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Ascoltare Dylan in Iran – Ironia dell’ipocrisia

ASCOLTARE DYLAN IN IRAN – Ironia dell’ipocrisia
Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Bob Dylan pubblica With God on Our Side nel 1964. Una canzone tristemente ironica in cui la visione umana di Dio, tirato dalla propria parte dai vari clan che intendono giustificare la propria condotta in fatto di guerra, soprusi e atrocità, si presta a ogni insana manipolazione storica. Così lo sterminio dei nativi, la guerra ispano-americana, la guerra civile statunitense, le due Guerre mondiali, la Guerra fredda, la Shoah, e perfino il tradimento di Gesù da parte di Giuda vengono di volta in volta etichettati come cause protette se non promosse dalla volontà divina.

Oh il mio nome non è niente
La mia età conta meno ancora
Il paese da cui provengo
Si chiama Midwest
Mi hanno cresciuto lì e insegnato
Le leggi da rispettare
E quella terra in cui vivo
Ha Dio dalla sua parte

Oh, lo raccontano i libri di storia
Lo raccontano così bene
Le cavallerie caricarono
Gli indiani caddero
Le cavallerie caricarono
Gli indiani morirono
Oh, il paese era giovane
Con Dio dalla sua parte

Lo guerra ispano-americana
Ha fatto il suo tempo
E anche la guerra civile
Fu presto messa da parte
E mi son stati fatti memorizzare
I nomi degli eroi
Con le pistole in mano
E Dio dalla loro parte

La prima guerra mondiale, ragazzi
È venuta ed è andata
La ragione per combattere
Non me l’hanno mai data
Ma ho imparato ad accettarla
Accettarla con orgoglio
Perché tu non conti i morti
Quando Dio è dalla tua parte

La seconda guerra mondiale
Arrivò ad una conclusione
Perdonammo i Tedeschi
E poi fummo amici
Anche se ne hanno uccisi sei milioni
Li hanno fritti nei forni
Adesso anche i Tedeschi
Hanno Dio dalla loro parte

Ho imparato a odiare i Russi
Per tutta la mia vita
Se arriva un’altra guerra
È contro di loro che dobbiamo combattere
Per odiarli e temerli
Per scappare e nascondermi
E accettare tutto questo con coraggio
Con Dio dalla mia parte

Ma ora abbiamo le armi
Di polvere chimica
Se siamo costretti a bruciarli
Allora dovremo bruciarli
Una pressione sul pulsante
E uno sparo in tutto il mondo
E non fare mai domande
Quando Dio è dalla tua parte

Attraverso molte ore buie
Ci ho pensato
Che Gesù Cristo fu
Tradito da un bacio
Ma non posso pensare per te
Dovrai decidere tu
Se Giuda Iscariota
Aveva Dio dalla sua parte

