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Il Blog di Marco Ongaro.

Qui si trovano articoli che Marco Ongaro ha scritto per alcune testate giornalistico-culturali e scritti vari

OPERA CONTEMPORANEA, ALLESTIMENTI e TEMI – Se Cavaradossi balla la rumba

OPERA CONTEMPORANEA, ALLESTIMENTI e TEMI

Articolo di Marco Ongaro pubblicato sulla rivista Quaderni N° 2 anno 2021 del Circolo Culturale LA SCALETTA Matera 1959

Se Cavaradossi balla la rumba, se Victor Hugo è meno noto di Riccardo Cocciante, il mondo elitario della musica contemporanea deve uscire dal guscio e confrontarsi con realtà con le quali non ha dimestichezza. 
Se Giovanni Sollima, ispirandosi al rap nel suo inno pacifista trentino o al rock nelle riscritture beatlesiane per violoncello, cerca di ammiccare alla tendenza del gusto giovanile moderno senza alcuna possibilità di interloquire con individui che di Sollima tutto ignorano, significa che la discussione non deve svolgersi sul piano di una tentata omologazione del cosiddetto “moderno”, ma su di una spinta innovativa che prenda spunto dal linguaggio stesso in cui si opera.

Lucie Mouscadet, soprano parigino, mi esprime in perfetto italiano le sue perplessità a proposito dell’opera buffa Il cuoco fellone o Han sette vite i gatti che ha debuttato a Verona nel 2004. «Di cosa parla il tuo libretto?» «Di un ristorante e di un cuoco che cucina gatti al posto dei conigli per cui il proprietario lo paga». È stupita che un’opera lirica oggigiorno tratti cose di oggigiorno. «Il ristorante è una locanda del Settecento?» «No. L’opera è ambientata ai giorni nostri». «Strano», mi dice. 
«Le opere che si scrivono di questi tempi sono tutte riferite a periodi remoti, ispirate a soggetti sacri o testi autorevoli già riconosciuti». 
In pratica, potremmo scrivere un buon libretto rifacendo per l’ennesima volta l’Antigone, ma guai a comporre negli anni Duemila un’opera buffa che usi il linguaggio del melodramma, rime ed elisioni comprese, ambientandolo nell’adesso come chiunque nell’Ottocento avrebbe trovato naturale fare. 
Fanno eccezione Il telefono di Gian Carlo Menotti, che nel 1947 adatta alla modernità dello strumento di comunicazione il linguaggio dell’opera comica, e Nixon in China di John Adams, che nel 1987 rievoca con il melodramma contemporaneo il viaggio del presidente americano Richard Nixon nella Cina di Mao Tse-tung. Rientra invece nella tradizione l’opera di Azio Corghi che, nel musicare Don Giovanni o Il dissoluto assolto del premio Nobel José Saramago, si dedica a una riscrittura del mito già reso immortale da Mozart nel 1787, con tanto di Catalogo espressamente incluso. Una delle numerose variazioni sul tema.

Noire et Blanche, 1926
Photo de Man Ray

Il Cuoco fellone, Kiki de Montparnasse, messa in scena a Parigi nel 2007, e Moro, con debutto a Parigi nel 2011, opere composte da Andrea Mannucci su libretto del sottoscritto, intendono porsi così nel panorama della musica seria attuale quali espressioni della contemporaneità all’interno di un mezzo talmente classico 
da essere relegato alla ripetizione di opere ormai consunte, riallestite di volta in volta con scenografie e visioni iper-moderniste nel tentativo di non farne avvertire l’imbalsamazione museale. Il Maestro Andrea Mannucci in effetti pesca talora nello swing e addirittura nell’avanspettacolo per alcune delle sue arie, giusto per quel piacere di guardar fuori dalla finestra in una giornata assolata, ma è consapevole che la materia su cui lavora è quella stessa sofferenza di note e pause che ha fatto sudare e sognare i più illustri predecessori. Non ammicca al rock & roll, per quanto inserisca una batteria nell’organico, né presta il fianco alla dodecafonia più rude per astrarsi nella torre d’avorio che gli spetterebbe. Semplicemente fa il suo lavoro in quest’epoca specifica. Così come lo faccio io. Forse la scelta del librettista è la sua più audace sfida. Uno scrittore-cantautore è quanto di più vicino e lontano si possa trovare nel campo della lirica contemporanea. Né Mogol né Da Ponte.
In Kiki de Montparnasse, gli Anni Folli della Parigi inizio Novecento – a ben pensarci in mezzo ai quali muore Giacomo Puccini – sono scandagliati con echi di Maurice Ravel e del Gruppo dei Sei. La capitale francese nell’Età d’oro degli artisti è già vintage ma non ancora classica, la rievocazione è comunque oggetto di contemporaneità. Una mistica del passato recente che non è revisione di opere già esistenti riattualizzate. Ma è la tragedia musicale Moro a costituire il crinale tra le due tendenze operistiche, quella di riesumazione di temi antichi e quella di inserimento del quotidiano in un mezzo espressivo demodé. Moro tratta un episodio purtroppo realmente accaduto, affrontato però su un livello diverso da quello della cronaca, del dibattito, dell’arte stessa intesa naturalisticamente, come aveva invece tentato di fare l’opera precedente su Aldo Moro, Non guardate al domani composta da Filippo Del Corno e Angelo Miotto nel 2001.

