Quando la vita seguiva il rock ‘n’ roll – La soddisfazione dei Rolling Stones

Quando la vita seguiva il rock ‘n’ roll – La soddisafazione dei Rolling Stones

Articolo scritto da Marco Ongaro per la rivista Inchiostro

(I Can’t Get No) Satisfaction è una canzone dei Rolling Stones pubblicata nel giugno del 1965, anno della morte di Winston Churchill e dell’inizio della guerra americana in Vietnam. John Fitzgerald Kennedy è già sepolto da due anni e Bob Dylan, sempre in giugno, pubblica Like a rolling stone, avvenimenti apparentemente di portata impari. Ma chi può dirlo? Mentre l’ex folksinger scandalizza definitivamente l’ambito di provenienza musicale concretizzando la sua era elettrica dal vivo, Jagger, Richards & Co. sbattono in faccia al mondo il loro mix di frustrazione giovanile legato al due di picche della solita ragazza ma soprattutto alle manchevoli promesse della pubblicità radiotelevisiva. Dylan delinea lo scenario di un capovolgimento sociale che mette fuori gioco la bella bianca di buona famiglia destinata a diventare clochard mentre i Rolling Stones, che della sua canzone detengono parte del titolo nell’intestazione aziendale, affermano che i messaggi dei media sono fonte di disagio e alienazione su larga scala.

Mancano tre anni al fatidico 1968 delle proteste operaie e manifestazioni universitarie, un solo anno all’impegno una tantum di Gianni Morandi che nel 1966 avrebbe sospeso la sua sequenza di canzoni a tema amoroso per incidere C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones di Migliacci e Lusini, in seguito entrata nel repertorio di Joan Baez. La cultura popolare delle canzonette è in anticipo sui tempi della cronaca destinata a diventare Storia, o almeno lo era. Non seguiva: precorreva. Il pubblico veniva formato dalle canzoni o semplicemente gli artisti erano più connessi e ne percepivano gli umori in tempo reale, mentre il mondo ufficiale continuava a cullarsi in qualche “Come eravamo” difficile da uccidere senza dolore? Comunque sia, il discorso messo in campo dagli Stones con il loro brano è più efficace di un trattato di sociologia nel descrivere il senso di vuoto e il vuoto di senso all’apogeo della società dei consumi.

È vero, la pop art di Andy Warhol serigrafava bottigliette di Coca-cola dal 1962, e nel 1964 si era spinta a realizzare una serie di sculture in cui riproduceva fedelmente delle scatole di pagliette saponate per pulire le stoviglie, marca Brillo, in vendita nei supermercati per pochi centesimi: le cosiddette Brillo Box, divenute subito famosissime almeno quanto le sue serigrafie con le lattine di zuppa Campbell. Ma niente come la musica, pop appunto, era destinata a frantumare lo specchio della società mescolando la rappresentazione con la realtà rappresentata.

Il linguaggio usato da Jagger/Richards, su uno dei riff di chitarra elettrica riconosciuto tra i più potenti di tutti i tempi, è immediato, dialogico, una sorta di confidenza fatta tra amici fuori dal pub. 

Quando sto guidando la mia macchina
E l’uomo arriva nella radio
E mi dice un sacco di cose
Circa qualche inutile informazione
Che dovrebbe guidare la mia immaginazione
Non posso avere soddisfazione
Perché ho provato e provato
E provato e provato
Ma non posso avere soddisfazione

… Quando sto guardando la TV
E un uomo arriva e mi dice
Quanto bianche possono essere le mie camicie
Ma lui non può essere un uomo perché
Non fuma le stesse sigarette che fumo io
Non posso avere soddisfazione

