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Il Blog di Marco Ongaro.

Qui si trovano articoli che Marco Ongaro ha scritto per alcune testate giornalistico-culturali e scritti vari

LA VITA IN ROSA (Non solo Barbie)

LA VITA IN ROSA – Non solo Barbie
Articolo scritto da Marco Ongaro per la rivista Inchiostro

Se si tratta di individuare l’inno del ritorno alla vita nella Francia liberata dai nazisti e nel mondo liberato dalla guerra, non si può che parlare de La vie en rose.

Il testo è di Édith Piaf e, secondo la testimonianza di Norbert Glanzberg, anche la musica. «Quando mi ha chiesto di firmarla, ce l’aveva già tutta, la canzone è tutta sua, diceva “le cose” invece che “la vita”, ma il resto era già tutto fatto», dichiara il compositore. La melodia di sicuro, lui ne ha la prova perché la cantante gli ha chiesto di firmarla dopo avergliela fatta sentire, e lui non era il primo cui faceva una proposta del genere. Ha rifiutato per una questione di onestà. Come già aveva rifiutato il compositore e direttore d’orchestra Robert Chauvigny, con cui il Passerotto lavorava all’epoca. La storia dice che Chauvigny non ritenesse il testo alla sua altezza, in verità non riteneva tale la musica, già interamente concepita da Édith.

Marguerite Monnot, che da tempo collaborava e viveva a casa con lei, non ha accettato di firmarla perché trovava il ritornello troppo insignificante, troppo facile, troppo orecchiabile. È plausibile che vi abbia lavorato insieme a Édith, il passo del suo pianoforte s’intravede nella trama dei vari passaggi successivi. La sua riluttanza deve aver ispirato la scarsa fiducia in se stessa della cantante che, tornata di nuovo a mendicare sulla via dei musicisti, è andata cercando un autore che donasse dignità alla sua creatura, qualcuno che avallasse la musica da lei pensata per il suo testo. Ecco come nasce un capolavoro che segna un’epoca e diventa un sempreverde. Alla fine il pianista dell’orchestra accetterà, un artista destinato a passare alla storia per la celebrità di una firma posta su un’opera che non gli appartiene, buon per lui. Si chiama Louis Guglielmi, in arte Louiguy.

La canzone inizia con una quartina di preludio, la musica ne scandisce il carattere attendista con gli accordi al pianoforte, aperti, tratteggiati da corone frastagliate a sottolineare la funzione introduttiva dei primi versi, parole destinate unicamente a preparare la strada al poderoso ritornello che costituisce in effetti l’ossatura e l’essenza dell’intera canzone.

Occhi che fanno abbassare i miei / un riso che si perde nella sua bocca / ecco il ritratto senza ritocchi / dell’uomo cui appartengo.

L’uomo cui appartengo. Quanta forza e quanto abbandono in questa dichiarazione preventiva. È vero che Édith si rapporta così ai suoi uomini, anche se il suo è più un desiderio che una realtà. Un desiderio finora in parte frustrato. Non le è appartenuto fino in fondo nessuno degli uomini che ha amato, avevano altre donne, erano “belli indifferenti”, le facevano abbassare lo sguardo per l’emozione, certo, ma va anche detto che quando qualche uomo è stato assolutamente suo, come Raymond Asso, lei l’ha tenuto in disparte per cercarsi qualcuno che soddisfacesse con l’indifferenza e l’incostanza amorosa la sua sete di passionalità conturbata. Occhi negli occhi che lei non riesce a reggere, sguardo che deve abbassare e riso che si perde tra le labbra, ecco il ritratto schietto dell’uomo cui appartiene. Dopo la quartina d’introduzione, parte subito il largo ritornello, annunciato dalle note dell’orchestra accennate in un paio di battute a inizio brano, e il canto si stende semplice, in morbida discesa, di un’efficacia micidiale.