Quindi ora mentre me ne vado
Sono stanco da morire
La confusione che sto provando
Nessuna lingua può dirla
Le parole mi riempiono la testa
E cadono sul pavimento
Che se Dio è dalla nostra parte
Fermerà la prossima guerra
A parte l’ultima strofa, la canzone trasuda ironia, figura retorica che consiste nel dichiarare l’opposto di ciò che si pensa, uno strumento straordinario contro l’ipocrisia, che consiste nel fare il contrario di ciò che si dichiara, a patto che si sia in grado di rendersi conto che di ironia si tratta. Le metafore, quando sono elevate e non si limitano a una frase ma a un intero corpus simbolico, vanno colte con l’intelligenza o finiscono per essere interpretate letteralmente mettendo in scena nonsense, quando non addirittura significati antitetici a quanto desiderato nel formularle.
Così può accadere che il video girato dai boia iraniani prima dell’esecuzione del ventitreenne Majidreza Rahnavard, giovane impiccato per aver partecipato alle proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, colpevole di non aver indossato il velo in modo corretto il 13 settembre 2022 in un luogo pubblico a Teheran, venga divulgato dai suoi giustizieri per avvalorare la sua condanna a morte senza processo. Le sue ultime volontà: «Non piangete sulla mia tomba, non leggete il Corano, non pregate. Siate gioiosi. Suonate musica allegra» diventano la prova di empietà utile a giustificare pienamente l’esecuzione. Nella mente di carnefici dediti al fanatismo religioso istituzionalizzato le parole di Majidreza non sono l’ultimo desiderio di un martire che si ribella all’oppressione integralista, bensì un’estrema ammissione di colpa. Perché Dio è dalla loro parte, come cantava Dylan, così interamente dalla loro parte da venire sconfessato sull’orlo della morte da un giovane ribelle a cotanta arrogante convinzione. Un video che avrebbe dovuto rimanere secretato per un secolo, tanta è la potenza spirituale del ragazzo che riconosce nella vitalità della musica l’essenza divina che lo anima, è invece diffuso stolidamente a testimonianza del rigore mentale, prossimo al rigor mortis, di un regime che strangola il suo popolo tra le spire della sua inflessibile quanto pretesa interpretazione della religione.
È ancora la musica, sono ancora le canzoni, come la Zombies dei Cranberries cantata dalle giovani manifestanti russe nella primavera di proteste contro la guerra in Ucraina, a segnare il distacco tra l’elasticità del pensiero libero, avvezzo all’ironia, e la fissità di quello totalitario incapace di comprenderla. Majidreza Rahnavard rammenta al mondo che il canto è preghiera, dalle piantagioni di cotone in cui nacque il blues ai gospel ritmati nelle chiese afroamericane, il canto è espressione spirituale nella forma d’arte più astratta e forse per questo più prossima al divino.
Shervin Hajipour ha vinto i Grammy Awards 2023 nella nuovissima categoria “Miglior canzone per il cambiamento sociale” con il brano Baraye, diventato un inno delle proteste in Iran dopo l’uccisione di Mahsa Amini ad opera della polizia morale. Baraye è una parola persiana che significa “per”.

Per

Per ballare nei vicoli
Per il terrore quando ci si bacia
Per mia sorella, tua sorella, le nostre sorelle
Per cambiare le menti arrugginite
Per la vergogna della povertà
Per il rimpianto di vivere una vita ordinaria
Per i bambini che si tuffano nei cassonetti e i loro desideri
Per questa economia dittatoriale
Per l’aria inquinata
Per Valiasr e i suoi alberi consumati
Per Pirooz e la possibilità della sua estinzione
Per gli innocenti cani illegali
Per le lacrime inarrestabili
Per la scena di ripetere questo momento
Per i volti sorridenti
Per gli studenti e il loro futuro
Per questo paradiso forzato
Per gli studenti d’élite imprigionati
Per i ragazzi afghani
Per tutti questi “per” che non sono ripetibili
Per tutti questi slogan senza senso
Per il crollo di edifici finti
Per la sensazione di pace
Per il sole dopo queste lunghe notti
Per le pillole contro l’ansia e l’insonnia
Per gli uomini, la patria, la prosperità
Per la ragazza che avrebbe voluto essere un ragazzo
Per le donne, la vita, la libertà
Per la libertà
Per la libertà
Per la libertà
 

Hajipour l’ha pubblicata per la prima volta su Instagram nel settembre 2022. In soli due giorni Baraye ha raccolto 40 milioni di visualizzazioni e ha dato grande notorietà all’autore attirando l’attenzione del governo iraniano che lo ha fatto arrestare e poi rilasciare su cauzione. Nel frattempo è stata cantata dai Coldplay in concerto a Buenos Aires e intonata negli stadi dei mondiali in Qatar come inno contro il giogo iraniano grazie al suo testo esplicitamente libertario, di scarsa ironia ma di urgenza esemplare.
La canzone di Shervin Hajipour potrà essere riproposta in ogni epoca e in ogni luogo senza grande fraintendimento. Non si può dire lo stesso di Dio dalla nostra parte, che per essere compresa necessita di un livello lievemente superiore alla semplice, per quanto poetica, emotività. La canzone di Bob Dylan, fosse cantata oggi in Iran, potrebbe essere presa alla lettera e usata come inno degli Ayatollah, tanto sono convinti, come altri prima di loro, che Dio sia dalla loro parte.

