Ongaro Gainsbourg Parigi

“La spia che ti amava” – Il Quorum

Intervista a Marco Ongaro: “La spia che ti amava” su Il Quorum

11 Marzo 2024

Le mille sfaccettature di un “agente segreto”, tra musica, arte e cultura…

– Marco Ongaro, artista raffinato e poliedrico capace di spaziare tra diverse forme espressive, dalla musica alla letteratura. Insignito della Targa Tenco nel 1987, è attualmente in uscita con “La spia che ti amava”, un album di raffinata fattura attraverso il quale esplora le svariate sfumature dell’animo umano. Il suo lavoro si distingue per un’attenzione particolare verso il tema e le dinamiche dell’amore, trasmettendo un’elevata sensibilità artistica che lo rende tra i cantautori più interessanti del panorama culturale contemporaneo. Un testimone della tradizione musicale cantautorale italiana, che riesce ad essere attuale attraverso una scrittura vivida e originale. Cosa ne pensa di questa nostra descrizione? La rappresenta?

Direi che è piuttosto lusinghiera e me la intasco senza obiettare. Non ho spazio per della falsa modestia superiore alla mia già millantata umiltà. Potrei dire di essere un testimone della tradizione musicale cantautorale nel senso proprio dello strumento usato nelle corse a staffetta, quello che si passa di mano in mano per far proseguire la gara. Quello chiamato appunto testimone. Ecco, un po’ mi passo di mano in mano a me stesso per saltare da un palo a una frasca, compositivamente parlando.

Il vinile con cui mi guadagnai la Targa Tenco per l’Opera prima nel lontano 1987, AI s’intitolava, era in piena linea con la tendenza allora in voga di far svolgere all’elettronica la funzione di surrogato per strumenti musicali veri. L’album era stato tutto costruito in MIDI dall’arrangiatore Piero Cusato, a parte la mia voce. Un metodo per risparmiare sull’orchestra offrendo una certa versatilità, seppur finta, all’orchestrazione. Ricordo che il commento più frequente era “Bellissime canzoni, peccato per gli arrangiamenti”. Venivo da un’esperienza da agente segreto, sì, già allora, che con il nome d’arte O’Gar mi aveva visto scalare la classifica spagnola nel 1983 con un brano italo-dance intitolato Playback Fantasy, un “sempreverde” che ancora oggi, dopo 41 anni, mi procura dieci euro a semestre nei rendiconti SIAE.

Nella dance almeno l’elettronica non fingeva di riprodurre strumenti veri, cercava anzi suoni artificiali che modificassero le trombe o la cassa in quattro della batteria, ricorrendo ironicamente a un espediente da commedia dell’arte per fingere di avere un sequencer di basso elettrico che fosse all’altezza dei Twins se non proprio dei Pink Floyd. Mi spiego: l’arrangiatore Mario Natale, per esaudire il nostro desiderio di avere un suono in sequenza come nella canzone Face to Face dei Twins o One of these days dei Pink Floyd, suonò tutti i quasi 7 minuti del brano con due dita, grande prova di tenacia e senso del tempo, così da dare l’idea di possedere un robot laddove non potevamo permetterci che un essere umano. Il risultato è consultabile sul web, perfetto, ma ho ancora negli occhi l’immagine patetica di questo ragazzo bruno condannato a battere a tempo due tasti per fingersi una macchina. Quando qualche mese dopo il successo del mio disco-mix ne incisero uno i Gaz Nevada, il loro sequencer di lusso ci fece sorridere di compassione: capaci tutti di farlo con uno strumento elettronico autentico.

L’arte del paradosso insomma volle che quattro anni più tardi vincessi la Targa Tenco con il mio vero nome e con un disco che invece fingeva strumenti veri con il semplice aiuto di strumenti elettronici. Ho reso l’idea di quanto sia stato testimone più che atleta? Di lì in poi, con Sono bello dentro nel 1990, già si mescolavano elettronica e strumenti veri, non più di un paio, una chitarra e un flicorno, per mettere in difficoltà i puristi. Nel 1995, quando Dodi Moscati e Marco Manusso mi riportarono in sala d’incisione la band era rock e in quanto tale tutta elettrica ma “vera”, suonata strumento per strumento. Lo stesso per Dio è altrove nel 2002 e Esplosioni nucleari a Los Alamos nel 2004, in cui il sound guidato dalle chitarre di Roby Ceruti e la band La Scorta impegnava il folk-rock più strettamente inteso. Ma quando nel 2005 uscì Archivio Postumia, che sadomasochisticamente avevo registrato nel 1990 per farlo uscire solo 15 anni più tardi, d’accordo con il produttore Renato Venturiero, spiazzando così i critici che vi ravvisarono influenze che nel ’90 erano ancora di là da venire, la strumentazione era così stringatamente jazz da non far capire più niente su chi stesse passando il testimone a chi. Nel 2007 Marco Pasetto mi chiese di scrivere qualcosa per la sua Storyville Jazz Band e gli scodellai un concept album sul Proibizionismo che, con l’aiuto del gruppo, interpretò perfettamente l’atmosfera dixie dell’epoca a New Orleans. Poi nel 2010 il pluripremiato Canzoni per adulti alzava l’asticella di Archivio Postumia con una band di impostazione jazz più moderna, più o meno la stessa formazione, con l’aggiunta qua e là di atmosfere differenti, perfino klezmer. Poi il silenzio fino a che nel 2016 Gandalf Boschini non mi convinse a incidere un disco essenziale, unplugged, cioè dove suonavo solo io, chitarra e pianoforte, armonica in un paio di brani, portando l’essenzialità delle mie canzoni così come le facevo senza strumentisti. Poi di nuovo rock con le Quotazioni nell’album Il fantasma baciatore del 2018, un pop non del tutto moderno in Solitari voluto sempre da Gandalf Boschini nel 2022, per poi approdare al rock ’n’ roll de La spia che ti amava appena uscito per l’etichetta Long Digital Playing con il gruppo Le Cifre.

Cosa lega queste fasi della mia “ongarità”? Non si può dire il genere musicale, perché di balzi avanti e indietro ne abbiamo fatti parecchi. La cosa bella, senza rispondere a questa mia domanda autogenerata, è rilevare come le canzoni siano comunque sempre profondamente mie, a prescindere dalle presunte influenze dei presunti generi musicali di cui hanno amato o sono state costrette a vestirsi. Forse sono stato testimone di soprusi, di avventure ai confini del mercato, di sorpassi e languori fuori tempo massimo, chissà. Spero qualcuno si occuperà di stabilirlo quando avrò finito questo percorso terreno. Vede che provo ancora a passare il testimone? Credo che a legare il tutto sia in fondo quella cosa impalpabile, ma suscettibile di studio postumo, chiamata poetica. Quella non è mai mutata, al di là degli stili che le circostanze o i gusti del momento mi hanno spinto a occhieggiare, blandire, imitare, indossare, semplicemente amare.

