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Il Blog di Marco Ongaro.

Qui si trovano articoli che Marco Ongaro ha scritto per alcune testate giornalistico-culturali e scritti vari

VOCE – Canto tempo, viaggio e amore

Il 25 ottobre 2016 è uscito  il nuovo cd di canzoni inedite VOCE.

Quando Gandalf Boschini, già produttore in ambito pop dance, mi propose di incidere questo album non comprendevo cosa lo muovesse. Registrare un disco di canzoni eseguite in diretta, da me solo, come se andassi a cantare con la mia chitarra in un locale dove c’era pure un pianoforte verticale era un’impresa anacronistica.
«Proprio per questo dovresti farlo», fu la sua risposta. «Dischi così non se ne fanno più. La gente si troverebbe davanti la verità, quello che sei tu, le tue canzoni, senza mediazioni di strumentisti, senza abbellimenti di arrangiamento che ormai si ascoltano dappertutto». Questo è il bello di avere un produttore: lui ha un’idea sul da farsi, un progetto. Tu ci metti le canzoni e ti affidi. Il fatalismo è forse l’unico modo di sconfiggere la tirannia del caso. Così ho raggranellato dieci titoli inediti, quattro dei quali (Bionda, Orient Express, Tutto relativo, Cambierò) scaturiti da suggerimenti di Pascal Schembri nel corso della nostra annosa collaborazione letteraria (a dire il vero, Bionda all’origine nasce da uno stimolo di Allain Leprest), più uno edito da altri in mille forme (Alleluia) e da me tradotto sotto il pungolo di Flavio Poltronieri su un modello precedentemente impostato da Stefano Orlandi.
Al momento di scegliere un titolo per questa raccolta  concettualmente rapsodica, abbiamo ritenuto che, in linea con la scabra scelta artistica, sarebbe bastato il semplice nominativo dell’autore/esecutore, ma poi abbiamo optato ancor più sobriamente per il titolo della decima canzone.

Marco Ongaro

Intervista a Marco Ongaro su Cultora.it sull’ultimo disco VOCE

 

È uscito “Voce”, il nuovo disco del cantautore italiano Marco Ongaro su etichetta D’autore/Azzurra.