Nel Moro di Mannucci il Coro conduce in una dimensione poetica a sé stante, alludendo alle lamiere bucate e all’agguato di Via Fani. Si parla di un agguato, ma altri ce ne sono stati prima. Altri uomini emblematici sono stati incarcerati e uccisi prima del tempo in cui i fatti sembrano svolgersi. In un attimo ci si trova sbalzati indietro di secoli e all’agguato si accosta la cicuta ingurgitata da Socrate in esecuzione alla sua condanna.
La tragedia moderna, trattata con strumenti contemporanei, si distilla immediatamente nella dimensione classica, compiendo a ritroso il percorso abitualmente intrapreso da registi e rilettori di opere dei secoli precedenti.


Il Coro, istituto teatrale antico recuperato in una tragedia moderna, svolge la funzione esattamente contraria all’attualizzazione di una storia remota: avverte che ci si trova in una sfera trascendente, dove si esplora qualcosa di più della pur complessa vicenda umana e civile di Aldo Moro. 
Di fronte all’incarcerazione e alla morte di un uomo pubblico, un individuo accomunato ai molti nell’intima speranza di salvezza, la specificità cronacistica si condensa in una umanistica classicità: la “sensibilità unificata” rivendicata da Thomas S. Eliot nel rammentare che il poeta odierno è la confluenza immanente dei suoi precursori e dei suoi successori. 
Laddove per poesia, classicamente parlando, si intende la creazione artistica che include il compositore quanto il pittore, lo scultore quanto il coreografo. Non è indispensabile ridelineare la Norma composta nel 1831 da Vincenzo Bellini usando accessori digitali per “contemporaneizzarne” il discorso, quanto scrivere qualcosa di contemporaneo su temi attuali, con criteri musicali contemporanei, senza scordare l’impianto classico del teatro musicale. Ciò ricordando che la lezione dell’Ecclesiaste “Non c’è niente di nuovo sotto il sole” vale in entrambe le direzioni e che la musica è espressione artistica percepita nel Tempo.

SERGE GAINSBOURG – Il terrore di non essere frainteso

SERGE GAINSBOURG – Il terrore di non essere frainteso

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Nel 2021 scade il trentesimo anniversario della morte di Serge Gainsbourg. Nel 1961, trent’anni prima della sua morte, esce il suo terzo album, L’étonnant Serge Gainsbourg. I numeri contano ma non significano quanto vorrebbero. Il brano che ne viene estratto, La chanson de Prévert, offre all’autore-interprete un successo duraturo dopo la sicura qualità degli album precedenti, Du chant à la une! del 1958 e Serge Gainsbourg N°2 del 1959, apprezzati dalla critica e dal pubblico “rive gauche” ma non ripagati da altrettanta fama. Nel 1960 il singolo L’Eau à la bouche, L’acquolina in bocca, appartenente alla colonna sonora dell’omonimo film di Jacques Doniol-Valcroze ha raggiunto le centomila copie vendute, buon risultato ma cifra non immensa per le vendite dell’epoca.