– Nella sua musica, come dicevamo, sembrano convivere due anime. Una legata alla nostra grande tradizione cantautorale, l’altra che riesce a slegarsi dal passato per guardare al futuro, o che riesce a descrivere il presente con un linguaggio fresco e attuale.

Esiste principalmente una spregiudicatezza che non mi ha sempre giovato, ma ha mantenuto vivo l’interesse nella mia creatività. Contrariamente a quanto potrebbe pensare qualche sprovveduto ottimista, dal fare canzoni tout court non ho mai estratto alcun beneficio economico. Neanche una gran fama. Con gli anni più che altro una vaga sensazione di stima tra intenditori mi raggiunge e conforta, con picchi di grande ammirazione e sacche di lunghi silenzi. Non ho quindi grandi bersagli cui puntare per tenermi ancorato a una tradizione o puntare dritto verso un’avanguardia di qualche tipo. Come dico in Concorsi di poesia senza poeti, non cerco “Lustrini e cotillon per conto terzi / luccicanti in avanguardia come in retrovia”. Ciò mi porta a preferire puramente quello che meglio mi ispira, quello che mi pungola, la musica e la poesia che mi piacciono, senza impostare l’una o l’altra di queste stimolazioni quale punto di riferimento. Ne deriva una libertà espressiva che non tenendo conto delle cosiddette “richieste del pubblico”, ma quando mai il pubblico ha richiesto qualcosa di preciso sua sponte, gode del privilegio di soddisfare sé stessa cercando tra la folla quelle sparute persone che non aspettavano altro che questo.

Quello che lei chiama linguaggio fresco e attuale mi deriva dall’essere al mondo senza tanto seguire schemi preconcetti, il che mi tiene sintonizzato fuori dall’area kitsch in cui l’universo sembra voler sprofondare, attento alle priorità artistiche derivanti dall’essere sopravvissuto agli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Non faccio nulla per accarezzare la benevolenza altrui, giacché nulla me ne verrebbe, ma getto la liana per soccorrere chi senta il bisogno di un’offerta culturale un po’ variegata. La grande canzone d’autore, per chiamarla così, è un bacino di spunti e meraviglie come pure i testi ciancicati di qualche trapper di provincia che non ha ancora capito dove dovrebbe rivolgersi per ottenere il consenso che ancora non ha. Tutto riscalda il cuore di questo outsider troppo invecchiato per non capire come restare giovane. Non ammicco a niente che non mi abbia già conquistato. Che la risalga o che la segua, la corrente mi dà la scossa.

– Una curiosità! Tempo fa ci è capitato di leggere di una singolare ricerca che sarebbe stata fatta per analizzare le canzoni di successo. Dall’analisi risultava che la maggior parte di quelle più amate o che maggiormente restano nella memoria (anche storica), sono canzoni “parlate”. Dove la parola ed il racconto sono al centro. Pensiamo, quindi, ad artisti come Battisti o De André.

De André ha narrato storie con il piglio del vero cantastorie, apertamente dichiarato in Marinella o Il pescatore, Battisti raccontava le storie di Mogol o di Pasquale Panella, e già questo lo pone in una posizione diversa. Le cantava lui, con la sua voce inimitabile, il suo modo di dire «Non sono Claudio Villa, state tranquilli ragazzi, Claudio Villa è tramontato, ma un giorno verrà Bocelli». Se le cose stessero come dice la ricerca da lei citata, i rapper avrebbero un sacco di successo perché sono molto “parlati”. Ora che ci penso, negli ultimi trent’anni i rapper sono effettivamente venuti avanti un bel po’, quasi tutti si sono messi a parlare anziché cantare. Nell’ultimo Sanremo in quasi ogni canzone anche chi cantava a un certo punto si è sentito in dovere di mettersi a parlare. Credo che in molti abbiano letto quella ricerca. Raccontare storie lo si fa comunque, che si parli o si canti, sempre. Gelato al cioccolato o Firenze Santa Maria Novella di Pupo sono storie. Una ragione di più di Reitano è una storia. E non siamo già più nella canzone d’autore. Fiorella Mannoia parla sempre un po’ mentre canta, declama. De Gregori ha sempre parlato molto più di Venditti, giusto per evocare una classica contrapposizione duale. Lucio Dalla, melodista di ampio respiro, ha sempre avuto un incedere colloquiale in vari punti delle canzoni. Gaber ci infilava monologhi. Jannacci cantava come parlava. Serge Gainsbourg da un certo punto in poi non ha fatto altro che talk over. Personalmente ricordo con piacere i talking blues di Bob Dylan, il ritmo incalzante di It’s Alright Ma (I’m only bleeding), apprezzo pure l’arte di Kendrick Lamar e Madame, ritengo che tutto racconti storie, che sia parlato o meno, ma mi piace ancora giocare con la melodia. Se si parla di canzoni, la parola è per forza al centro di tutto, o si avrebbero brani strumentali. Marsia finisce scorticato vivo nella boscaglia perché non avrebbe potuto vincere la gara musicale con Apollo: il dio accompagna il proprio canto con la lira, Marsia soffia nel flauto. Mentre si soffia in un flauto è impossibile raccontare storie, siano esse cantate o parlate.

– Lei, che è anche un fine scrittore, sembra privilegiare a sua volta l’uso della parola nella sua musica. In particolare, brani come “Il gelsomino” e “Ritratto di donna scomparsa” mettono in evidenza l’elemento descrittivo, quasi a prevalere sulla componente musicale, che fa da sottofondo narrativo. Cosa ne pensa di questa osservazione? Condivide questa interpretazione?

