RISPOSTA NON C’È – Dalla Sibilla a Mogol

L’ottenimento di una buona risposta è come il dono di una grazia. Ma quando la risposta è negativa, meglio non averla. Si cerca di razionalizzarla, la si vuole sconfiggere mutando qualche dettaglio nel presente che comunque non influirà sul risultato, o ci si illude che la foglia di palma fosse destinata a qualcun altro. Meglio l’incertezza, l’inconsapevolezza cieca, meglio il silenzio di Dio.
Questo trasforma ogni interrogazione sul futuro in una domanda retorica. La domanda si pasce di se stessa. Diventa argomento di meditazione, koan da maestro zen. Riflessione prossima alla preghiera.

Quante strade deve percorrere un uomo
prima che tu lo chiami uomo?
E quanti mari dovrà sorvolare una colomba bianca

Prima di addormentarsi nella sabbia?
Sì, e quante volte dovranno volare le palle di cannone
Prima di essere bandite per sempre?
 
La risposta, amico mio, soffia nel vento
La risposta soffia nel vento

Questa è la prima strofa con ritornello della canzone Blowin’ in the wind, incisa da Bob Dylan nel luglio del 1962 e pubblicata l’anno dopo nell’album The Freewheelin’ Bob Dylan. Il folksinger non immagina quanta fortuna questo brano gli arrecherà nel futuro. La domanda mancante nel testo sembra essere proprio: quanto successo questa canzone avrà e quanto durare potrà? Ora sappiamo che sarebbe durato fino a oggi, chissà quanto ancora.
Varia umanità si è azzuffata intorno al brano alla ricerca di plagi e influenze. Uno studentello delle superiori del New Jersey ha cercato di accaparrarsene la paternità per poi confessare la malafede. La canzone è ispirata a uno spiritual cantato in Canada da ex-schiavi liberati, dopo l’abolizione della schiavitù in Gran Bretagna nel 1833. Nel 1978, Dylan ammette la fonte di ispirazione in un’intervista: «Blowin’ in the Wind è sempre stata uno spiritual. Presi una canzone chiamata No More Auction Block – quello è uno spiritual, e Blowin’ in the Wind ha lo stesso feeling».
Si tratta di feeling, non di più, feeling soprattutto musicale. La genialata della serie di domande retoriche lasciate a soffiare nel vento pare invece gli sia venuta da un passaggio nell’autobiografia di Woody Guthrie, Questa terra è la mia terra, in cui il mentore di Dylan paragona la sua sensibilità politica ai giornali che soffiano nel vento per le strade di New York. Bob Dylan all’epoca aveva costruito la sua personalità artistica sul modello di Guthrie, facendosene influenzare anche più di quanto il precursore stesso potesse constatare.
Così capita che nel giugno 1962, a canzone non ancora incisa, in un suo commento al testo pubblicato sulla rivista Sing Out!, Dylan dichiari:

 
«Non c’è molto che possa dire circa questa canzone tranne che “la risposta soffia nel vento”. Non è in nessun libro o film o programma TV o gruppo di discussione. È nel vento – e sta soffiando nel vento. Troppe di queste persone “hip” cercano di dirmi dove stia la risposta ma io non ci credo. Io continuo a dire che è nel vento e come un pezzo di carta svolazzante un giorno arriverà».

Ecco il pezzo di carta svolazzante di Guthrie diventare un’intera poetica. Giacché di questo si tratta: mentre i Pete Seeger e i Phil Ochs lanciano messaggi impacchettati con risposte pronte sulla bomba atomica o sulla Terza guerra mondiale, mentre con precisione vengono detti tutti i nomi e riportati i fatti di cronaca in canzoni prese direttamente dai giornali, il ventunenne di Duluth intuisce che la sua strada estetica si discosterà da tutta questa retorica per trasformarla in domande che della vaghezza facciano poesia.
Il primo disconoscimento della retorica imperante è l’inutilità di una risposta. Lasciandola a soffiare nel vento, Bob Dylan la dona allo spirito che sa (come Giovanni Paolo Secondo chioserà nel 1997 dopo l’esecuzione dal vivo della canzone il 27 settembre 1997 al Congresso Eucaristico di Bologna), sia esso di Cristo, di Apollo o del postulante stesso.
Nemmeno l’autore rimanda le domande retoriche di Blowin’ in the wind agli oracoli della Sibilla, sebbene la figura mitologica fosse già stata evocata in esergo all’iconico componimento poetico The waste land (La terra desolata) di T.S. Eliot nel 1922. Il songwriter del Minnesota nel 1962 sta ancora saccheggiando benevolmente Guthrie e l’eponimo Dylan Thomas. Passerà più tardi a Eliot e Rimbaud. Siamo solo nell’anticamera della visionarietà che attraverso Bob Dylan trasborderà massicciamente la poesia mondiale nell’ambito della canzone popolare negli anni successivi.
In Italia il paroliere Mogol, nel 1964, si esibisce in una traduzione cantata poi dai Kings, Luigi Tenco e Milly, fregandosene solo un po’ del senso originario del brano di Dylan. Se nelle intenzioni dell’autore qualcuno potrebbe prendersi quella risposta e leggersela fermando la pagina di giornale svolazzante, come l’antico postulante nell’Antro della Sibilla, nella versione di Mogol “Risposta non c’è o forse chissà, caduta nel vento sarà”. Il paroliere deputa a quel “caduta” l’impossibilità della ricezione, mentre per Dylan come per la Sibilla solo ambigua, non definitiva, sarebbe la decifrazione del responso giunto nelle mani di chi l’ha richiesto.
Il tradimento di Mogol comunque è veniale, se lo si confronta con la traduzione di Space Oddity, perpetrata dallo stesso, che l’industria pop farà cantare a David Bowie nel 1970 facendogli credere si tratti di una versione fedele all’originale in un pasticcio vocale che travisa l’autorialità della voce, garante di autenticità, ponendola a supporto di un fraintendimento colossale. Bowie era convinto di narrare la storia del suo astronauta Tom disperso nello spazio, mentre in Italia lo si ascoltava cantare di tali Ragazzo solo, ragazza sola che si incontravano finalmente, forse. Non era certo s’incontrassero mai, in verità, impregnati ancora della risposta caduta nel vento sei anni prima.
Se il messaggio della Sibilla sospinto dal vento passa attraverso i travisamenti di Babele, il povero postulante non ha proprio speranza alcuna di ottenere una risposta attendibile.