La Chanson de Prévert è scritta in origine per la cantante Michèle Arnaud che la registra in studio nel novembre del 1960 e la canta in tivù il mese successivo in una trasmissione televisiva di dieci minuti a lei dedicati. Depositato alla società degli autori solo nel gennaio 1961, diventa uno dei successi più celebri cantati poi dal suo autore. Ma di quale canzone parla questa canzone che ne include un’altra nel titolo? Del celebre brano Les Feuilles mortes, Le foglie morte, portato al successo da Yves Montand, scritto e composto da Jacques Prévert e Joseph Kosma per il film Les Portes de la nuit, Mentre Parigi dorme, di Marcel Carné del 1946. Nel film lo stesso Montand, che debutta sul grande schermo nel ruolo di Diego, canticchia il brano che poi raggiungerà notorietà internazionale, ripreso da Juliette Gréco nel 1951, quindi da Édith Piaf, Françoise Hardy, Dalida e, in inglese come Autumn Leaves, da Frank Sinatra e Nat King Cole. Già Le foglie morte nel suo testo parla di una canzone, rendendo l’effetto “all’infinito”, la mise en abyme celebrata da André Gide, un gioco vorticoso di rimandi meta-canori. Basti pensare che la stessa Juliette Gréco canterà in un album nel 2006 La chanson de Prévert, ma non l’aveva già cantata?

Il brano interpretato da Montand si apre con lo stesso verso che Gainsbourg riprenderà nell’incipit del suo: Oh je voudrais tant que tu te souviennes, Oh, vorrei tanto che ti ricordassi, inaugurando dal principio una spirale vertiginosa di reminiscenze a incastro. Cosa dovrebbe ricordare la donna cui si rivolge il protagonista? Le foglie autunnali che si accatastano e vengono spalate via come i ricordi e le tracce degli amori disuniti cancellate sulla spiaggia, l’autunno come stagione che si rispecchia nell’autunno della vita, tempo della perdita e dei rimpianti, delle occasioni passionali sfiorite, dei raggi di sole ormai assorbiti dal grigiore che annuncia la sterilità invernale. E insieme a questa nostalgia di una nostalgia, dovrebbe rammentarsi una canzone che lei cantava.

È una canzone
Che ci somiglia
Tu mi amavi
E io ti amavo

La canzone stessa nel testo di Prévert rinvia a una rassomiglianza, non fosse bastato il gioco di specchi allestito dal poeta, dunque una canzone nella canzone e una canzone che somiglia a chi la cantava e all’amore da lei condiviso con chi gliela vuol fare ricordare. Occasione ghiotta per il magico manipolatore di linguaggio che una mattina di autunno alle 10 si presenta a casa di Jacques Prévert per chiedergli il permesso di citarlo nel titolo e nel testo della propria composizione. Gainsbourg sa da quando ha lasciato la pittura per la musica che la canzone è la forma più popolare di messinscena emotiva, il palcoscenico sentimentale per eccellenza, e con il suo dirompente cinismo anti-kitsch lavora già da tempo al sabotaggio del mezzo con l’arguzia di un Odisseo che concepisce il Cavallo di Troia. Prévert lo accoglie con champagne mattutino, accompagnando con sigari aromatici le proverbiali Gitanes del giovanotto. Gainsbourg se ne esce con la liberatoria e la libertà di creare un cioccolatino avvelenato che la gente adorerà, come sarà tradizione nella sua opera e come già lo fu in quella del suo amato Oscar Wilde, senza veramente comprendere tutto ciò che vi è celato. “Vivo nel terrore di non essere frainteso”, aveva scritto l’autore irlandese, e se Serge Gainsbourg non prova terrore, certo nutre la speranza che non tutto ciò che compie, o perpetra, venga colto subito fino in fondo.

Serge Gainsbourg-L'étonnant

La canzone arrangiata da Alain Goraguer s’intrufola nel testo di Prévert apparentemente omaggiandolo, per poi smontarlo attraverso la propria sensibilità corrosiva.

Oh, vorrei tanto che ti ricordassi
Questa canzone era la tua
Era la tua preferita, credo
Sia di Prévert e Kosma
 
E ogni volta le foglie morte
Ti riportano al mio ricordo
Giorno dopo giorno gli amori morti
Non la finiscono di morire
 
Con altre è ovvio mi abbandono
Ma la loro canzone è monotona
E poco a poco mi viene l’indifferenza
A questo non ci si può fare niente
 
Perché ogni volta, le foglie morte
Ti richiamano al mio ricordo
Giorno dopo giorno gli amori morti
Non la finiscono di morire
 
Si può mai sapere dove comincia
E quando finisce l’indifferenza?
Passi l’autunno e venga l’inverno
E che la canzone di Prévert
 