Quando mi prende tra le braccia / e mi parla sottovoce / vedo la vita in rosa. Intelligente ispirazione alla fine della guerra, epoca faticosa di ricostruzione e stenti, dipingere di rosa ogni cosa grazie all’amore di un uomo. Il suggerimento dato al mondo è: ora che abbiamo finito di scannarci, amiamoci, e ogni cosa cambierà colore, tutto diventerà più dolce e il futuro, che per definizione è bello se è roseo, crescerà nella fiducia e nella serenità. La realtà è ancora tutta qui, presente, ma il potere taumaturgico dell’amore può stendere una cortina colorata su tutto ciò che non va. La dichiarazione fondamentale sta nel verbo vedere coniugato alla prima persona singolare. Vedo la vita in rosa non significa necessariamente che lo sia, anzi. Sono le braccia dell’amato, è il suo dolce mormorare a cambiare il colore alle cose, è la presenza amorevole dell’uomo cui la donna si abbandona a mutare la prospettiva dell’esistenza e a renderla non solo migliore, ma meravigliosa.

Mi dice parole d’amore / parole di tutti i giorni / e questo mi fa qualcosa. Nella seconda terzina del ritornello l’amore non fa rima con sempre. Non è la coppia amour/toujours a fare rima, bensì la coppia “amore e giorni”. E neanche dei giorni speciali, “tutti i giorni”. Le parole che lui le dice sono ordinarie, parole d’amore che ripete tutti i giorni senza inventiva eppure, proprio in virtù di questo, “le fanno qualcosa”. Sarà il tono della voce, così sussurrato, saranno le braccia che la stringono, l’idea di quotidianità penetra nella magia del sentimento a offrire due chance alla vita: una, quella che ogni giorno si parli d’amore, l’altra, che delle semplici parole di tutti i giorni bastino a rendere felice una donna. Le parole di tutti i giorni sanno parlare al cuore della protagonista senza alcuna pretesa di essere poetiche. È l’autenticità delle parole, non il loro essere scontate, a muoverle qualcosa dentro. Il realismo passa attraverso il romanticismo e ne esce rafforzato, depurando di ogni stucchevolezza il lirismo dell’emozione.

Ora il ritornello può aprirsi verso l’alto, conducendo le note, che erano in graduale discesa, verso un punto di svolta: È entrato nel mio cuore / Una parte di felicità di cui conosco la causa. L’uomo cui appartiene è entrato nel suo cuore e coincide con una sensazione di piacere, di fortuna, di benessere che sembrerebbe inspiegabile, perché inattesa, ma da cui lei, con la solita aria da cantante realista, indica di non essersi lasciata prendere alla sprovvista, indovinandone bene l’origine. Questa gioia insperata viene dall’uomo che le è entrato nel cuore e dalla certezza che ne deriva: È lui per me, io per lui, nella vita / Lui me l’ha detto l’ha giurato per la vita. Questa specie d’inciso all’interno dell’ampio ritornello rappresenta il nucleo del concetto, la rivelazione centrale, la spiegazione che dalle parole di tutti i giorni si espande al giuramento di eternità. La nota sulla ripetizione di “vita” viene allungata in sospensione, come se la protagonista volesse rassicurarsi in merito al giuramento dell’uomo. E che la vita di cui si parla sia lunga, più lunga delle altre, così come la nota che si apre verso l’alto e si ripiega in una curva sentimentale per riallacciarsi alla terzina conclusiva del lungo refrain.

E appena me ne rendo conto / allora sento in me / il mio cuore che batte. È allora che avverte in sé, forse tumultuoso, il simbolo del sentimento restituirle la conferma delle sue funzioni vitali. Tra sollievo ed emozione, la vita pulsa.