Non a caso si tratta di due storie. Parlano della stessa donna in due momenti differenti, una mentre il narratore la va a trovare, l’altra dopo che lei è scomparsa. L’elemento diegetico, elegiaco nel caso del Gelsomino, correlativo oggettivo nel caso del Ritratto di donna scomparsa, si appoggia comunque sulla musica che accresce il senso di quanto narrato, ne sottolinea l’atmosfera, ne rende ancora più musicale il testo. L’ambiente musicale dei due brani è determinante per distinguerli, in questo il cantautore ha molte più frecce al suo arco rispetto a un poeta inteso in senso moderno, che deve fare tutto con la sola parola. Sappiamo che non è sempre stato così, i poeti greci scrivevano anche la musica, anche se non ci è arrivata, erano cantori, aedi. I poeti oggi devono arrampicarsi su specchi più lisci per arrivare a risultati che per i cantautori possono essere molto facilitati. Infatti i poeti spesso vanno in giro a fare reading accompagnati da musicisti, sono consci della loro défaillance. Per dire, la musica delle due canzoni da lei citate non fa affatto da sottofondo, è un altro elemento poetico, creazione che sta intorno alla creazione per meglio specificarla. Ritratto di donna scomparsa sostiene una voce bassa, quasi sussurrata e poi gridata nel ritornello mano a mano che il parossismo dell’assenza si manifesta. E l’ondeggiare da barcarola folk-rock del Gelsomino caratterizza in pieno l’andatura on the road delle visite del narratore a casa della protagonista, in un’altra città, i chilometri “sciorinati invano” sul cruscotto. La musica è compagna a pari merito del testo, in queste come in altre canzoni. Si tratta di canzoni, non di poesie. Anche se minimale, e in queste canzoni non lo è, la musica è determinante per il risultato complessivo dell’opera. Ho scritto anche dei melologhi, quella forma musicale in cui la recitazione si fonde alla musica concepita intorno e sopra un determinato testo: affascinante ma non è mai come una bella romanza cantata.

– … E nel comporre, come descriverebbe la sua attività? Dove trova ispirazione?

Nel comporre come nello scrivere, l’ispirazione è questione di volontà. Non ci si può affidare a qualcosa che arriva quando vuole, se si intende essere poeti, cioè creatori nel senso aristotelico del termine. Ho un punto di vista rinascimentale, lavoro su commissione e se la commissione non c’è me la invento. Devo avere un obiettivo e non sono l’unico. Quando scrivevo libretti d’opera per il compositore contemporaneo Andrea Mannucci, si lavorava unicamente quando c’era in prospettiva un debutto. L’ispirazione dopo Kiki de Montparnasse, che aveva debuttato a Parigi nel 2007, mi venne in rue de la Gaité, a pochi passi dall’omonimo teatro in cui il giorno prima era stata rappresentata Kiki. Pensai che per scrivere ancora qualcosa di adatto alla musica contemporanea avrei dovuto attingere a una tragedia, stavolta, contemporanea. E mi venne in mente la morte di Aldo Moro. Invasato dall’ispirazione, tornato in Italia scrissi immediatamente il libretto e lo sottoposi a Mannucci che lo trovò straordinario ma non scrisse una nota. Per avere la sua musica su quel testo dovetti aspettare due anni, trovare la commissione della Compagnia Opéra de Poche di Parigi e telefonare dalla capitale francese a Mannucci dicendogli: «Per maggio l’impresario la vuole». Solo allora il Maestro, dopo avermi detto che non mollavo mai, accettò di scrivere la musica. Fu un grande insegnamento per me, Andrea aveva ragione: si lavora per pubblicare un’opera, non per tenerla nel cassetto. Già si guadagna poco in questo mestiere, impiegare energie per qualcosa che non vedrà forse la luce è uno spreco imperdonabile. L’opera tragica in un atto intitolata Moro debuttò a Parigi, all’Église Réformée des Batignolles nel febbraio 2011 grazie alla mia tenacia nel trovare un impresario per dare sfogo a un’ispirazione prorompente da cui non mi sarei lasciato guidare più. Dopo di allora, ho scritto per Mannucci ogni volta che lui me lo ha chiesto con una solida proposta di debutto. Ora permetto che le cose nascano in me se sono necessarie, ma so che avranno sempre uno sbocco pubblico o se non l’avranno lo creo. Insomma, come scrive Maurice Blanchot, l’ispirazione nasce nel momento in cui si spegne. Bisogna saperla governare, farla sorgere quando serve o, se ci si lascia guidare da un impulso della Musa, beh, allora darsi da fare per offrirgli un corso concreto. È il realismo, l’attimo circostante e l’impatto con il vivere a generare l’ispirazione. Per Baudelaire l’ispirazione è sorella del lavoro quotidiano. Una sosta inattesa al pianoforte, una strimpellata pensosa alla chitarra, un’improvvisa esaltazione riversata su un taccuino mentre si prende il sole in spiaggia. Ogni attimo è fecondo. Tutto bene, però se la cosa prende forma, meglio correre a procurarsi l’occasione per pubblicare ciò che è venuto spontaneo. Detto questo, tutto è ispirazione, perché il momento creativo è un piacere, non una sofferenza, per l’artista. Alzarsi alla mattina con un progetto e lavorarci è il vero toccasana che determina lo stato di grazia di un creatore. Niente può sconfiggerlo in quello stato, nessuna malattia può insorgere, tutto fila liscio fino a che qualcosa non interviene a bloccare una situazione così magica. Casanova, finita la sua vita di libertino avventuroso, ha avuto il piacere di ritirarsi a Dux per scrivere memorie fluviali, creazioni quotidiane che l’hanno tenuto lontano dalle miserie della vecchiaia e delle invidie di corte. Quando le ha finite, è morto. I Beatles costruivano le canzoni in sala d’incisione, e così pure i Pink Floyd. La concretezza e la sicurezza del progetto fanno nascere le opere d’arte nei luoghi dedicati a registrarle. Potendoselo permettere, non c’è niente di meglio di respirare l’aria di uno studio di registrazione per creare dei brani, lo faceva anche Serge Gainsbourg: si è direttamente connessi alla fase produttiva. La certezza della pubblicazione, l’obiettivo di un progetto, la data del debutto in teatro, il foglio bianco di chi scrive un articolo per una rivista che lo stamperà tra una settimana. Ispirazione febbrile in costante eccitazione. L’opera si nutre della sua commissione.

– Generalmente realizza prima il testo, o prima la musica?