Questa canzone, Le foglie morte
Si cancelli dalla mia memoria
E quel giorno i miei amori morti
Avranno finito di morire

Dopo la citazione iniziale con cui prende il testimone dal poeta Prévert, il poeta Gainsbourg gli si sovrappone oscurandone i lati più patetici con un’ironia spietata. Quando dichiara perplesso il nome degli autori, “credo sia di…”, affetta l’indifferenza che si annuncia come vero tema del suo brano. La donna cui si rivolge potrebbe essere la stessa cui parla il primo poeta o riflettere una nostalgia personale – un poeta può nasconderne un altro e una donna può nasconderne un’altra – se non fosse che a causa di questa donna, di questa ex che gli riporta alla mente la fine di un amore, Le foglie morte è una canzone tossica, un brano che con la sua lamentevole malinconia aggravata dalla bellezza melodica insiste a rigenerare in lui la morte degli amori senza permettere loro di essere sepolti. In questo testo risuonano con dandistica nonchalance i versi potenti di Giuseppe Ungaretti che in Non gridate più del 1947 chiede, ordina, forse supplica:

Cessate d’uccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
 
Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo.

L’adynaton del primo verso, figura retorica che esprime un’impossibilità, torna nei ritornelli di Gainsbourg che trasformano il sentimentalismo nostalgico prevertiano in una sorta di creazione di zombie emozionali ogni volta rimessi in circolazione dalla canzone che evoca una canzone che evoca una canzone su un rimpianto che evoca un rimpianto che evoca un rimpianto. Sembra che l’autore sbotti: “Finitela con queste foglie morte, o moriremo tutti di nostalgia”. Nessuno potrà più amare perché ogni altro amore è sotto l’influsso di questo patetismo che istiga per reazione all’indifferenza.

Si può mai sapere dove comincia e quando finisce l’indifferenza?/Passi l’autunno e venga l’inverno… sembra quasi il lamento di Thomas S. Eliot ne La terra desolata: Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo /Con un po’ di pazienza. Ci deve essere la morte prima della rinascita, se si continua a rammaricarsi per la morte di qualcosa, quella cosa continuerà a morire. Come Gainsbourg sperava, anche grazie alla felice orchestrazione che nei ricami di chitarra ispira l’orecchiabilità avvolgente del sirtaki, quasi nessuno ha pensato a quanto in verità stesse smontando il successo universale de Le foglie morte augurandosi che finissero le mille riprese dei mille interpreti, così da concedergli di innamorarsi ancora, di cantare vivaddio una nuova canzone. Ancora mise en abyme: la nuova canzone è giusto La chanson de Prévert che stiamo ascoltando.

Gainsbourg dev’essersi leccato i baffi per il perfetto fraintendimento ottenuto, un’intima presa in giro di un’arte minore attraverso un suo esemplare ben riuscito. Se a questo si aggiunge il senso supremo celato in tutta l’operazione, quello squisitamente linguistico che al creatore di calembour non può certo essere sfuggito, il capolavoro si manifesta in tutto il suo splendore: Prévert in francese significa “prato verde”. Con questa grandiosa truffa di successo, Gainsbourg si prende il lusso di fare giustizia di un cognome rispetto alla sua propensione lirica, togliendo il “prato verde” dalla stagione autunnale e cancellandone la visione da una memoria sintonizzata su una stantia immagine nostalgica. Quando La canzone del prato verde si sarà cancellata dai suoi ricordi, finalmente gli amori morti di Gainsbourg la finiranno di morire e, come diceva più o meno Ungaretti, l’erba potrà tornare lieta dove non passa quel frignone di un uomo.

La Chanson de Prévert non è semplicemente la Canzone di Prévert, ma è la critica ai sentimenti autunnali in essa riposti, un passo verso la liberazione di tutti gli amori morti ramazzati con la pala dai parchi e tracciati nei passi degli amori disuniti sulla spiaggia, la rivendicazione di una primavera d’amore che preluda a un’estate erotica senza precedenti, che sappiamo Gainsbourg inaugurerà nel ’69 con Je t’aime… moi non plus.

