KURT VONNEGUT – La normalità del peggio

Tra una facoltà e l’altra, senza laurearsi nell’una o nell’altra, ha misurato il tono migliore per svolgere il mestiere che ha scelto. Dopo aver rischiato di naufragare insieme ai continenti sconvolti dalla stessa lunga guerra, scrive con calma irriducibile. E quando viene consacrato scrittore a livello mondiale, il nuovo rettore della vecchia università scopre che un libro pubblicato anni prima calza a meraviglia come tesi e gli spedisce per posta la meritatissima laurea in antropologia. Ha quasi cinquant’anni. Il libro in Italia è intitolato Ghiaccio-nove, un romanzo che combina abilmente elementi di chimica ed elementi della scienza in cui finalmente Vonnegut si è laureato. Tra realtà e finzione, il sistema periodico dell’agire umano è esaurientemente svelato.
La follia che colpisce indistintamente gli esseri umani nella loro intima costituzione, per le cattive sostanze chimiche prodotte nei corpi e per il loro malfunzionamento meccanico, non ha risparmiato Edith Lieber Vonnegut. Il figlio ne reca il marchio sottoforma di dedica alla memoria, imponendo il nome di Edith alla sua primogenita, ma anche come preoccupazione sommersa, ansia erosiva di sospetta ereditarietà che traspare in molti suoi libri, e in particolare ne La colazione dei campioni, in cui lo scrittore ammette chiaramente di temere per sé il medesimo destino.
Nel 1984, Kurt Jr ci proverà, ingollando pastiglie come la mamma, forse per dar ragione a se stesso o alla genetica. Probabilmente per togliersi il pensiero per sempre. Se la paura è di fare la stessa cosa, una volta fatta, che ci si riesca o che la si scampi, la paura passa. Gli attribuiranno una depressione come l’avevano attribuita alla madre. I meccanismi psicosociali umani sono su per giù gli stessi: se uno tenta il suicidio e ci riesce, era depresso. Se uno lo tenta e non ci riesce, è depresso. Il figlio Mark, nella prefazione a Ricordando l’apocalisse, racconta che il padre giocava a ping pong nella clinica, dopo averla scampata, e che non sembrava affatto giù. Aveva fatto quello che doveva, probabilmente aveva misurato se stesso sullo spettro ereditario spostandosi finalmente oltre la predestinazione delle statistiche. Gli uomini sono strani, anche Kurt lo è, e lo sa.
Ha molto amato tutti gli esseri inclusi nella sua esistenza, perfino l’umanità descritta in modo così poco edificante. È in questo amore che va cercata la ragione del suo punto di vista critico, non certo nel disprezzo. Non cerca di non immedesimarsi nei suoi personaggi, affonda anzi nella loro melma fino al naso. Di tanto in tanto, appena riesce a emergere con un colpo di reni, trova la forza per avvertire il mondo di quanto il mondo sia folle. Quando si decide a narrare Mattatoio N. 5, scrive una lunga introduzione in cui informa che, per prendere le dovute distanze dalla dolente narrazione dei fatti, tutti veri come i personaggi cui sono stati cambiati i nomi per convenienza editoriale, userà un protagonista fittizio. Insomma avverte il lettore che il protagonista Billy Pilgrim è una soluzione letteraria creata per narrare una storia troppo dolorosamente vera. È immerso nel fango e ricorre alla terza persona giusto per poterne parlare, non certo per tirarsene fuori. In verità, metterà pure se stesso a fare capolino ogni tanto qua e là nella vicenda, dicendo testualmente: “E quello ero io”.
Il suo capolavoro riluce di tutta la saggezza acquisita nell’osservazione del peggio, insieme alla tenerezza infinita per i propri simili che al peggio non sanno sottrarsi. L’esperienza di Vonnegut insegna che dall’altra parte della paura, così come dall’altra parte del desiderio, c’è l’impegno.
Il produttore cinematografico Harrison Starr gli ha detto un giorno che scrivere libri contro la guerra è come scrivere libri contro i ghiacciai. Mica si fermano con le parole. Nemmeno scrivere articoli sul fallimento delle nazioni ferma i tracolli a catena, ma sarebbe diserzione non farlo. Se si teme la psicosi e l’emulazione dei suicidi, basti a vincerne la paura il pensiero che Kurt Vonnegut Junior non si è tolto la vita (e non ha avuto un cancro pur essendo uno strepitoso fumatore), ma è morto tranquillamente a quasi 85 anni in seguito a una caduta in casa.

Nel film Cosmopolis, la figura emblematica del suicida per fallimento si ripresenta attuale come non mai, avallata dall’atmosfera da “futuro incombente” tipica del cinema di Cronenberg.

Nel romanzo che è la vita di Kurt Vonnegut Jr, tra il suicidio della madre nel maggio 1944 e la liberazione della Germania nel maggio 1945, si è già consumato tutto. L’orrore disponibile ha fatto bella mostra di sé, la paura ha preso il suo pegno e la morte ha fatto capire chi comanda a questo mondo.


Lo scrittore dimostra che niente più può spaventare chi ha accettato la normalità del peggio. Dimostra anche che nessuno si sente chiamato a una responsabilità civica superiore, irresoluta, incancellabile, quanto chi ha visitato la parte più profonda delle paure umane.

Il produttore cinematografico Harrison Starr gli ha detto un giorno che scrivere libri contro la guerra è come scrivere libri contro i ghiacciai. Mica si fermano con le parole.

Il suo capolavoro riluce di tutta la saggezza acquisita nell’osservazione del peggio, insieme alla tenerezza infinita per i propri simili che al peggio non sanno sottrarsi. L’esperienza di Vonnegut insegna che dall’altra parte della paura, così come dall’altra parte del desiderio, c’è l’impegno.