Spesso prima il testo, e questo rende particolarmente complesso accompagnarci una musica. Ma l’operazione è interessante se si impara a essere giustamente esigenti. Finché non si trova la musica adatta non bisogna desistere. Resistenza, non desistenza. Per ogni testo c’è una magia giusta nascosta in qualche punto della creazione musicale. Lo stesso vale per l’operazione contraria. Si parte da una musica che piace molto ma il testo non sempre “attacca”, non bisogna arrendersi. Bisogna limare, lavorarci, e se proprio non ci si riesce si molla tutto e si trasforma l’opera in un melologo. Ho avuto amici cantautori che hanno pubblicato poesie, io stesso l’ho fatto, perché certi testi non erano accompagnabili, volevano una loro solitudine. E viceversa. Ogni musica ha il suo testo, sono anime gemelle. E più è bravo il musicista a musicare un testo, o più bravo è un autore a mettere dei versi su una musica, migliore sarà il risultato. Mogol è stato bravissimo a posare testi sulle canzoni di Battisti, non che i suoi testi fossero sempre bellissimi, ma giusti, spesso sì. Battisti è stato bravissimo a proseguire imperturbabile sulle provocazioni di Panella, distaccando le due parti per farle unire più concettualmente che sul serio. Quando Battisti ha compreso di potersene fregare dell’effetto di un testo sulla sua musica ha scelto il miglior poeta “indipendente” in circolazione, uno come Pasquale Panella che potesse a sua volta fregarsene se nel mettere in musica una sua strofa il compositore la divideva e diluiva in tre strofe diverse o se creava enjambement impossibili da ricollegare per l’inserimento di un breve assolo di chitarra tra due versi concepiti uniti. Ci sono grandi tradimenti nell’accostamento di testo e musica, il più clamoroso è quello di Mogol che ha finto di tradurre David Bowie banalizzando oltremodo Space Oddity, ma ci sono anche azzardi violenti nell’accostamento di una musica a un testo, come interi dischi elettronici di ricerca anni Novanta di Battisti che hanno fatto un discorso da separati in casa con i versi di Panella. È data poi l’occasione miracolosa in cui un testo e una musica nascono insieme, allora si è di fronte a qualcosa di epocale per sé stessi prima di tutto, e lo si sente nelle vene. Le canzoni che si realizzano così, quasi per prodigio, sono quelle che rimangono più delle altre. Con Vittorio De Scalzi, grande musicista, non c’erano patemi ad affidargli un testo, tale era la sua abilità di trovare il giusto vestito musicale. Una volta sono arrivato a casa sua con un testo tratto da Riccardo Mannerini in perfetti endecasillabi. Era praticamente impossibile cantarselo nella testa senza sentire certe melodie e certi ritmi di canzoni di De André, che tanto dall’endecasillabo hanno tratto. Gli ho posto il problema e lui ha scomposto il tempo camuffando così bene l’endecasillabo e la sua cantilena da farne uscire un brano totalmente diverso. Impossibile ravvisarvi alcun retaggio di De André. Più grande è il musicista, più il testo canta della propria vera voce.

– … Testo e musica viaggiano, quindi, sullo stesso piano? O un elemento può prevalere o essere funzionale all’altro?

Se pensiamo a Max di Paolo Conte, è chiaro che il testo è irrisorio rispetto alla musica, quella bellissima coda cui i versi, molto deboli, hanno lasciato la parte del leone. Ma quando mi sono ispirato a quel brano, per scrivere Lolita in Archivio Postumia, ho colto l’occasione per abbinare alla coda musicale progettata con la stessa preminenza un testo che la usasse come eco e non come unico vero pregio della canzone. Aguaplano è forse il disco di Paolo Conte più sontuoso dal punto di vista musicale, ma com’è bello quando oltre alla meraviglia della musica un ascoltatore sperimenta lo stupore di una perfetta corrispondenza poetica. Funzionalità e prevalenza, d’accordo, ma l’armonia, la misura, la proporzione. Hotel California ha una musica irresistibile, ma non si può dire che il testo sia da meno, per la storia che racconta e per la sua complessiva portata metaforica. Like a rolling stone colpisce per la forza dei suoi versi come per l’impasto irripetibile del suo ensemble orchestrale. Eleanor Rigby è una perla di note e versi, perfettamente equilibrati nella loro malinconica sintesi umana. Il testo de La libertà o La strada di Giorgio Gaber non avrebbero la stessa energia senza le musiche corrispondenti, autentici inni in fase di ritornello. Vita spericolata di Vasco Rossi non colpirebbe così tanto senza quel giro di accordi essenziale e quel ritornello in sordina rispetto alla strofa. A dire il vero non si sa bene cosa sia ritornello e cosa sia strofa in quella canzone, e anche questo la rafforza. Lo stesso vale per Bufalo Bill di De Gregori, dove l’inciso musicale cambia tutto all’improvviso, per incorniciare una dissertazione che poi torna sui binari della strofa rafforzandola in forma di epico refrain. La forza delle grandi canzoni sta nell’equilibrio, nel travaso costante e biunivoco di linfa vitale tra testo e musica.

– Rimaniamo sul tema dell’ispirazione e parliamo a questo punto anche di amore, che è il tema portante de “La spia che ti amava”. Lei ha scritto un libro dedicato a Serge Gainsbourg e si è cimentato in una rievocazione/tributo di Piero Ciampi. Certamente due artisti profondamente diversi e con un modo diverso di intendere l’amore.

Totalmente diverso, direi. Piero Ciampi lo viveva come una trepida scommessa persa in partenza, a causa sua. Si doleva implorando alla Brel ma mai altrettanto pateticamente, sempre con la dignità del guascone livornese. L’assonanza tra Tu no di Ciampi e Ne me quitte pas di Jacques Brel è solo formale. Ci troviamo davanti a due tipi d’uomo lontanissimi l’uno dall’altro. Ciampi non smette mai di essere sulla difensiva. Per quanto riguarda Gainsbourg, lui ha cominciato con una misoginia affettata per poi diventare il cantore della bellezza e del sesso, pure omosessuale. Alle donne più belle amate in vita ha affiancato l’immagine di sé stesso travestito con il rossetto in copertina a Love on the beat. Cosa che Ciampi non avrebbe fatto mai. Entrambi insensibili allo scandalo, l’uno perché lo snobbava l’altro perché lo cercava, hanno cantato cose che difficilmente sarebbero cantabili oggi. Buffa questa faccenda che con il progresso si perda sempre più la libertà di esprimersi invece di ampliarla. Ciampi ha cantato “Quel pugno che ti detti / è un gesto che non mi perdono / ma il naso ora è diverso / l’ho fatto io e non Dio”. Proviamo a incidere oggi qualcosa del genere. Gainsbourg ha scritto per France Gall Les Sucettes, I lecca-lecca, una canzone in cui la cantante francese celebra inconsapevolmente orge di fellatio stilizzate tra minorenni anice-addicted. Ma quando mai si potrebbe più fare. Se la censura è madre della metafora, comunque, i poeti troveranno sempre nuovi ammiccamenti attraverso cui contrabbandare il proprio gusto di trasgredire. Per continuare con il confronto tra i due sull’amore, Piero Ciampi è stato lasciato più che lasciare, Gainsbourg è stato lasciato ma ha conquistato molto di più e molto più platealmente. Entrambi bevevano senza pietà, erano alcolisti convinti, ma mentre questo serviva a Ciampi per mostrare ancor meglio la sua autenticità, a Gainsbourg è servito a creare un alter ego cattivo e scomodo, Gainsbarre, cui far fare le peggiori figure in televisione. Ciampi manteneva la dignità del disperato, Gainsbarre si offriva come feticcio su cui la gente poteva riversare la sua fame di vergogna. Soprattutto: Piero Ciampi lo sappiamo in pochi chi è, perché non ha avuto successo. Gainsbourg ha avuto un successo mondiale ancora indimenticato. E questa non è una differenza da poco. Come intendevano l’amore? In modo diverso. Erano entrambi timidi, ma uno ha perso e l’altro ha vinto. Come gli è andata la vita? In modo diverso. Ma entrambi erano poeti e il successo o l’insuccesso alla fine, sulle loro tombe, lascia una debole impronta.