IL NOIR DI DYLAN – Poesia, cronaca e narrativa

IL NOIR DI DYLAN

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista 
Inchiostro

Nel 1976 Bob Dylan pubblica Desire, album del suo ritorno al successo. Secondo le parole di Allen Ginsberg: «Un Dylan nuovo, senza paranoia». Il singolo Hurricane, annoverabile tra le canzoni di denuncia, ha tutti i tratti del romanzo poliziesco alla Raymond Chandler o alla Dashiell Hammett. La tradizione della canzone tratta dagli articoli di giornale, cara ai folksinger come Woody Guthrie e lo stesso Dylan degli inizi, in questo pezzo va oltre, trasformandosi nel risultato di un’autentica inchiesta e staccandosi dall’ambito estetico pop rock per entrare nel regno dell’impegno sociale in grado di modificare gli eventi della Storia e della Giustizia.

Il protagonista del brano è il pugile Rubin Carter (1937 – 2014), detto Hurricane, ingiustamente condannato al carcere per un triplice omicidio avvenuto il 17 giugno 1966 nel New Jersey. Carter verrà scarcerato nel 1985 per volere del giudice Haddon Lee Sarokin, per poi essere completamente riabilitato nel 1988. La canzone del menestrello di Duluth ebbe un ruolo non trascurabile nell’evoluzione giudiziaria dell’innocente. L’impatto del successo mondiale della canzone, accompagnato da una campagna di stampa che implica pure una foto di Carter e Dylan separati da sbarre poste tra loro per l’occasione, sensibilizza l’opinione pubblica abbastanza da far riaprire il caso e portare, con tutta la lentezza necessaria, alla scarcerazione dell’imputato.

Ma leggiamo il testo nella bella traduzione di Fabiosroom.

Colpi di pistola rimbombano nel bar
entra Patty Valentine dal piano di sopra
vede il barista in una pozza di sangue
grida «Mio Dio! Li hanno uccisi tutti».

Ecco la storia di Uragano
l’uomo che le autorità incolparono
per qualcosa che non aveva mai fatto
lo misero in prigione ma sarebbe potuto diventare
il campione del mondo.

Patty vede tre corpi a terra
e un altro uomo di nome Bello muoversi furtivo
«Non sono stato io» dice l’uomo alzando le mani.
«Stavo solo rubando l’incasso, spero che tu capisca.
Li ho visti uscire», dice concludendo.

«Meglio che uno di noi chiami la polizia».
E così Patty chiama la polizia
che arriva sulla scena con le sue luci rosse lampeggianti
nella calda notte del New Jersey.

Intanto lontano in un’altra parte della città
Rubin Carter e un paio di amici sono in giro in auto.
Il primo sfidante per il titolo dei pesi medi
non aveva nessuna idea del guaio in cui si stava cacciando
quando un poliziotto lo fece accostare al lato della strada,
proprio come la volta prima e la volta prima ancora.
A Paterson questo è il modo in cui vanno le cose,
se sei negro è meglio che non ti faccia vedere per strada
a meno che tu non voglia passare dei guai.

Il socio di Alfred Bello aveva un conto in sospeso con la polizia.
Lui ed Arthur Dexter Bradley vagavano in cerca di una preda.
Disse «Ho visto due uomini scappare, sembravano pesi medi,
sono saltati su una macchina con targa di un altro Stato».
E la signora Patty Valentine fece solo di sì con la testa.
Il poliziotto disse «Un momento, questo qui non è morto».
Così lo portarono all’ospedale
e sebbene quell’uomo non vedesse molto bene
dissero che avrebbe potuto identificare il colpevole.

Alle quattro del mattino fermano Rubin
e lo portano all’ospedale, gli fanno salire le scale,
il ferito gli dà un’occhiata con la vista appannata
e dice «Cosa lo avete portato a fare qui? Non è lui l’uomo!»