Dopo otto dischi tra cui il pluripremiato “Canzoni per adulti” – finì tra i dischi finalisti in corsa per la Targa Tenco Miglior album in assoluto dell’anno – il cantautore veronese approda al suo nono album di inediti virando in una direzione più introspettiva.
Il disco è disponibile su tutti gli store digitali, le piattaforme streaming e nei migliori negozi di dischi.
Abbiamo intervistato l’artista.
“Voce”, il suo nuovo disco, il nono per la precisione, prende il nome dalla decima traccia. Cosa si condensa e si cela dietro questo titolo?
Un album voluto dal produttore Gandalf Boschini in forma non arrangiata, cioè con una strumentazione essenziale, quella di me che suono e canto, alla chitarra o al pianoforte, di tanto in tanto soffiando in un’armonica. La “Voce” della decima traccia, ispirata a una poesia di Ghiannis Ritsos, è venuta buona per sintetizzare questa scelta stilistica un po’ controcorrente. Nell’epoca degli effetti elettronici sempre più sovraincisi su strumentazioni multitraccia, diamo alla voce l’importanza che già la parola, nella nostra visione dell’economia di una canzone, merita insieme alla musica.
Il disco si compone di 10 brani inediti e di Allelulja, la traduzione del celebre brano di Leonard Cohen. Perché ha deciso di farsi mediatore della poesia di Cohen? Che valore ha per lei la traduzione?
Non è la mia prima esperienza. Molte sono le canzoni di Cohen che ho tradotto e alcune le ho pubblicate già nei dischi precedenti. In “Certi sogni non si avverano” ho inciso Non portartelo a casa se è duro, nel 1995. In “Canzoni per adulti”, nel 2010, ho pubblicato La ballata della cavalla assente e Ricordi.Brani abbastanza marginali nella produzione di Cohen, due di essi provenienti da un album “scomunicato” nella carriera del folksinger canadese, “Death of a ladies’ man”. In “Voce” ho sentito la necessità di dare “voce” a un brano celeberrimo, il più mainstream di Cohen, nell’intento che ha sempre mosso le mie traduzioni, di divulgarne cioè il significato. Molti in Italia conoscono la canzone e l’apprezzano senza capire veramente di cosa parli. La traduzione ha questa funzione, quella di cercare di restituire nell’adattamento alla mia lingua la bellezza di un testo concepito in una lingua diversa. Farne una canzone italiana, insomma, rispettando il più possibile la lettera e lo spirito dell’autore originale.
“Voce” si presenta, rispetto ai dischi precedenti, più confidenziale, più intimistico. Un album introspettivo che tenta di dare delle risposte e delle soluzioni all’uditorio o più semplicemente una riflessione “tra amici”?
Una riflessione ma non tra amici. Tra esseri umani, se l’essere parte dell’umanità è sufficiente a farci sentire amici. Magari lo fosse. L’intimismo (non a caso molto caro anche a Cohen) è la via verso l’identificazione di sé negli altri, un’immagine riflessa di sé in cui altri possano riconoscere alcuni lineamenti. L’impressione introspettiva è suggerita dalla scarna strumentazione, forse, giacché nella mia produzione mai è venuto a mancare lo scavo interiore, nemmeno quando mi accompagnava la Scorta, gruppo preminentemente rock. La visione del mondo, ce lo insegnano i Grandi, se non passa attraverso se stessi può risultare distorta, inattendibile, non aderente a una verità che comunque sarebbe sempre soggettiva. Pretendere di scrivere qualcosa di oggettivo è inerpicarsi su una montagna troppo alta. Non esiste la realtà, cantava il buon vecchio Claudio Rocchi ispirandosi a filosofie orientali condivise da Nietzsche. Ma in mezzo a tutto questo abbiamo una canzone sulla Costituzione italiana, Costi quel che costi, scelta forse spiazzante che ci astrae dal soggettivismo coatto, passando comunque attraverso la rimasticazione personale. un brano “hip hop legislativo” in mezzo a canzoni sull’amore, sul tempo che fugge, sulla bellezza che resta o sfiorisce: giusto per non starsene mai tranquilli su niente.
Costi quel che costi è un rap sui valori della Costituzione che risulta inevitabilmente attuale. Da cosa è nata l’idea? Perché ha scelto questo genere musicale per un tema di tale portata.
La Carta dei diritti e doveri è parola, parla. A cantarla mi sembrava di mancarLe di rispetto. Quando ho affrontato l’impresa nel 2009, su commissione dell’Università degli Studi di Verona, ho capito subito che non poteva che diventare un rap. Inserirla adesso in un cd potrebbe sembrare tendenzioso, ma la scelta è stata quasi casuale. Come per la morte di Cohen qualche giorno dopo l’uscita della mia versione di Alleluia. Per l’una come per l’altra canzone ho ritenuto fosse giunto il momento di metterle su disco, dopo averle eseguite in varie circostanze. Il disco fissa l’opera nel tempo, ne avevo bisogno. Il resto l’ha fatto l’universo delle coincidenze, quello che Cocteau definisce il “Meraviglioso”, cioè un ordine leggermente sconvolto in cui accadono prodigi sempre di piccola entità, che talora sembrano suggerire significati più ampi della loro appartenenza al semplice caso.
Lei ha definito il disco “cosmopolita”. Le sue canzoni ospitano infatti svariati temi universali: dal viaggio (Orient Express) al relativismo della bellezza (Elena), dall’amore (Essi vivono) al tempo (C’era un ragazzo ora non c’è). Quali sono i suoi principali modelli, a cosa e a chi si è ispirato?
Alla mia età non rammento più da quali e quanti Maestri mi sono lasciato influenzare. Dylan e Cohen, certo, ma anche Brel e i Rolling Stones. E il Gianni Morandi di quando ero bambino (lui è sempre esistito e sempre esisterà, Dio lo salvi in eterno), il Battisti di quando ero adolescente, De Gregori e i New Trolls con Vittorio De Scalzi di cui sono diventato collaboratore per un suo disco e che mi ha aiutato anche nella musica di Costi quel che costi. Un po’ come fa Tarantino per i registi, potrei nominare i Dik Dik e l’Equipe 84 come modelli senza timore di mentire. Tutto ciò che era nell’aria quando ero giovane entrava in me insieme a Jimi Hendrix, non rinnego nulla, tutto mi è servito a scrivere ogni minima parola in musica di ciò che la mia coscienza ora distilla. E ciò che ho letto anche, e i film che ho visto. Ma volete mettere la magia di cantare La miniera in falsetto a quattordici anni, a una festicciola tra compagni di scuola, e trentacinque anni più tardi trovarsi a scrivere canzoni insieme al suo autore? La vita è un miracolo a ogni curva.
Il disco pare essere frammentato o meglio – come lei ha dichiarato – “rapsodico”.
Alla base del suo album non è possibile quindi rintracciare un progetto, un filo conduttore delle canzoni?
Nato come una raccolta di canzoni di epoche e contesti diversi, l’album ha finito per riallinearsi involontariamente a un filo conduttore comune: il tempo che fa sfiorire la bellezza (il verbo “era” uccide la sua terza persona), muta il significato alle cose (“È programmatica o precettiva?/ E cerca perfezione/ Offre redenzione”), promette e poco mantiene (“Per cento volte pensò di sì/ E poi rispose no” – “C’era un ragazzo adesso non c’è”). Ma è un tema così ampio e assoluto che chiunque avrebbe saputo tracciare questo filo lungo i segni tracciati dalle canzoni, col senno di poi. Quando si ha a che fare con la frammentarietà implicita nell’espressione in versi, tutto può esser fatto combaciare.
Biancamaria Stanco