– … Bene, le chiediamo allora: qual è il suo modo di intendere l’amore?

È un universo che ci ho messo anni a scoprire. È in effetti un’area di esplorazione che attraversa la vita. A ogni storia, ogni relazione, anche le più durature, corrisponde una varietà di sentimenti che ne fanno una creatura in continuo divenire, tra apparizioni e scomparse, attese confermate e illusioni ricaricate ogni sera. L’amore è la vita, come lo è lo scrivere. Martin Amis parla della scrittura come dell’energia stessa della vita, ma ha appena finito di dire che quell’energia è data dall’amore. Una cosa avvincente dell’amore è che si presenta sempre con facce diverse e costringe a ridisegnare la giornata, la settimana e il mese, pure l’anno in funzione del suo procedere. Costringe a elaborare strategie, a interrogarsi su azioni compiute, a progettarne di nuove. Non si accorge anche lei che mentre ne parlo ogni cosa che dico potrebbe tranquillamente sostituirsi alla descrizione della vita? Dunque retoricamente l’amore è vita e la vita è amore, ma pare un manifesto della generazione hippy, e allora dove lasciamo le sostanze psicotrope? Che in quel particolare periodo storico hanno pure avuto un certo peso sull’amore. Diciamo che se la vita è un gioco in cui si cerca di risolvere una serie di problemi, l’affastellarsi dei quali ne definisce il colore, rosa felicità o blu tristezza, verde speranza o giallo invidia, l’amore è quella particolare entità che interviene a cambiare le rispettive tinte. Non per questo è un elemento scenografico, diciamo che è piuttosto come il sangue, che in base ad anemia o buona nutrizione muta la carnagione, la gradazione di pallore o vivacità della pelle. Ecco, l’amore è il sangue della vita. E, come il sangue, è risultato del nostro nutrimento, delle nostre scorie, delle pasticche o delle vitamine che assumiamo. Intendo l’amore come sangue, dunque perché rifiutare una nuova, buona trasfusione?

– Addentriamoci, ora, nel progetto in uscita: “La spia che ti amava”. Visivamente, se analizziamo la copertina dell’album, l’immagine sembra catturare perfettamente un’istante di tensione e suspense, evocando l’atmosfera densa e intrigante tipica degli agenti segreti. Senza dubbio è un’immagine emblematica dell’album che contribuisce a creare un’atmosfera che poi ritroviamo durante l’ascolto.

Sì, il chitarrista Pietro Franzosi, su indicazione dell’arrangiatore/bassista Pepe Gasparini e mia, ha inserito nella canzone che dà il titolo all’album una citazione del tema di James Bond nel mezzo dell’assolo e alla fine del brano, il che ne evidenzia palesemente la dimensione spionistica. La metafora degli agenti segreti è utile a sviscerare quanto di non detto, a mio parere giustamente, quanto di celato vi sia nel rapporto amoroso inteso soprattutto come innamoramento. Perché due si innamorano? Chi lo sa cosa c’è dietro davvero? Nemmeno i protagonisti spesso ne sono a conoscenza. Il certo nonsoché che spinge due tra le rispettive braccia pertiene all’Ordo Amoris agostiniano, quel sistema di amore e odio creatosi nell’individuo ben prima che possa esserne cosciente e che guida la sua vita a livello subliminale trasformandola di fatto in un destino. Come pretendere allora di conoscere tutto di qualcuno che non conosce abbastanza sé stesso? Eppure nelle dinamiche di coppia, nelle schermaglie erotiche, l’informazione pare assumere di tanto in tanto la rilevanza che i servizi segreti le attribuiscono. Allora i coniugi si spiano il cellulare per scoprire cose che sarebbe meglio non scoprissero, bugie che sono mezze verità esacerbate dal mezzo, l’algoritmo delle chat. E credono di scoprire segreti che, tranne in certe patenti situazioni, non fanno che scombinare ulteriormente la comprensione reciproca. Perché ci si innamora? Perché in quel momento è giusto, se ne ha bisogno, per mettersi in ordine, raddrizzare la propria vita o distrarla, mettere un sogno al posto della banalità quotidiana, inseguire l’erotismo risalente a qualche figura edipica, “perché non avevo niente da fare”, per abitare in una casa più comoda, per non dormire da soli, per dormire da soli, per farsi trasportare dalle emozioni o per sostituire vecchi trasporti mai seppelliti. E perché si tradisce? Francesco De Gregori alla fine di Atlantide lo dice meravigliosamente in un paradosso di apparente facile fattura: “Ditele che la perdono per averla tradita”. È davvero necessario scoprire tutto questo? E scoprirlo di nascosto dalla persona indagata? “Forse era amore, forse l’amore c’era, nel cuore ignoto della spia che ti amava” sintetizza tutto questo in un finale che fortunatamente non ha niente della sorpresa. E magari il sorriso o il bacio si autodistruggessero come i messaggi nel mondo delle spie. Tutto resta lì, invece, e pesa sulla prossima missione da compiere, in un’altra casa, un altro rapporto, con nuovi agenti sotto copertura, una copertura di cui il più delle volte non hanno sentore.