Ecco la storia di Uragano
l’uomo che le autorità incolparono
per qualcosa che non aveva mai fatto,
lo misero in prigione ma sarebbe potuto diventare
il campione del mondo.

Quattro mesi più tardi i ghetti sono in fiamme
Rubin è in Sud America a combattere per il suo nome.
Arthur Dexter Bradley è ancora in ballo per l’affare della rapina
e i poliziotti lo seguono cercando qualcuno da incolpare.
«Ricordi quell’omicidio avvenuto in un bar?
Ricordi di aver detto di aver visto la macchina fuggire?
Ti piacerebbe collaborare con la Legge?
Credi che potrebbe essere stato quel pugile quello che scappava?
Non dimenticare che tu sei un bianco».

Arthur Dexter Bradley disse «Non ne sono sicuro».
I poliziotti dissero «È un’occasione per uno come te.
Ti abbiamo in pugno per quella storia del motel e del tuo socio Bello.
Ora tu non vorrai dover tornare in prigione, fai il bravo.
Farai un favore alla società,
quello è un figlio di puttana.
Vogliamo mettere il suo culo in prigione.
Vogliamo affibbiargli questo triplice omicidio.
Non è mica Gentleman Jim».

Rubin era in grado di far fuori un uomo con un pugno
ma non gli era mai piaciuto parlare troppo di questo.
«É il mio lavoro», diceva. «E lo faccio per i soldi.
E quando sarà finito me ne andrò veloce per la mia strada,
su, in qualche paradiso della natura
dove nuotano banchi di trote e l’aria è limpida,
e dove si può fare una corsa a cavallo lungo i sentieri».
Ma poi lo hanno messo in prigione
dove cercano di trasformare un uomo in topo.

Tutte le carte di Rubin erano segnate fin dall’inizio
il processo fu una farsa, non ebbe mai una sola possibilità.
Il giudice disse che i testimoni della difesa erano ubriaconi.
Per la gente bianca Rubin era uno straccione rivoluzionario
e per i negri era solo un negro pazzo,
nessun dubbio che fosse stato lui a premere il grilletto.
E sebbene non riuscirono a produrre l’arma del delitto
il Pubblico Ministero disse che aveva compiuto lui l’omicidio
e la giuria composta esclusivamente da bianchi fu d’accordo.

Rubin Carter fu processato con l’inganno,
fu omicidio di primo grado, indovinate chi testimoniò?
Bello e Bradley ed entrambi mentirono sfacciatamente
e tutti i giornali si gettarono a pesce sulla notizia.
Come può la vita di un tale uomo
essere nelle mani di gente così folle?
Nel vederlo così palesemente incastrato
mi sono vergognato di vivere in un Paese
dove la giustizia è un gioco.

Ora tutti quei criminali in giacca e cravatta
sono liberi di bere Martini e guardare il sole sorgere,
mentre Rubin siede come Buddha in una cella di pochi metri,
un innocente in un inferno vivente.

Questa è la storia di Uragano
ma non sarà finita finché non riabiliteranno il suo nome
e gli ridaranno indietro gli anni che ha perduto.
Lo misero in galera ma sarebbe potuto diventare
campione del mondo.

