-americana, la guerra civile statunitense, le due Guerre mondiali, la Guerra fredda, la Shoah, e perfino il tradimento di Gesù da parte di Giuda vengono di volta in volta etichettati come cause protette se non promosse dalla volontà divina.

Oh il mio nome non è niente
La mia età conta meno ancora
Il paese da cui provengo
Si chiama Midwest
Mi hanno cresciuto lì e insegnato
Le leggi da rispettare
E quella terra in cui vivo
Ha Dio dalla sua parte

Oh, lo raccontano i libri di storia
Lo raccontano così bene
Le cavallerie caricarono
Gli indiani caddero
Le cavallerie caricarono
Gli indiani morirono
Oh, il paese era giovane
Con Dio dalla sua parte

Lo guerra ispano-americana
Ha fatto il suo tempo
E anche la guerra civile
Fu presto messa da parte
E mi son stati fatti memorizzare
I nomi degli eroi
Con le pistole in mano
E Dio dalla loro parte

La prima guerra mondiale, ragazzi
È venuta ed è andata
La ragione per combattere
Non me l’hanno mai data
Ma ho imparato ad accettarla
Accettarla con orgoglio
Perché tu non conti i morti
Quando Dio è dalla tua parte

La seconda guerra mondiale
Arrivò ad una conclusione
Perdonammo i Tedeschi
E poi fummo amici
Anche se ne hanno uccisi sei milioni
Li hanno fritti nei forni
Adesso anche i Tedeschi
Hanno Dio dalla loro parte

Ho imparato a odiare i Russi
Per tutta la mia vita
Se arriva un’altra guerra
È contro di loro che dobbiamo combattere
Per odiarli e temerli
Per scappare e nascondermi
E accettare tutto questo con coraggio
Con Dio dalla mia parte

Ma ora abbiamo le armi
Di polvere chimica
Se siamo costretti a bruciarli
Allora dovremo bruciarli
Una pressione sul pulsante
E uno sparo in tutto il mondo
E non fare mai domande
Quando Dio è dalla tua parte

Attraverso molte ore buie
Ci ho pensato
Che Gesù Cristo fu
Tradito da un bacio
Ma non posso pensare per te
Dovrai decidere tu
Se Giuda Iscariota
Aveva Dio dalla sua parte

Quindi ora mentre me ne vado
Sono stanco da morire
La confusione che sto provando
Nessuna lingua può dirla
Le parole mi riempiono la testa
E cadono sul pavimento
Che se Dio è dalla nostra parte
Fermerà la prossima guerra
A parte l’ultima strofa, la canzone trasuda ironia, figura retorica che consiste nel dichiarare l’opposto di ciò che si pensa, uno strumento straordinario contro l’ipocrisia, che consiste nel fare il contrario di ciò che si dichiara, a patto che si sia in grado di rendersi conto che di ironia si tratta. Le metafore, quando sono elevate e non si limitano a una frase ma a un intero corpus simbolico, vanno colte con l’intelligenza o finiscono per essere interpretate letteralmente mettendo in scena nonsense, quando non addirittura significati antitetici a quanto desiderato nel formularle.
Così può accadere che il video girato dai boia iraniani prima dell’esecuzione del ventitreenne Majidreza Rahnavard, giovane impiccato per aver partecipato alle proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, colpevole di non aver indossato il velo in modo corretto il 13 settembre 2022 in un luogo pubblico a Teheran, venga divulgato dai suoi giustizieri per avvalorare la sua condanna a morte senza processo. Le sue ultime volontà: «Non piangete sulla mia tomba, non leggete il Corano, non pregate. Siate gioiosi. Suonate musica allegra» diventano la prova di empietà utile a giustificare pienamente l’esecuzione. Nella mente di carnefici dediti al fanatismo religioso istituzionalizzato le parole di Majidreza non sono l’ultimo desiderio di un martire che si ribella all’oppressione integralista, bensì un’estrema ammissione di colpa. Perché Dio è dalla loro parte, come cantava Dylan, così interamente dalla loro parte da venire sconfessato sull’orlo della morte da un giovane ribelle a cotanta arrogante convinzione. Un video che avrebbe dovuto rimanere secretato per un secolo, tanta è la potenza spirituale del ragazzo che riconosce nella vitalità della musica l’essenza divina che lo anima, è invece diffuso stolidamente a testimonianza del rigore mentale, prossimo al rigor mortis, di un regime che strangola il suo popolo tra le spire della sua inflessibile quanto pretesa interpretazione della religione.
È ancora la musica, sono ancora le canzoni, come la Zombies dei Cranberries cantata dalle giovani manifestanti russe nella primavera di proteste contro la guerra in Ucraina, a segnare il distacco tra l’elasticità del pensiero libero, avvezzo all’ironia, e la fissità di quello totalitario incapace di comprenderla. Majidreza Rahnavard rammenta al mondo che il canto è preghiera, dalle piantagioni di cotone in cui nacque il blues ai gospel ritmati nelle chiese afroamericane, il canto è espressione spirituale nella forma d’arte più astratta e forse per questo più prossima al divino.
Shervin Hajipour ha vinto i Grammy Awards 2023 nella nuovissima categoria “Miglior canzone per il cambiamento sociale” con il brano Baraye, diventato un inno delle proteste in Iran dopo l’uccisione di Mahsa Amini ad opera della polizia morale. Baraye è una parola persiana che significa “per”.

Per

Per ballare nei vicoli
Per il terrore quando ci si bacia
Per mia sorella, tua sorella, le nostre sorelle
Per cambiare le menti arrugginite
Per la vergogna della povertà
Per il rimpianto di vivere una vita ordinaria
Per i bambini che si tuffano nei cassonetti e i loro desideri
Per questa economia dittatoriale
Per l’aria inquinata
Per Valiasr e i suoi alberi consumati
Per Pirooz e la possibilità della sua estinzione
Per gli innocenti cani illegali
Per le lacrime inarrestabili
Per la scena di ripetere questo momento
Per i volti sorridenti
Per gli studenti e il loro futuro
Per questo paradiso forzato
Per gli studenti d’élite imprigionati
Per i ragazzi afghani
Per tutti questi “per” che non sono ripetibili
Per tutti questi slogan senza senso
Per il crollo di edifici finti
Per la sensazione di pace
Per il sole dopo queste lunghe notti
Per le pillole contro l’ansia e l’insonnia
Per gli uomini, la patria, la prosperità
Per la ragazza che avrebbe voluto essere un ragazzo
Per le donne, la vita, la libertà
Per la libertà
Per la libertà
Per la libertà
 

Hajipour l’ha pubblicata per la prima volta su Instagram nel settembre 2022. In soli due giorni Baraye ha raccolto 40 milioni di visualizzazioni e ha dato grande notorietà all’autore attirando l’attenzione del governo iraniano che lo ha fatto arrestare e poi rilasciare su cauzione. Nel frattempo è stata cantata dai Coldplay in concerto a Buenos Aires e intonata negli stadi dei mondiali in Qatar come inno contro il giogo iraniano grazie al suo testo esplicitamente libertario, di scarsa ironia ma di urgenza esemplare.
La canzone di Shervin Hajipour potrà essere riproposta in ogni epoca e in ogni luogo senza grande fraintendimento. Non si può dire lo stesso di Dio dalla nostra parte, che per essere compresa necessita di un livello lievemente superiore alla semplice, per quanto poetica, emotività. La canzone di Bob Dylan, fosse cantata oggi in Iran, potrebbe essere presa alla lettera e usata come inno degli Ayatollah, tanto sono convinti, come altri prima di loro, che Dio sia dalla loro parte.