UN AEDO SENZA UNA LIRA

Un aedo senza una lira
Articolo di Marco Ongaro pubblicato su Cultora

Dall’urlo di Marsia spellato vivo nella boscaglia dopo aver perso la sfida musicale con Apollo, i cantori hanno sperimentato tempi difficili nel cimentarsi con il dio della poesia. Il rischio di finire scorticato per note non all’altezza delle sue parole, o viceversa, dissuaderebbe l’aedo più audace. Giusto il rapsodo, in quanto esecutore di cover, potrebbe illudersi di essere al riparo dalla maledizione del capostipite silvestre.
Non a caso ultimamente sempre più autori consacrati hanno ripiegato verso la traduzione o mera esecuzione di brani non propri. L’interpretazione diventa oggetto di disamina, la scrittura non più.
E si può immaginare che a perdere Marsia sia stata la sua incapacità di competere col suo flauto, con la sua arte aulica, a confronto con il dio della poesia armato di lira. La lira lascia libera la bocca per il canto, il flauto no. Le parole possono formarsi e salire in superficie sull’armonia lirica, mentre con il flauto rimangono scimmiottate più o meno delicatamente tra le guance. È il trionfo del cantautore sullo strumentista. Del multidisciplinare sullo specialista. Il poeta scrive e canta, così come il suo dio Apollo, mescola parole e musica, crea mondi tra un’arte e l’altra, il suonatore esegue melodie memorabili, ma è finita lì.
«Quando un sileno con il flauto incontra un dio con la cetra, il satiro con il flauto è un satiro scorticato», sarebbe questa la versione del mito in chiave spaghetti western. E la disavventura di Marsia insegna a tutti gli artisti: meglio non fissarsi in una forma. Meglio variare lo strumento o separarsene, soprattutto tenere libera la bocca.
Ma cosa succede quando l’aedo lascia la sua lira per dedicarsi magari alle parole, a espressioni poetiche multiformi non più sostenute dallo strumento musicale? È curiosa la reazione suscitata nel pubblico dall’ultima incarnazione di Marsia, il cantautore che lascia chitarra o pianoforte per armarsi di penna. Una sorta di sconforto coglie lo spettatore. Forse, più che sconforto, disorientamento: che ne è del poeta cantore?
La figura che accomunava le parole con le note ora trasfigura nell’inconsistenza di uno che scrive, scrive “soltanto”. La hybris di ritenersi poeta e basta, o romanziere, o saggista, blogger o qualunque altra categoria d’autore senza pianoforte e chitarra, autore senza strumento, sovrasta in dimensioni la piccola abitudine di disporre versi su cadenze tonali, eppure non risalta tanto per l’esagerazione quanto invece per la riduzione di efficacia intrinseca all’eliminazione dell’elemento musicale. Se la superbia del narratore o pamphlettista si mostra nel non aver bisogno di accompagnamento, quella del cantautore riciclato si erge immensa nella rinuncia allo strumento in favore di altre vie espressive, orfane di musica.
Al cospetto delle varie manifestazioni del fenomeno – salto nella letteratura, nella poesia, nella saggistica e nel romanzo, tuffo nell’opinionismo, nella regia cinematografica, nella conduzione teatrale e perfino televisiva – nessuno può negare la propria delusione per il cantautore scoperto a svolgere un’attività diversa dalla sua primigenia. Non gli ha da esser concesso di cambiare, di reimpostare la propria professionalità, giacché il cantore ha una missione popolare cui il popolo lo richiama costantemente, a costo di farsi spellare vivo.

MEKTOUB – Il Destino del Verbo

MEKTOUB – Il Destino del Verbo

Articolo di Marco Ongaro pubblicato su Cultora

Negli anni Cinquanta del secolo scorso la diaspora di artisti della cosiddetta Beat generation, per lo più scrittori, sperimenta una deriva parigina dopo la vigorosa partenza per il West degli Stati Uniti e il Messico, aprendosi poi a località esotiche quali, una su tutte, Tangeri. Così la cultura americana viene a incontrare il mondo arabo in un’area mista, una città in cui ciascuno è chiamato a esprimere, volente o nolente, il codice fondamentale della propria civiltà.
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