Il ritornello è finito e riprende l’interludio, il secondo e ultimo che prepari nuovamente il balzo all’accattivante ritornello. Una quartina ancora che, come la prima, serve soprattutto a preparare, separare, annunciare il vero spazio della canzone. Notti d’amore a non finire / Una grande felicità che prende il suo posto / le noie, i dispiaceri si cancellano / Felice, felice da morirne. E riparte il ritornello, come una danza lenta, placida, che trasmette sicurezza. Non c’è alcuna maniacalità nell’asserire tanta gioia. La soggettività non ne sminuisce il valore. È lei che vede la vita in rosa, non è la vita a esserlo, eppure la cosa è vera e palpabile come il cuore che le batte in petto, e lo è perché lui le ha giurato che sarà per sempre e questo le basta ogni volta che se ne accorge. È come fosse stata perduta nei dispiaceri del passato e potesse tornare a immergervisi da un momento all’altro, non appena lui mollasse la presa e l’abbraccio sparisse, perché le parole sono di tutti i giorni, e non sono il vuoto “sempre” che fa banalmente rima con amore. Per lo stesso motivo non accadrà, non sprofonderà di nuovo nella tristezza che la circonda se osserva il mondo fuori da quell’abbraccio, perché quelle parole di tutti i giorni garantiscono che la promessa è autentica come la quotidianità in cui viene espressa. È questo a rassicurare la donna sull’amore e sulla sua durata. Forse una volta sciolto l’abbraccio torneranno noie, paure e dispiaceri, perché i tempi sono duri, ma lei gli crede e lui ha giurato, quindi in questo momento, mentre lui la prende tra le braccia e sussurra, la vita è rosa come lei la vede. E continuerà a esserlo, forse. Cosa conta? L’importante è l’adesso dell’abbraccio, questo “quando” che apre il ritornello. Perciò l’andamento è così placido, concedendosi la calma della solennità, quasi una berceuse, una danza che culla, una ninnananna regale che Édith canta a se stessa per convincersi che i tempi buoni sono finalmente arrivati. È struggente il fatto che lei ce lo racconti in prima persona. Una donna che insiste a narrarci la sua felicità per persuadersene, affinché noi ascoltatori le crediamo e, facendolo, confermiamo la promessa che lui le ha fatto. «Guardatelo il mio uomo», sembra dire. «Questo è il suo ritratto senza ritocchi, tale e quale. Guardatelo e ditemi voi che è tutto vero». Nel dubbio, ce lo ripete due lunghe volte, cercando di essere tranquilla e sognante il più possibile. In una versione successiva, interviene una variante nella ripetizione del ritornello: laddove s’innesta l’inciso, passa al “tu”, scivola nel discorso diretto, facendo aderire appieno forma e contenuto. Sei tu per me e io per te, amica mia / lui me l’ha detto, l’ha giurato per la vita. La donna ha interrotto la narrazione delle azioni di lui in terza persona e del proprio, roseo, punto di vista, e cerca di convincere l’uditorio con una scena mimata, un discorso diretto che spieghi ancora meglio che è tutto vero, lui ha detto proprio così: “tu per me e io per te, amica mia”. L’ha giurato, lo ricorda come se fosse qui in questo momento a ripeterlo, ci prega di crederci.

E noi le crediamo, perché lo vogliamo per lei e perché lo vogliamo per noi.

Non poteva che diventare l’inno della fine della guerra, l’invito all’ottimismo della Ricostruzione. La cantante rende il pubblico talmente partecipe della sua felicità da costringerlo a trepidare per lei come per sé. Se lei non si sbaglia, nemmeno gli ascoltatori si sbaglieranno nelle proprie rispettive esistenze. Il pubblico spera che la speranza di questa piccola donna vestita di nero sia fondata. La vie en rose unisce i cuori sotto un’unica, medesima aspettativa, per questo è un inno.

Nel 1946 unisce la Francia e si prepara a spopolare negli Stati Uniti, dove sarà cantata da Louis Armstrong, nel 1950, tradotta in inglese, mantenendo l’espressione francese del titolo anche nel ritornello anglofono e ripetendone l’enorme successo. Édith Piaf e Louis Armstrong, due figure artistiche e umane di levatura paragonabile.

La vie en rose è ormai un modo di dire, un proverbio, una poesia popolare, non è solo una canzone, non solo una donna e la sua visione del mondo tra le braccia dell’uomo che ama: è un prodigio esploso nel momento giusto, il ritorno alla vita in un mondo squassato dalla più orribile delle guerre. È il simbolo dell’arte che vince sulla crudeltà, della speranza che vince sulla morte. E tutto grazie a una concreta illusione d’amore.

Più tardi, nel nuovo millennio, il rosa diventerà simbolo di una bambola incarnata in un film di successo.

Ascoltare Dylan in Iran – Ironia dell’ipocrisia

ASCOLTARE DYLAN IN IRAN – Ironia dell’ipocrisia
Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Bob Dylan pubblica With God on Our Side nel 1964. Una canzone tristemente ironica in cui la visione umana di Dio, tirato dalla propria parte dai vari clan che intendono giustificare la propria condotta in fatto di guerra, soprusi e atrocità, si presta a ogni insana manipolazione storica. Così lo sterminio dei nativi, la guerra ispano-americana, la guerra civile statunitense, le due Guerre mondiali, la Guerra fredda, la Shoah, e perfino il tradimento di Gesù da parte di Giuda vengono di volta in volta etichettati come cause protette se non promosse dalla volontà divina.