LA TERRA CHE CADDE SULL’UOMO – Cronache di catastrofi annunciate

LA TERRA CHE CADDE SULL’UOMO – Cronache di catastrofi annunciate

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, del 1972, noto anche come Ziggy Stardust, è il quinto album in studio di David Bowie. Qualche tempo prima di pubblicarlo, l’artista inglese dichiarò: «Ciò che troverete sull’album, quando finalmente uscirà, è una storia che non si svolge realmente. Sono solo alcune piccole scene tratte dalla vita di una band chiamata Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, che potrebbe essere l’ultimo gruppo sulla Terra perché stiamo vivendo gli ultimi cinque anni del pianeta». La raccolta narra infatti di un mondo sull’orlo dell’apocalisse in cui l’ultimo eroe è un ragazzo divenuto rockstar grazie all’aiuto alieno. Starman è la canzone più famosa della riuscitissima silloge, ma degno di particolare interesse è il brano di apertura che, con la batteria a tenere il ritmo cardiaco, introduce dal titolo la profezia dei cinque anni citati nell’intervista.

CINQUE ANNI

Così tante madri sospiravano
Facendosi largo nella piazza del mercato
Era appena arrivata la notizia
Ci rimanevano solo cinque anni per piangere

Il tizio al telegiornale gemeva dicendo
Che la Terra stava davvero morendo
Piangeva tanto che la sua faccia era bagnata
Così capii che non stava mentendo

Sentii telefoni, opere, le mie melodie preferite
Vidi ragazzi, giocattoli, ferri da stiro e TV
Il mio cervello doleva come un magazzino
Non aveva abbastanza spazio
Dovevo stipare tutto quanto
Farcelo stare lì dentro
E tutta la gente magra e grassa
E tutta la gente alta e bassa
Tutti i nessuno
Tutti i qualcuno
Non avrei mai pensato di aver bisogno di così tanta gente

Una ragazza della mia età fuori di testa
Picchiava dei bambini
Se il nero non l’avesse allontanata
Penso che li avrebbe ammazzati
Un soldato con un braccio rotto
Fissava lo sguardo sulle ruote di una Cadillac
Uno sbirro s’inginocchiò e baciò i piedi di un prete
E una checca vomitò nel vederlo
Io penso di averti visto in una gelateria
Bevevi frullati freddi e lunghi
Sorridevi e salutavi e sembravi così bello
Non penso sapessi che saresti finito in questa canzone

Ed era freddo e pioveva e mi sentii come un attore
E ripensai alla mamma, lì avrei voluto tornare
Il tuo volto, la tua razza, il tuo modo di parlare
Ti bacio, sei bello, voglio che cammini

Abbiamo cinque anni, impressi nei miei occhi
Ci rimangono cinque anni, ma che sorpresa
Abbiamo cinque anni, il cervello mi fa male
Abbiamo cinque anni, è tutto ciò che ci rimane

Cinque anni cinque anni cinque anni

In un’intervista molto posteriore Bowie allude al fratellastro maggiore Terry Burns quale fonte di ispirazione per Five years. Diagnosticato schizofrenico paranoide, il fratello fu confinato nel reparto psichiatrico del Cane Hill Hospital di Londra dagli anni Settanta al 1985, quando si tolse la vita gettandosi sotto un treno. Ma prima di ciò influì con le sue stravaganze sulla formazione di David Bowie tanto da costituire un riferimento per numerose altre canzoni e album. Che David abbia pensato a Terry per questa canzone fa riflettere sul quadro clinico che poi lo ha segnato. Il folle sacro,  l’illuminato santone delle tribù primitive, il drogato che apre le porte della percezione, l’Unto del Signore, il Cristo “bruciato dall’antico contatto celeste” dell’Urlo di Allen Ginsberg, il pazzo in comunicazione con gli alieni, il Billy Pilgrim di Mattatoio n. 5 pubblicato da Kurt Vonnegut solo tre anni prima, tutto risuona tra lo spirito alienato del fratello e la tematica extraterrestre che attraversa la produzione di Bowie, la visionarietà distopica da presunto disturbo mentale che lo avvicina alla poetica di Roger Waters e Syd Barret dei Pink Floyd come alle illuminazioni pre-afasiche dell’ultimo Nietzsche.

Ziggy è Bowie ma Bowie è anche il narratore della sua “ascesa e caduta”, ed è lui a incontrare nella gelateria la persona che non sapeva che sarebbe finita in quella canzone poco dopo aver avuto la notizia della neanche troppo imminente catastrofe. Al contempo è di nuovo Ziggy, il rocker, che incontra il fratello appartenente a una specie aliena e si rende conto di amarne la faccia, la razza, il modo di parlare. Lo trova bellissimo e vorrebbe che continuasse a camminare, lui come la razza umana che profeticamente rappresenta. Dalla follia alla salvezza il passo è breve, ed è sempre un’andata e ritorno. L’uomo delle stelle dice all’eletto cosa dire agli uomini e ne causa la rovina. Il messaggio è la fine del mondo, con una dilazione sufficiente a impazzire o rinsavire tutti. La distopia è annunciata, anticipata, chissà se davvero avrà luogo. Tra cinque anni, una scansione temporale da piano quinquennale sovietico, lo si scoprirà.

