ENNIO FLAIANO – Cinismo civico

Cinismo civico – ENNIO FLAIANO

Articolo scritto da Marco Ongaro per la rivista IDEM

Che ne è dell’Italia degli anni Cinquanta, quella che leccandosi le ferite della Seconda guerra mondiale chiedeva ai lati opposti della Resistenza di costituirsi in Stato e al regime sopravvissuto alla disfatta di farsi il maquillage per aiutare una difficile ricostruzione che conglobasse pure le istanze dell’Uomo Qualunque? L’idea che le potenzialità morali e ideologiche dell’epoca fossero più ricche di quanto ci si ritrovi ora ad osservare turba il sonno allo studioso e inacidisce l’intellettuale.

Pensando a quel periodo storico in relazione a oggi, non sono i più citati aforismi “politici” di Flaiano a venire in mente – come quello sulla situazione in Italia che “è grave ma non seria” o quello sugli italiani che “sono irrimediabilmente fatti per la dittatura” – quanto invece certe squisitezze apparentemente frivole tratte dal Diario Notturno (Bompiani 1956), e una su tutte: “Si levò dal letto: era bruttissima. Passò un’ora davanti allo specchio a farsi brutta”. Guardando un filmato sulla Costituente e sui padri della Repubblica, l’impressione che si ha è davvero quella che l’Italia abbia passato sessant’anni davanti allo specchio per riuscire a essere almeno brutta, col risultato forse di annullare ogni speranza di bellezza che allora riluceva. E un intellettuale come Ennio Flaiano, che è sempre sfuggito alla destra e alla sinistra così com’è sfuggito alla catalogazione letteraria pur avendo vinto il primo Premio Strega nel 1947 col primo e unico romanzo della sua vita, Tempo di uccidere (Longanesi), è forse il solo autore capace di riunire in una sola Italia queste due signore che cercano di farsi il trucco per sembrare meno brutte che possono.
Genio dall’intuito corrosivo e dalla penna affilata, lo scrittore pescarese nato nel 1910 e spentosi d’infarto nel 1972 non ha mai esitato a immergersi nel cinismo per rilevare difetti e smascherare tabù, denunciare tic e vizi di una nazione amatissima e dunque sferzata con puntuale lucidità. L’ha fatto con amore e con la responsabilità del giornalista, dell’uomo di cultura conscio di non dover sottrarre il proprio contributo al miglioramento del Paese a dispetto del pessimismo suggerito dall’intelligenza. Per questo nel suo caso si può parlare di cinismo civico. Mai gli apoftegmi coniati dall’Oscar Wilde italiano hanno mostrato il semplice gusto del motto di spirito o della facile battuta. Si può dire che nessuno dei suoi aforismi sia stato concepito senza una doppia lama, senza un risvolto che aiuti il pensiero a progredire. Nessuna sua massima è stata concepita invano. Ogni suo epigramma rivela uno spirito fondamentalmente costruttivo.
In tutto questo, a colpire è soprattutto l’attualità, la contemporaneità, meglio sarebbe dire la durevolezza dei pensieri elaborati in forma di aforisma. Frasi scritte nel 1945 risultano perfettamente valide oggi senza ricorrere a nessuno sforzo di adattamento: “Nella capitale, e più ancora nelle città del Sud, i miracoli sono le uniche manifestazioni regolari”. Altre, grazie alla preveggenza dei poeti, sono talmente calzanti per la nostra epoca da lasciare di stucco. “Le avanguardie si trovano spesso ad essere superate dal grosso dell’esercito” è una massima pubblicata ne Il gioco e il massacro (Rizzoli) del 1970. “Aspettando tempi migliori, che non vengono mai” è del 1956. “L’Italia è un Paese dove sono accampati gli italiani” non ha tempo. Fa ridere e commuove per la precisione con cui fotografa una nazione scalcinata e adorata. Due anni prima scrive: “Questo Paese non riesce a perdonarsi di averci dato i natali”. È nel 1965 che ribalta la nota formula evangelica rinnovandone il senso in: “Chi mi ama mi preceda”. Nel 1960 annota: “L’arte è un investimento di capitali, la cultura un alibi”. Togliere capitali all’arte nasconde forse l’intenzione di smantellare l’alibi culturale? Dà da pensare in tempi di tagli, così come stimola l’autocritica l’aforisma tratto dallo stesso taccuino: “Il mio gatto fa quello che io vorrei fare, ma con meno letteratura”.
Il “taccuino” è quello del Marziano, uscito da una farsa teatrale del 1960 e prima ancora da un racconto del 1954. Ma nella medesima raccolta, che figura sempre sotto il titolo di Diario Notturno, mille sono le scintille che illuminano l’intelletto del lettore di allora e di adesso. “Quel giorno che ci sentiamo a sinistra basta la lettura dei giornali di sinistra a salvarci. Se pendiamo a destra, ecco in nostro soccorso i giornali di destra ” è intuizione eterna, stimolo allo scardinamento della fissità ideologica, nonché gloriosa autocritica del professionista di settore. Convincere chi è già convinto impedisce di convincere chi davvero ne avrebbe bisogno.
Uno scrittore che vince un premio letterario destinato a grande fortuna come lo Strega e che per tutta risposta, di lì in poi, non scrive più un romanzo che sia uno sembra voler significare qualcosa senza bisogno di dirlo. Il romanzo l’ha scritto in tre mesi solo perché gliel’ha chiesto Leo Longanesi. Flaiano è un giornalista. La sua passione è il cinema da quando, sotto il regime fascista, esercitava il mestiere di elzivirista cercando di non scrivere sciocchezze o sciatterie volute dall’alto. La recensione cinematografica è per lui fuga dalla tirannia ideologica come l’analisi strutturalista lo è nel mondo sovietico per Tzvetan Todorov. Se la vocazione è scrivere, usare l’intelligenza e occuparsi di cultura, la mente trova i suoi escamotage per non compiacere il totalitarismo, senza per questo rinunciare alla vocazione. Jorge Luis Borges scrive che “la dittatura è la madre della metafora”. Trovata la scappatoia, all’intellettuale abruzzese la critica cinematografica si rivela mezzo espressivo ma anche educazione a un’arte che, come in seguito accadrà a François Truffaut, lo chiama a sé chiedendogli di lasciare la schiera dei recensori e unirsi a quella dei creatori. Nasce così uno dei massimi sceneggiatori cinematografici mondiali.
L’eclettismo, scrive il critico Luigi Baldacci, è l’unica alternativa valida al totalitarismo e Flaiano ne incarna splendidamente il concetto, facendosi a seconda delle occasioni romanziere, elzevirista, sceneggiatore, drammaturgo, regista e, principalmente, aforista. Sono molti i pensatori che hanno offerto aforismi al mondo, ma il mondo ne ha trattenuti assai pochi nella memoria, lasciando allegramente naufragare i più nel meritato oblio. A rendere Ennio Flaiano riconosciuto specialista del settore, a cent’anni dalla nascita e quasi quaranta dalla morte, è la perfetta conoscenza dello strumento e l’innata attitudine all’annotazione, al commento diaristico, alla frammentaria ma sapida registrazione di pensieri colti con la costanza consapevole di una funzione civilizzatrice postuma.