Oh il mio nome non è niente
La mia età conta meno ancora
Il paese da cui provengo
Si chiama Midwest
Mi hanno cresciuto lì e insegnato
Le leggi da rispettare
E quella terra in cui vivo
Ha Dio dalla sua parte

Oh, lo raccontano i libri di storia
Lo raccontano così bene
Le cavallerie caricarono
Gli indiani caddero
Le cavallerie caricarono
Gli indiani morirono
Oh, il paese era giovane
Con Dio dalla sua parte

Lo guerra ispano-americana
Ha fatto il suo tempo
E anche la guerra civile
Fu presto messa da parte
E mi son stati fatti memorizzare
I nomi degli eroi
Con le pistole in mano
E Dio dalla loro parte

La prima guerra mondiale, ragazzi
È venuta ed è andata
La ragione per combattere
Non me l’hanno mai data
Ma ho imparato ad accettarla
Accettarla con orgoglio
Perché tu non conti i morti
Quando Dio è dalla tua parte

La seconda guerra mondiale
Arrivò ad una conclusione
Perdonammo i Tedeschi
E poi fummo amici
Anche se ne hanno uccisi sei milioni
Li hanno fritti nei forni
Adesso anche i Tedeschi
Hanno Dio dalla loro parte

Ho imparato a odiare i Russi
Per tutta la mia vita
Se arriva un’altra guerra
È contro di loro che dobbiamo combattere
Per odiarli e temerli
Per scappare e nascondermi
E accettare tutto questo con coraggio
Con Dio dalla mia parte

Ma ora abbiamo le armi
Di polvere chimica
Se siamo costretti a bruciarli
Allora dovremo bruciarli
Una pressione sul pulsante
E uno sparo in tutto il mondo
E non fare mai domande
Quando Dio è dalla tua parte

Attraverso molte ore buie
Ci ho pensato
Che Gesù Cristo fu
Tradito da un bacio
Ma non posso pensare per te
Dovrai decidere tu
Se Giuda Iscariota
Aveva Dio dalla sua parte

Quindi ora mentre me ne vado
Sono stanco da morire
La confusione che sto provando
Nessuna lingua può dirla
Le parole mi riempiono la testa
E cadono sul pavimento
Che se Dio è dalla nostra parte
Fermerà la prossima guerra
A parte l’ultima strofa, la canzone trasuda ironia, figura retorica che consiste nel dichiarare l’opposto di ciò che si pensa, uno strumento straordinario contro l’ipocrisia, che consiste nel fare il contrario di ciò che si dichiara, a patto che si sia in grado di rendersi conto che di ironia si tratta. Le metafore, quando sono elevate e non si limitano a una frase ma a un intero corpus simbolico, vanno colte con l’intelligenza o finiscono per essere interpretate letteralmente mettendo in scena nonsense, quando non addirittura significati antitetici a quanto desiderato nel formularle.
Così può accadere che il video girato dai boia iraniani prima dell’esecuzione del ventitreenne Majidreza Rahnavard, giovane impiccato per aver partecipato alle proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, colpevole di non aver indossato il velo in modo corretto il 13 settembre 2022 in un luogo pubblico a Teheran, venga divulgato dai suoi giustizieri per avvalorare la sua condanna a morte senza processo. Le sue ultime volontà: «Non piangete sulla mia tomba, non leggete il Corano, non pregate. Siate gioiosi. Suonate musica allegra» diventano la prova di empietà utile a giustificare pienamente l’esecuzione. Nella mente di carnefici dediti al fanatismo religioso istituzionalizzato le parole di Majidreza non sono l’ultimo desiderio di un martire che si ribella all’oppressione integralista, bensì un’estrema ammissione di colpa. Perché Dio è dalla loro parte, come cantava Dylan, così interamente dalla loro parte da venire sconfessato sull’orlo della morte da un giovane ribelle a cotanta arrogante convinzione. Un video che avrebbe dovuto rimanere secretato per un secolo, tanta è la potenza spirituale del ragazzo che riconosce nella vitalità della musica l’essenza divina che lo anima, è invece diffuso stolidamente a testimonianza del rigore mentale, prossimo al rigor mortis, di un regime che strangola il suo popolo tra le spire della sua inflessibile quanto pretesa interpretazione della religione.
È ancora la musica, sono ancora le canzoni, come la Zombies dei Cranberries cantata dalle giovani manifestanti russe nella primavera di proteste contro la guerra in Ucraina, a segnare il distacco tra l’elasticità del pensiero libero, avvezzo all’ironia, e la fissità di quello totalitario incapace di comprenderla. Majidreza Rahnavard rammenta al mondo che il canto è preghiera, dalle piantagioni di cotone in cui nacque il blues ai gospel ritmati nelle chiese afroamericane, il canto è espressione spirituale nella forma d’arte più astratta e forse per questo più prossima al divino.
Shervin Hajipour ha vinto i Grammy Awards 2023 nella nuovissima categoria “Miglior canzone per il cambiamento sociale” con il brano Baraye, diventato un inno delle proteste in Iran dopo l’uccisione di Mahsa Amini ad opera della polizia morale. Baraye è una parola persiana che significa “per”.