Una nota necessaria ci spinge a specificare subito che Gentleman Jim è il titolo di un film di Raoul Walsh del 1942, nel quale Errol Flynn interpreta il campione di pesi massimi James J. Corbett (1866–1933). Per il resto, il tratto secco hard boiled dell’incipit, con il suo sguardo dall’alto sulla scena del delitto, porta direttamente al bianco e nero di The touch of evil di Orson Welles, al suo piano sequenza mozzafiato, alla sua durezza visionaria. Ma rammenta pure i gangster movies come La belva umana dello stesso Walsh o Il grande sonno, noir per eccellenza di Howard Hawks alle prese con Chandler. Quest’ultimo però si avvale della irresistibile voce narrante di Humphrey Borgart mentre la terza persona in Dylan è spietata, anche se niente affatto oggettiva e super partes. Il poeta ha il chiaro intento di sollevare le coscienze in favore dell’ennesimo caso di innocenza violata, tipico meccanismo narrativo alla Alfred Hitchcock, e per farlo attinge a una estraneità iniziale che gradualmente trascolora nell’impegno personale sempre più acceso, pur esulando dalla formula in prima persona. Il suo punto di vista si erge così a giudizio comune, per la sua evidenza e per l’autorevolezza con cui è espresso attraverso il potente loop che dal La minore al Fa maggiore rilancia continuamente l’accusa verso i corrotti e gli ingiusti che hanno fatto oggetto Rubin Carter di un tale sopruso. Insieme al riff ripetitivo del violino a evocare il vento della storia che sempre riprende a soffiare in difesa degli oppressi, la voce teologale di Bob Dylan diventa Coro greco e rappresenta la coscienza di tutti coloro i quali si prendono cura dei diritti civili, si oppongono al razzismo e puntano al lieto fine in un polar normalmente votato al finale amaro.

Questo, guardando il testo dal mero punto di vista narrativo, giacché entrando nella filologia di ciascun verso si può trovare molto di più, come sempre, in un poeta giustamente premiato con il Nobel. Un esempio su tutti? Quando nel prefinale scrive che i criminali “sono liberi di bere Martini e guardare il sole sorgere”, andando a guardare bene come suona in inglese scopriamo che “are free to drink Martinis and watch the sun rise” richiama nella medesima riga due cocktail, sebbene uno vi risulti camuffato. Il Tequila Sunrise dei primi Eagles, cocktail alcolico riconosciuto ufficialmente dalla International Bartenders Association, occhieggia nell’immagine dei balordi che bevendo italiano già mirano al Messico, nuova terra di conquista per i loro loschi affari.

Questo tiene aperta la vecchia questione che la poesia in fondo abbia sempre la gamba un po’ più lunga della narrativa.

RISPOSTA NON C’È – Dalla Sibilla a Mogol

RISPOSTA NON C’È – Dalla Sibilla a Mogol

Articolo di Marco Ongaro pubblicato sulla rivista Inchiostro

Così la neve al sol si disigilla,
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.

Così Dante, nei versi 64-66 del XXXIII Canto del Paradiso, rammenta la peculiarità del responso affidato al vento nell’Antro della Sibilla, a Cuma presso Napoli o in altri luoghi ventosi deputati allo scioglimento dei suoi oracoli. La sacerdotessa ispirata da Apollo, dio della veggenza come della poesia, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma che, alla fine della predizione, erano mischiate e ingarbugliate dai venti delle cento aperture dell’antro, illudendo i destinatari sulla non definitiva pertinenza delle profezie al loro riguardo. Il messaggio era affidato al vento, dunque al caso, chissà se la risposta era davvero per loro o per il vicino. Come se non ci fosse un dio anche per il vento, il vecchio Eolo, figlio di Poseidone.
Il paradosso spaziotemporale su cui si fondano le predizioni se ne infischia di certi trucchetti. Non a caso il poeta Jean Cocteau ha intitolato la sua versione dell’Edipo, vicenda mitologica che dei responsi sancisce il beffardo trionfo, La macchina infernale. Gli Olimpici giocano col destino umano e si fanno beffe di chi cerca di sventarlo o ingannarlo ottenendo scorci di visione anticipata. Se la visione davvero penetra il futuro, lo trasforma in passato, dunque nessuna modifica è possibile. A che scopo interrogare l’oracolo?
Lo scrittore beat William Burroughs si era illuso non meno dei postulanti della Sibilla di raggirare il destino – l’arabo Mektoub: “è scritto” – tagliando e sminuzzando i testi per ricomporne le parole in connessioni casuali, perciò rivelatrici di verità oltre l’avarizia delle risposte divine. Né Burroughs né i postulanti greci hanno mai ottenuto soddisfazione all’ambigua ricerca di un responso sul futuro.
La domanda all’oracolo è la prima cugina della preghiera al dio.