– Una delle canzoni più belle e intense presenti nell’album è “Lo sfondo”. Un brano che approfondisce il tema dell’amore, esplorando la profonda dipendenza emotiva e l’importanza centrale della persona amata nella vita di qualcuno. Questa concezione di “amore assoluto” sembra enfatizzare come la presenza dell’altro possa plasmare e definire l’intero mondo di un individuo.

È vero, ma è una sensazione strettamente connessa alla durata dell’innamoramento, almeno nella sua fase acuta. Poi se l’amore diventa cronico… È buffo parlarne come di una malattia, ma i Greci non la pensavano poi diversamente, vedi Fedra che si mette a letto perché involontariamente infatuata del figliastro Ippolito, vedi Ares che fustiga Eros per averlo fatto innamorare di Afrodite, l’innamoramento come affezione grave, malia indesiderata. Se l’amore diventa cronico, dicevamo, la sensazione che tutto faccia da sfondo alla persona amata perde di intensità, rimanendo in certi casi come una sorda dipendenza da una figura cui si è talmente abituati da essere indotti a vedere il mondo unicamente attraverso i suoi occhi. Ma Lo sfondo si muove sulla fase acuta, rilevando l’insensatezza del mondo materiale, delle cose e degli altri, rispetto all’apparizione, l’epifania dell’individuo amato. La sensazione che tutto sia una specie di videogame, molto cyberpunk, improvvisamente vanificata dall’avvento dell’altro è l’asserzione vincente dell’elemento umano sul paesaggio. “Da soli non si vive, senza amore non morirò” cantava Nicola Di Bari in Vagabondo. Bene, da soli non si vive davvero, e l’amore dovrà arrivare prima che io muoia per dare un senso a questo mondo. Il senso lo dai tu, perché ti amo, vieni per favore a colorare il mondo che senza te è tutto nero: non era questo che cantava Mick Jagger in Paint it black? Non lo dipingo di nero, io, lo lascio là dietro, sfocato, privo di significato, perché tu sei l’amore che offre significato al mondo. Non perché io sia dipendente da te ma perché tu illumini ciò che il sole non basta a illuminare. È una canzone d’amore, non di dipendenza, è una lunga, particolareggiata dichiarazione d’amore che usa un punto di vista collaterale per evitare la banalità del già detto e già sentito. Bisogna arrabattarsi parecchio per offrire a chi si ama nuovo ossigeno nel linguaggio amoroso.

– Se il filo conduttore concettuale dell’album è l’amore, musicalmente come definirebbe “La spia che ti amava”?

Rock ‘n’ roll, con altri episodi correlati, ma principalmente il piacere di suonare con un trio elettrico di base, oltre ai succitati il batterista Giovanni Franceschini, tutti elementi scelti nell’ambito scolastico in cui insegno Songwriting, il Polo Aloud di Verona. Cui ho aggiunto due voci femminili, Lucia Corona Piu e Jessica Grossule, per creare tessiture e tappeti normalmente delegati alle tastiere o agli archi o ai fiati che sono assenti nell’organico. La band si chiama Le Cifre e solo in una canzone, Ma tu sorridi, ospita il graditissimo clarinetto di Marco Pasetto. Il produttore artistico Gandalf Boschini stavolta mi ha lasciato carta bianca. Una formazione essenziale per esibizioni dal vivo in club non più fumosi ma senz’altro pieni di gente che pensa ai fatti suoi. Il rock ‘n’ roll aiuta a tener viva l’attenzione o comunque a fregarsene se il pubblico è in altre faccende affaccendato. È un po’ una cosa che lega i musicisti in un mondo a sé, il gusto di dondolare e rotolare a prescindere dallo stato di ubriachezza degli astanti. Un linguaggio più diretto di altri, fatto di suoni noti da decenni, familiari, frizzanti ed emotivamente coinvolgenti, ritmi vivaci per testi che offrano pure una chiave di lettura in superficie a chi non ama andare a scavare in profondità. Insomma un contesto divertente anche se non vuoto, una serie di canzoni fruibili senza dovercisi mettere d’impegno eppure con una buona riserva di riflessioni meno “easy”.

– “S.r.d” e “Concorsi di poesia senza poeti” sono due brani che spiccano indubbiamente per lo stile rock e per una certa vivacità musicale, ma anche intellettuale. Inoltre entrambi presentano dei testi che incarnano la freschezza e l’originalità di cui parlavamo all’inizio.

S.r.d (Società a responsabilità disperata) ironizza sulla disperazione della profezia che si auto-avvera messa in campo dagli innamorati quando per evitare di dirsi «ti amo di più io» si dicono «mi lascerai prima tu». Le scaramucce di coppia sulla questione, soprattutto nella fase iniziale di massima passionalità, diventano a volte grottesche, tanto quanto le rassicurazioni che la circostanza richiede, vanificate pur esse dall’assurdità contingente. Andy Warhol diceva che il sesso è la nostalgia del sesso e che l’aspetto peculiare dei film d’amore che vedeva in tivù era la continua ripetizione verbale di quanto ci si ama e di quanto è bello stare insieme. Una sorta di “dire qualcosa per non dire niente” ben esemplificata nella canzone, guarda caso parlata, Io ti amo, interpretata dall’attore confidenziale Alberto Lupo nel 1967. Dopo l’elenco linguistico dei “Ti amo” nei vari idiomi, espressione già stigmatizzata da Roland Barthes in quanto affermazione senza più alcuna funzione dichiarativa nel suo Frammenti di un discorso amoroso, l’attore parla con enfasi della bellezza di essere “qui, io e te, e tu mi ami e io, io ti amo” rendendola l’unico avvenimento significativo della loro relazione. La tautologia fatta programma. Con andatura rock piuttosto mossa, con citazioni dagli anni 60 al punk e pure a Vasco Rossi, la mia S.r.d si aggira in quelle secche del linguaggio, in cui pur di non tacere si anticipano catastrofi come l’abbandono e si inanellano rassicurazioni che suonano altrettanto poco plausibili. Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? Ma vivaddio, della fine dell’amore! E sarai tu a volerla. Ma no, «io ti giuro…», come sempre Alberto Lupo supplicava nella shakespeariana Parole parole parole in duetto con Mina.