Per

Per ballare nei vicoli
Per il terrore quando ci si bacia
Per mia sorella, tua sorella, le nostre sorelle
Per cambiare le menti arrugginite
Per la vergogna della povertà
Per il rimpianto di vivere una vita ordinaria
Per i bambini che si tuffano nei cassonetti e i loro desideri
Per questa economia dittatoriale
Per l’aria inquinata
Per Valiasr e i suoi alberi consumati
Per Pirooz e la possibilità della sua estinzione
Per gli innocenti cani illegali
Per le lacrime inarrestabili
Per la scena di ripetere questo momento
Per i volti sorridenti
Per gli studenti e il loro futuro
Per questo paradiso forzato
Per gli studenti d’élite imprigionati
Per i ragazzi afghani
Per tutti questi “per” che non sono ripetibili
Per tutti questi slogan senza senso
Per il crollo di edifici finti
Per la sensazione di pace
Per il sole dopo queste lunghe notti
Per le pillole contro l’ansia e l’insonnia
Per gli uomini, la patria, la prosperità
Per la ragazza che avrebbe voluto essere un ragazzo
Per le donne, la vita, la libertà
Per la libertà
Per la libertà
Per la libertà
 

Hajipour l’ha pubblicata per la prima volta su Instagram nel settembre 2022. In soli due giorni Baraye ha raccolto 40 milioni di visualizzazioni e ha dato grande notorietà all’autore attirando l’attenzione del governo iraniano che lo ha fatto arrestare e poi rilasciare su cauzione. Nel frattempo è stata cantata dai Coldplay in concerto a Buenos Aires e intonata negli stadi dei mondiali in Qatar come inno contro il giogo iraniano grazie al suo testo esplicitamente libertario, di scarsa ironia ma di urgenza esemplare.
La canzone di Shervin Hajipour potrà essere riproposta in ogni epoca e in ogni luogo senza grande fraintendimento. Non si può dire lo stesso di Dio dalla nostra parte, che per essere compresa necessita di un livello lievemente superiore alla semplice, per quanto poetica, emotività. La canzone di Bob Dylan, fosse cantata oggi in Iran, potrebbe essere presa alla lettera e usata come inno degli Ayatollah, tanto sono convinti, come altri prima di loro, che Dio sia dalla loro parte.