Il discorso è chiaro, allude alla pubblicità, l’“anima del commercio” che un grande pubblicitario come Marcello Marchesi ribalterà nel “commercio dell’anima”, un sistema di informazioni che non solo non riesce a guidare l’immaginazione del protagonista, ma neanche a qualificare come reale l’estensore degli annunci, in quanto non fumatore delle stesse sigarette di chi sta cantando. Qui si apre una distinzione foriera di nuovi sviluppi: quali sarebbero le sigarette che Mick Jagger fumava all’epoca? Forse non le Winston da macho promosse in TV ma qualcosa di meno legale e meno allineato al sistema autorizzato. Qualcosa di pertinente a un sistema diverso, non per forza meno deleterio ma lastricato di buone intenzioni e soprattutto opposto a quello preponderante dei genitori. La generazione delle droghe si sta presentando come quella che “spalancando le porte della percezione” può denunciare l’insensatezza del mondo consolidato tra guerre e consumismo. Il semplice denunciare l’insoddisfazione data da ciò che soddisfazione dovrebbe invece offrire, nell’ottica di un benessere economico mai sperimentato prima, esalta il passaggio da lotta di classe a lotta generazionale. La terza strofa della canzone, che inserisce il protagonista in quel mondo degli affari che poi neanche nella soddisfazione sessuale risulta efficace, dà la mazzata finale anche alle canzoni d’amore destinate alle teenager urlanti al seguito delle band per le vie di Londra.

Quando me ne vado in giro per il mondo
E faccio questo e firmo quello
E cerco di farmi qualche ragazza
Che mi dice è meglio che ripassi, forse la settimana prossima
Perché vedi, sono su una serie di sconfitte
Non posso avere soddisfazione

Non sembra neanche più un rocker quello che canta quest’ultima strofa, ma l’uomo d’affari prospettato dai media che, di fronte alle delusioni della realtà rispetto alle promesse pubblicitarie, si dichiara sconfitto.

E non è un caso che dal riff di questa canzone ne nasca un altro, altrettanto potente ma forse troppo riecheggiante il primo. Il riff di un brano che tre anni più tardi sancisce l’avvenuta decadenza e mutazione del ribellismo giovanile proprio nel momento in cui il mondo si prepara a consacrarlo.

Ascoltando Jumpin’ Jack Flash, pubblicata dai Rolling Stones nel maggio del 1968, salta subito all’orecchio la somiglianza tra il riff di chitarra di Satisfaction e quello che lo segue ora. La continuità tra i due brani è ben simboleggiata da questa frase musicale perlopiù intensificata nella frequenza della sua scala ascendente. Laddove musica e testo si trovano ad aderire, il miracolo creativo si compie, in questo caso per la seconda volta. La soddisfazione mancante del primo brano riverbera nell’ironica eccitazione del secondo, agitando la frase muasicale quasi a sottolinearne più o meno consapevolmente l’ereditarietà.

Le esegesi del testo puntano quasi tutte a decifrarne il titolo. Cos’è il Lampo del Jack Saltellante? Soprattutto cos’è un Jack quando non è un nome proprio, versione informale del nostro Giovanni, ma anche talora Giacomo? È il fante nelle carte, il marinaio sulle navi, il maschio zoologico e il maschio nei cavi elettrici. È Il tizio molto simile a un matto, un fool, un joker a molla che salta fuori dalla scatola a sorpresa detta Jack in the box, per cui si resta folgorati da uno spavento subitaneo che si rigira presto in scherzo. È il titolo della vecchia canzone popolare inglese Jumping Jack spesso utilizzata nei metodi per chitarra negli anni ’50 e ’60 ed è pure il nome di una creatura che molestava le donne nella Londra dei primi dell’800, che aveva occhi di fuoco, fiato di ghiaccio, saltava da un tetto all’altro e non fu mai catturato. I jumping jack cracker erano invece dei petardi, detti anche jack flash per l’intensità della luce al momento dello scoppio. Dato che in Inghilterra ci sono parecchi pub chiamati Jumping Jack, si suppone che con questo nome si indichi qualsiasi cosa strana, deviante dalla norma e che incuta paura. Il flash, oltre a significare “lampo”, nel gergo dei drogati rappresenta l’arrivo al cervello dell’eroina o qualunque cosa ci si sia iniettata, il suo esplodere improvviso e fulgido, quello che si potrebbe definire come il primo manifestarsi dello sballo, l’apparizione della droga in tutta la sua qualità. Droga tagliata, flash fiacco, droga pura, flash grandioso. Il fool che salta fuori dalla scatola all’improvviso rende bene l’idea.