Concorsi di poesia senza poeti “funkeggia” invece intorno alla tendenza di certi operatori culturali a farsi belli attraverso l’esibizione di ospiti di cui non sempre comprendono il valore, in kermesse destinate a un pubblico sempre più avido di mostrarsi intellettualmente “aggiornato”. Che la poesia ci sia davvero, che l’artista riconosciuto valga davvero quanto un Piero Ciampi gli importa poco o niente. Ciò che conta è che la loro immagine di conoscitori di poesia e di amici di poeti venga innalzata al livello del post su una pagina social, dove uno mostra sé stesso tramite i propri gusti e i propri selfie prestigiosi. È la prosecuzione ideale di una canzone che ho inserito nell’album Il fantasma baciatore, intitolata Ciascuno ha il proprio festival, ma stavolta ho voluto offrire nel ritornello una dimensione quasi mistica, l’evocazione della vera poesia in chi rischia tutto e tutto ha perso, senza star lì a dichiararlo, senza la fragilità pornografica del proprio stato d’animo denudato in versi accattivanti. L’invitato che tace e non beve, senza dire perché, attesta nel suo silenzio la dignità di chi conosce la poesia al di fuori dei versi, della pagina, delle sillogi, quella ben descritta da Alejandro Jodorowsky quando parla della decisa traversata a piedi di Santiago del Cile ignorando qualunque ostacolo si presenti. Una poesia dell’esistenza che supera quella presunta, talora posticcia, dell’inchiostro. Ponendo al centro del ritornello una strofa di una vecchia canzone scout, Caramba o Lassù sul Monte Nero, ho creato una sorta di détournement situazionistico che rovisti nell’inconscio dell’ascoltatore sedimentandovi un’oscura sensazione di già ascoltato, già cantato, ma non meglio identificato.

Sia chiaro, per godersi la canzone non è necessario ravvisarvi tutto questo, ma chi volesse trovarcelo sappia che non sta poi esagerando.

– Oltre a una scrittura sottile e tagliente, a tratti critica (come abbiamo visto in “Concorsi di poesia senza poeti”) l’album presenta frangenti di leggera ironia, come se la spia se la stesse ridendo sotto i baffi. Quanto è importante per lei questa leggerezza?

In verità la spia se la ride sempre sotto i baffi perché è convinta di saperla un po’ più lunga degli altri, a torto o a ragione. Così ridacchia più apertamente in S.r.d. e in La spia che ti amava, o diventa sardonica in Una via di fuga, dove le contraddizioni sollevate dal lockdown puntano a tratteggiarne un bilancio consuntivo. Pure nelle assenze di Ritratto di donna scomparsa e Aveva un uomo affianca un sorriso consapevole all’apparente accoramento. Ma tu sorridi ne fa addirittura manifesto intitolandoselo nel programma ormai compiuto di una non più bambina. La leggerezza è il salvagente delle canzoni, la serietà ne è spesso la zavorra. Quanto ci ha fatto piangere sorridendo Enzo Jannacci? Quanto suonava forzata l’irruzione di un discorso grave nel magnifico mondo giocoso di Giorgio Gaber? Pure Gino Paoli sorride con gli amici al bar. E Zucchero ci cogliona un po’ tutti. I migliori sanno il valore dell’ironia, il curatore fallimentare del Mocambo di Paolo Conte, il Paradiso dei calzini di Vinicio Capossela, la piadina romagnola di Samuele Bersani, le Notti slave e il G. Byron poeta di Max Manfredi, il Pianista di pianobar e L’abbigliamento di un fuochista di Francesco De Gregori, l’Avvelenata di Francesco Guccini, il Disperato erotico stomp di Lucio Dalla, Te lo faccio vedere chi sono io di Piero Ciampi, Des vents des pets des poums di Serge Gainsbourg, Sul ponte sventola bandiera bianca o Un’estate al mare di Franco Battiato, Agata di Nino Ferrer, il Carlo Martello di Villaggio e De André, il Rock ‘n roll robot di Alberto Camerini, il Dove si balla di Dargen D’Amico. Tutti eroi “buffi” della canzone senza cui la canzone sarebbe meno eroica perché, come ci insegna Kurt Vonnegut, è la capacità di scovare la comicità nell’attimo grave a connotare l’umano come tale.

– …E quanto l’amore può essere “leggero” a volte?

Quando ci sono lacrime in amore, l’amore si fa noioso e nocivo. Capita che non si possano evitare, perché dove la felicità raggiunge vette elevate la caduta produce abissi di disperazione. Ma ciò che rimane è il sorriso, la presa in giro del momento di maggiore intensità. Woody Allen rammenta alla fine di Manhattan la fuga delle aragoste ribelli sul pavimento della cucina come parte dei ricordi più belli, perché stavano ridendo, tutti e due. La mia canzone comica in questo disco è senz’altro S.r.d., ma non sono nuovo a trattare l’amore con leggerezza. In Archivio Postumia incarico Landru di impersonare l’amore definitivo. In Canzoni per adulti due figure distinte ma connesse, Il Salvatore delle donne tristi e Il sostegno delle massaie, anelano a un inquadramento sindacale nel supportare il genere femminile allo sbando. Nel Fantasma baciatore il surrogato ectoplasmatico dell’innamorato offre alle bisognose il momento di sollievo quotidiano dalla solitudine, rimanendo nell’ombra, evanescente e senza impegno, anticipando senza saperlo ciò che sarebbe avvenuto con le relazioni via chat. In Poco o niente, sempre da Canzoni per adulti, faccio sparare dal protagonista tutte le più esplosive esagerazioni amorose per poi abbandonarlo ravveduto tra le braccia materne dell’amata: “Fortuna che hai dei figli, fortuna che sei madre”. Quando l’amore comincia a farsi pesante è il momento di mettersi le gambe in spalla. Ridiamoci su, o ridiamoci una possibilità di chiudere.

– Ne “La spia che ti amava” troviamo un importante tributo a Vittorio De Scalzi. Ci racconti del vostro rapporto di amicizia.