VIAGGIO A BREMA – La musica come arma

VIAGGIO A BREMA – La musica come arma

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Non è certo Il Pellegrinaggio in Oriente di Herman Hesse, uscito nel 1932, il primo esempio di apparente inconcludenza che un’esperienza di viaggio suscita in una narrazione. I protagonisti, che dopo aver percorso parte dell’Europa e del Medio Evo si incagliano in un contrattempo che li blocca a Bormio Inferiore, stimolano una visione mistico metaforica della natura iniziatica del viaggio. L’insegnamento viene dal progredire attraverso lo spazio e il tempo, non dal raggiungere una meta fittizia la cui prospettiva è utile più che altro a dare avvio all’avventura. Si fermeranno e si disperderanno a Bormio Inferiore ben prima di scoprire che quell’intoppo, la sparizione di un servitore insieme ad alcuni loro oggetti personali, era la vera prova da superare per raggiungere l’obiettivo spirituale. L’Oriente, come culla filosofica ma anche come semplice punto sorgente della luce del mattino, si trova ovunque la misera personalità del neofita abbia l’opportunità di temprarsi. Qualunque prova del pellegrinaggio ne è la meta nella misura in cui forgia lo spirito del viaggiatore. Come si diceva, non è certo questo gioiellino di mise en abyme e metaletteratura mistica il primo esemplare di incompiutezza nella narrazione di un viaggio. Basti pensare a Giovinezza, racconto autobiografico pubblicato da Joseph Conrad nel 1898, in cui il carico nella stiva di una nave che il secondo ufficiale deve contribuire a far giungere a Bangkok non arriverà mai, ma importa poco, perché le promesse che l’età ha in serbo per il giovanotto superano di gran lunga le vicissitudini e la mancata realizzazione della missione. Ancora una volta, la meta non è geografica ma esistenziale e lo scopo è connaturato alla stagione della vita che si sta attraversando. Il protagonista del Pellegrinaggio è ormai ben adulto e alla ricerca di una elevazione religiosa, quello di Giovinezza è talmente immerso nei suoi vent’anni da accogliere la meraviglia sotto qualunque forma gli si presenti, sia pure come traversia. Il viaggio è iniziazione in entrambi i casi, a dispetto dell’approdo in un luogo designato.
Grande anticipazione in tal senso si trova nella gustosa fiaba I musicanti di Brema, pubblicata dai fratelli Grimm nel 1819 ma risalente, come denuncia la scelta della città nel titolo, al periodo anseatico in cui essa si fregiava di diritti speciali di libertà. La Lega anseatica è un’alleanza tra alcune città che dal tardo Medioevo fino all’inizio dell’Era moderna hanno mantenuto il monopolio dei commerci su gran parte dell’Europa settentrionale e del Mar Baltico, favorendo l’emigrazione all’estero lungo il Weser via Brema. La sua fondazione viene fatta risalire al XII secolo, epoca a partire dalla quale Brema assume musicisti per la municipalità fino alla fine del XVIII secolo. Nella fiaba è naturale che diventi l’immagine di un luogo di nostalgia per gli animali che sono fuggiti dal loro paese per evitare di finire male, ciascuno a suo modo. Molte sono le chiavi di interpretazione di una storia così essenziale e stralunata. Un asino, un cane, un gatto e un gallo si incontrano sulla via di fuga dalle rispettive inospitali fattorie di provenienza e, dopo essersi narrati minacce e peripezie che li hanno spinti fino a lì, decidono di proseguire insieme per trovare lavoro a Brema come musicisti.
Qual è il loro strumento musicale? Il verso. Il ragliare dell’asino, il miagolio e pure il soffio del gatto, l’abbaiare e il guaire del cane, nonché la celebre onomatopea del gallo, unico ad aver diritto nel suo verso all’appellativo nobile di “canto”. Il primo piano metaforico è quello dell’orchestra, una realtà in cui le differenze si intrecciano per miracolo risultando in un’armonia che, proverbialmente, non sarebbe poi naturale tra bestie non affini come il cane e il gatto. I musicisti devono farsi andar bene lo scopo comune, la band è un crogiuolo che trasforma in accordo, grazie alle comuni disgrazie, ciascuna nota stridente tra i caratteri dei suonatori. Il livello simbolico si innalza così alla diversità delle specie, delle etnie eterogenee costrette a giungere a miti consigli e fare “lega” per l’obiettivo comune di sopravvivere.