Jagger dal canto suo ha tagliato corto dicendo che il pezzo è stato ispirato da uno dei giardinieri della casa di campagna di Keith Richards dove il brano fu concepito, un certo Jack Dyer, un tipo che aveva avuto una vita dura ma che poi ne era uscito bene. La versione del front man degli Stones è fasulla quanto riduttiva, com’è nella tradizione degli autori che non vogliono sbottonarsi e lasciano legittimamente aperte le loro creazioni a tutte le interpretazioni. Vero è che il primo verso della canzone, I was born in a cross fire hurricane (Sono nato nel fuoco incrociato di un uragano), è riferito su espressa indicazione di Keith Richards al bombardamento sopra Dartford, Inghilterra, avvenuto nel 1943 nella notte in cui il musicista veniva alla luce. Ma vediamo il testo nel suo insieme, unificando le strofe per lasciare solo alla fine il ritornello in cui campeggia il titolo.

Sono nato nel fuoco incrociato di un uragano
E ho urlato a mia mamma nella pioggia battente
Mi ha cresciuto una strega barbuta e sdentata
Sono andato a scuola a cinghiate sopra la schiena
Sono affogato, tirato a riva e dato per morto
Sono crollato sui miei piedi e li ho visti sanguinare
Ho supplicato per le briciole di una crosta di pane
Sono stato incoronato con una spina nella mia testa

Ma va tutto bene
adesso infatti è uno sballo
Ma va tutto bene, sono il Lampo del Jack saltellante
È uno sballo sballo sballo

Se si fosse trattato davvero solo di Jack Dyer il giardiniere, le vicissitudini sarebbero un po’ troppe per dire che “aveva avuto una vita dura dalla quale poi era uscito bene”. Soprattutto l’ultimo verso, riecheggiante la corona di spine del Cristo, sembra unificare le simbologie verso una descrizione di disgrazie generazionali vissute nei ceti bassi, tra incomprensioni, sfortuna e mancanza di opportunità emancipanti, più che tracciare il percorso esistenziale di un singolo. L’individuo scolarizzato a cinghiate lungo la schiena è fratello dell’alunno di cui i Pink Floyd vent’anni più tardi avrebbero preso le difese nel brano The Wall. Il bombardamento alla nascita del chitarrista degli Stones lo accomuna alla sorte di molti suoi coetanei e, pur non allevati da streghe barbute, tanto John Lennon che Eric Clapton avrebbero potuto sottoscrivere l’esperienza di un’infanzia insensatamente priva di madre. La fame forse non li aveva toccati al punto di supplicare briciole di pane ma certo questo era accaduto ad altri della loro generazione, come a generazioni precedenti, vedi quella di Charlie Chaplin. Insomma il nodo da districare non sta nelle strofe della canzone ma nel messaggio del ritornello, che con ironia selvaggia ribalta la situazione senza farlo davvero, come a dire: “Qualunque disgrazia abbiamo avuto, fratello, senti che razza di flash stiamo provando, la vita è stata dura, ma adesso è uno sballo uno sballo uno sballo”. Una magra consolazione che non promette esattamente bene. Il frustrato dalla società dei consumi ha trovato ora una soluzione che purtroppo “le menti migliori” della sua generazione faranno propria sempre più, trasformando la lotta per il cambiamento in una fuga solitaria nei meandri degli stupefacenti, nella dissoluzione rifluente degli ideali. Quel “va tutto bene” suona doppiamente ironico, non va bene niente se adesso siamo ridotti a pazzi saltellanti sui tetti con occhi fiammeggianti, gente che fa paura, Joker strappati direttamente a un fumetto di Batman. Il fallimento è conclamato, una disfatta piena di energia e allegria sintetica, un disastro benaccetto, l’abbandono di ogni aspirazione al miglioramento in cambio di un passaggio per il paradiso artificiale.

La canzone non indica la via ma ritrae la realtà con puntualità maniacale. Se ancora non sembrava tutto fosse avvenuto, se pareva mancasse ancora qualche anno, è solo perché la cronaca ci mette di più a rendersene conto. L’anno successivo, in un concerto gratuito in Hyde Park, gli Stones dedicheranno al loro cofondatore Brian Jones, consumato dalle droghe e da poco annegato in piscina, il suggello ideale al trapasso della lotta generazionale, You can’t always get what you want: Non puoi sempre avere ciò che vuoi.