Ci mise in contatto Enrico de Angelis, che aveva intuito di poterlo aiutare per mio tramite a superare delle difficoltà compositive nel realizzare il seguito ideale di Senza orario e senza bandiera, leggendario album dei New Trolls in cui De André aveva catalizzato delle poesie di Riccardo Mannerini facendone dei testi molto fortunati. L’intuizione di de Angelis si è poi rilevata felice, giacché in poco tempo le canzoni hanno cominciato a sbocciare libere dai componimenti di Mannerini da me elaborati e offerti nelle abili mani di Vittorio. Il risultato è l’album a lui intestato Gli occhi del mondo, uscito qualche anno più tardi, quando già De Scalzi aveva collaborato alle musiche di un mio spettacolo teatrale sulla Costituzione e io avevo messo i testi su un suo concept improntato al tema del Graal di cui solo una canzone sarebbe poi stata pubblicata. La macchina si era messa in moto, eravamo ormai amici e gli amici in musica creano sempre qualcosa. La sua perdita l’anno scorso ha lasciato un grande vuoto e quando mi sono trovato a scrivere Quello che accadrà, pur non pensando chiaramente a lui, ho capito che sarebbe stata la canzone a lui dedicata, alla sua partenza, al suo addio, che era il nostro, quello cui tutti prima o poi andremo incontro. Il pianoforte, che nel disco non c’è, mi è servito per scrivere il brano, e anche lo straniamento di questa esclusione strumentale aggiunge una impercettibile nostalgia al senso del testo. Una mancanza invisibile che avvalora la mancanza di cui si parla. Di nuovo, musica e testo si influenzano, stavolta anche nella deriva tra l’atto creativo e la sua realizzazione finale.

– Nei suoi album, troviamo sempre una rivisitazione di brani internazionali. Nel caso de “La spia che ti amava”, Pastures of Plenty di Woody Gutrie.

Ho tradotto il brano da Dust Bowl Ballads di Guthrie per ottemperare all’invito che Maurizio Bettelli mi fece di partecipare a un tributo al folksinger americano in quel di Modena. Dopo l’esperienza di O’Gar, in cui scrivevo in inglese testi che nessuno capiva quando glieli cantavo davanti, non mi piaceva l’idea di cantare in inglese a un pubblico che inglese non era, dunque come mio solito ho proceduto alla traduzione del testo intervenendo un po’ sulla musica per rispettarne la fedeltà. Ne è uscita una ballata dolente, in cui il tono epico delle tempeste di polvere cantate già in Furore di John Steinbeck è esaltato dall’ampliamento delle battute tra un accordo e l’altro. I migranti in cerca di lavoro all’Ovest sembrano spostarsi più faticosamente, scrostandosi la polvere di dosso come fantasmi alla periferia delle città. Un brano di una potenza ancestrale che racchiude, a dispetto della rielaborazione musicale o forse proprio in sua virtù, tutta la potenza del dramma rappresentato. Il protagonista e il fiume sono un tutt’uno, una trasfigurazione in cui il sangue dell’uomo che lavora è identificato con l’acqua che ne permette l’opera. E i pascoli tornano verdi grazie a loro, l’abbondanza è il frutto dell’uomo che fatica, non più del Dio che creò l’Eden. Woody Guthrie era un maestro, l’aveva capito bene Bob Dylan.

– “La spia che ti amava” rappresenta il suo dodicesimo album. Come si colloca nel suo percorso cantautorale?

Come un punto di arrivo, una sintesi, un ricovero dopo la tempesta, un rifugio dalla traversata del deserto. Grazie alle sue domande mi sono trovato a percorrere questi ultimi 41 anni di vita e mi pare di esserne il risultato, proprio in questo album cui non so cosa seguirà. Se ascoltiamo le ultime parole dell’ultima canzone, quella dedicata a Vittorio De Scalzi, il vaticinio pare netto: “Quello che accadrà sarà un po’ niente”. Nessun disco più? Chi può dirlo. Certo il numero zodiacale, degli Apostoli, delle Fatiche di Ercole, dei Cavalieri della Tavola Rotonda ha una qualche suggestione. Che sia l’ultimo? Non lo so. Per adesso lo è. Porta in sé il piacere che mi ha spinto 54 anni fa a scrivere per la prima volta un testo su degli accordi di chitarra. Lo riassume e lo riesuma. È una raccolta di canzoni nuove che a volte suonano come alcune vecchie mie intemperanze cui allora non sapevo quale senso attribuire. La spia che ti amava sono io, forse il 12 rappresenta questo, la chiusura di un cerchio che delinea un’identità. Da qui posso solo andare avanti con il sospetto di andare indietro in una certa misura. Sono felice di averlo completato e di offrirlo al pubblico in una forma di cui non mi vergogno minimamente. Firmo tutto quello che c’è in questo disco, sottoscrivo ogni impressione e nota, piacciano o meno. In altre parole, firmo me stesso.

– Tra i suoi precedenti album quali consiglierebbe di ascoltare ai nostri lettori, e perché?

Partirei da Certi sogni non si avverano, perché è il mio ritorno al rock giovanile grazie al sostegno di un’icona folk come Dodi Moscati e al braccio sapiente del chitarrista Marco Manusso. Lì si condensano molti tentativi di emergere nella canzone, emergendo io finalmente in forma cantata. Lì compare la mia prima traduzione da Leonard Cohen, l’incredibile Non portartelo a casa se è duro, che rammenta quanto anche lui, perfino lui, abbia saputo essere ironico. Poi di seguito Dio è altrove, che Paolo Talanca ha segnalato come l’avvio dell’era dei Cantautori Novissimi, e Esplosioni Nucleari a Los Alamos dove l’accuratezza degli arrangiamenti di Roby Ceruti ha raggiunto la perfezione nell’epopea ambientalista della prima ora. Poi Anni Ruggenti perché ci fa presente come le epoche si ripetano e scrivendo di tempi apparentemente conclusi si narri il presente con superiore verità. E poi è davvero ironico, consiglio di ascoltare il brano Paga le tasse, Al, in cui si suggerisce al boss Capone come evitare la rovina che l’avrebbe colto in seno all’F.B.I. Un album socialmente corrosivo. Quindi il celebrato Canzoni per adulti perché ha una concentrazione di belle canzoni difficile da rimettere in fila tutte assieme. Voce perché mostra le canzoni nella loro nudità e quindi nella loro forza intrinseca. Il fantasma baciatore perché coniuga i classici omerici con traduzioni dei Rolling Stones e dei Dire Straits. Solitari perché porta il peso e la grandezza della solitudine pandemica, della ripresa faticosa, degli esiti dei coprifuochi, nonché una traduzione da Serge Gainsbourg e una dai Procol Harum.

Ho tralasciato i primi due perché sono solo su vinile e li lascio ai nuovi maniaci del vintage. Per questioni di arrangiamento sono i più lontani da me. E Archivio Postumia, che mi è vicinissimo ma purtroppo ormai introvabile, se non raccolto tutto intero di filato su YouTube. Sono stato troppo esigente? È un modo per dire: ascoltateli tutti. Perdoni l’impudenza.

Foto di Copertina: Stefania Tramarin su concessione dell’Artista