La canzone che ne ha tratto Vinicio Capossela nel 2019 si ferma al di sotto di questo livello limitandosi a interpretare in dettaglio le ragioni che hanno spinto i poveri animali a scappare dalle loro case e il miraggio che Brema li accolga nell’orchestra cittadina. La speranza di salvarsi insieme è sorretta da un’Utopia che la canzone giustamente non si cura di mostrare raggiunta mentre la fiaba, pur non narrandone a sua volta la realizzazione, affina la tavolozza delle corrispondenze a un livello superiore con morali della favola avvitate a spirale e potenziate. E qui il prodigio del canto, del verso, del fraintendimento diventa il vero tema in un mondo che si affida alla comunicazione tra umani.
Durante il viaggio i quattro migranti si trovano a passare per un bosco di notte e, affamati, decidono di trovare rifugio in una casa abitata da briganti che stanno apprestandosi a mangiare ogni ben di Dio. I quattro animali allora si pongono l’uno sopra l’altro e tengono il loro primo concerto, denunciando la consapevolezza di quanto la loro arte sappia essere molesta. Il fracasso è tale da far scappare a gambe levate i ribaldi, convinti che il frastuono sia conseguenza di un maleficio di fantasmi. Non c’è niente di più spaventoso di ciò che non si capisce: questa potrebbe essere una morale del racconto, giacché i bruti temono l’ultraterreno e sono portati a credere alla sua esistenza. Una seconda morale, che la musica può essere celestiale ma anche infernale a seconda della volontà dei suonatori, e qui è evidente che l’intento del gruppo era di spaventare, non senza svelare la loro malafede di aspiranti strumentisti. Il loro progetto di suonare per la municipalità di Brema, per quanto città illuminata dagli accordi anseatici, non avrebbe forse avuto buon fine. Ne sono coscienti, non per niente usano la loro musica come arma.
Ma l’intrico dei segni malintesi non si ferma a questo punto del racconto. Nella notte uno dei briganti, forse il più furbo o il più affamato, torna alla casa per sincerarsi di poter riprenderne possesso. I presunti musicanti stanno dormendo, la casa è immersa nel buio e ciò favorisce l’ispessimento semiotico della fiaba: entrando al buio il poveretto va in cucina per trovare una candela e vede brillare nell’oscurità gli occhi del gatto. Li prende per carboni ardenti e avvicinando lo stoppino stimola la reazione violenta del felino che gli salta in faccia e lo graffia. Qualche passo indietro e il cane gli addenta una gamba. Uscendo una zoccolata d’asino lo prende in pieno mentre il gallo dal tetto emette uno dei suoi versi più lugubri e acuti. Di nuovo in fuga ma stavolta per minacce ben più concrete della cacofonia di un concerto animalesco, il malcapitato torna dai compari e fa il suo resoconto dell’accaduto. Leggiamolo nella preziosa traduzione di Antonio Gramsci:
“Il brigante corse come meglio poté dal suo capo e disse: «Ahimè, nella casa si è stabilita una orrenda strega, che mi ha soffiato in faccia e con le sue lunghe dita mi ha graffiato; dinanzi alla porta stava un uomo con un coltello che mi ha pugnalato la gamba e nel cortile era sdraiato un mostro nero che mi ha bastonato con una mazza, e sopra il tetto c’era il giudice che gridava: – Consegnatemi quel briccone! – Sono riuscito a stento a scappare».
Il travisamento è degno delle migliori interpretazioni psicoanalitiche in merito alle personali fobie. Ciò che non si vede lo si immagina, si riveste qualcosa di ignoto con ciò che è noto anche se del tutto infondato, il buio favorisce fantasie sperticate, l’oscurità della ragione offre sempre spiegazioni la cui plausibilità risiede nei fantasmi della mente di chi ignora. Alla ridda di morali assommate nello squisito finale si aggiunge l’equivoco del verso del gallo scambiato per un discorso compiuto: “Consegnatemi quel briccone!” Quanta paura ci vuole per trasformare l’ululato di un capo-pollaio nelle parole di un magistrato? E quanto il giudice temuto assomiglia in verità a un galletto allarmato?
Il trucco narrativo che dovrebbe insegnare ai bambini a non fidarsi delle apparenze chiude la storia: i velleitari musicisti in cambio di una casa tutta loro, il sogno del migrante, rimangono nel frutto del loro esproprio proletario e rinunciano a raggiungere Brema. Rubare una casa a dei briganti non è reato. Le illusioni artistiche scemano non appena il loro obiettivo utilitaristico viene a decadere. In fondo non erano musicisti nell’anima, volevano solo sbarcare il lunario e avere salva la vita. Ora che la sopravvivenza è assicurata, chissenefrega della musica e della municipalità.
Accade questo con i viaggi della speranza, hanno una destinazione cangiante, autoriducibile a seconda delle circostanze. E tutti i viaggi, sotto sotto, lo sono.