Più del disastro poté la paura. Le distopie, le apocalissi consumate con residui di umanità abbandonati su spiagge di pianeti senza memoria, le scimmie al potere (ben più di dodici), le macchine che si nutrono di energia cerebrale sognante succhiata a ignari sopravvissuti in bozzoli, le mega-esplosioni di cui rimangono ricordi frammentati tra le pieghe di un incubo: tutto questo “già accaduto” è potente monito e fantasia di un oblio dai contorni irrecuperabili. Ma quanto più spaventevole e malinconica sa essere l’attesa della calamità rispetto al suo risultato ormai consumato. Insegnano poco i detriti, le rovine sono materia da museo. Mad Max gareggia su auto ricombinate da sfasciacarrozze degni di Frankenstein, alimentate a miasmi di sterco di maiale nella medievale ripresa di uno steampunk troppo lontano dai vicoli londinesi. Il viaggio nel tempo cerca di riparare all’irreparabile individuando il punto esatto in cui sarebbe iniziato il cataclisma, per poi rendersi conto che il paradosso spaziotemporale vanifica ogni speranza.

Piccoli prescelti crescono per riportare il mondo a ciò che era, ebbene? Niente di veramente formidabile. Il vaticinio del disastro e la paura, quelli sì sono materiale di prim’ordine. La suspense di un universo che tenta di evitare la sua distruzione è emotivamente di gran lunga più interessante della sua avvenuta, anche se imperfetta, estinzione. Il “baco del Millennio” è ormai dimenticato, ma nel 1999 il brivido millenarista aveva agitato web e TV per poi rispalmarsi su tutto il 2000 in attesa di un primo gennaio 2001 nella cui portata devastante nessuno credeva già più. Tutto è stato surclassato pochi mesi dopo dall’amplificazione epocale di Ground Zero, nel panico e nelle chiacchiere a non finire spente nella certezza che il mondo conosciuto non sarebbe scomparso per un vago disallineamento informatico, ma avrebbe continuato a mietere vittime in virtù della sua stupidità. Lo stesso nel 2012 con la Profezia dei Maya.

Il fascino della distruzione prossima è più poetico della distruzione ormai esaurita e scordata. Ogni cosa è concessa prima della fine preconizzata. Al condannato a morte viene permesso un buon pasto e se non accade si è infranta una regola morale, come canta Enzo Iannacci in Sei minuti all’alba all’ufficiale che gli offre la sigaretta prima della fucilazione: “grazie ma non fumo, prima di mangiar”. L’immaginario dell’attesa della fine, della sua assurda predizione con il tempo frapposto e il predisporsi ciascuno a modo proprio all’evento, apre innumerevoli possibilità. È una specie di gioco di società in cui ci si sente più liberi: chi cede all’impulso di maltrattare bambini, chi guarda una Cadillac che non ha mai avuto e che forse ruberà, chi si prostra dinanzi a un ministro di Dio, chi, come nell’Aereo più pazzo del mondo, chiede compulsivamente al vicino di posto di fare l’amore, chi, come in Dio esiste e vive a Bruxelles, gioca a suicidarsi per concludere la faccenda prima del tempo assegnatogli dalla Causa segreta, chi sta chiuso in casa per paura degli agenti esterni, di un anticipo sul destino che gli spetta, e cucina pizze con il lievito madre, riscopre la natura nei gerani sul poggiolo, segue tutorial di danza aerobica, scrive e spedisce poesie ai compagni di catastrofe incipiente.

Lo sentiva Bowie, ben prima di interpretare L’uomo che cadde sulla Terra per Nicolas Roeg, lo sentiva come il Lars von Trier di Melancholia, che l’instabilità mentale è data dall’eccessiva sensibilità nei confronti della tragedia umana, sempre imminente e sempre collettiva. Sapeva che vale la pena cantare e includere nel magazzino della canzone più gente possibile, perché presto o tardi sarà la Terra a cadere sull’uomo.