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DA “KAFKIANO” A “FANTOZZIANO”: LA VIA ITALIANA AL SARCASMO BUROCRATICO

DA “KAFKIANO” A “FANTOZZIANO”: LA VIA ITALIANA AL SARCASMO BUROCRATICO

Articolo scritto da Marco Ongaro per la rivista Inchiostro

Celebrando il centenario della morte di Kafka, il pensiero non può che correre al suo erede italiano del Novecento, Paolo Villaggio.

In quanto coautore delle canzoni di Fabrizio De André Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitier e Il fannullone, nonché autore del testo, se così lo si vuol definire, della Ballata di Fantozzi di Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e Fabio Frizzi, Villaggio non sfigurerebbe in questa rubrica. Ma per una volta preferiamo esondare dalla canzone verso il più ampio mare della creazione letteraria. E quando Paolo Villaggio dichiara che “Fantozzi non è un personaggio comico, è un personaggio tragico, l’uomo più sfortunato che la letteratura italiana abbia mai avuto” è consapevole di usare il termine letteratura a proposito.

C’è una linea satirico grottesca che lega il Gogol’ del Cappotto, il Melville di Bartleby lo scrivano, il Kafka del Castello, Il Bulgakov del Maestro e Margherita, il Beckett di Aspettando Godot e il Buzzati di Sette piani al Villaggio di Fantozzi ragionier Ugo, matricola 1001/bis, come Kafka impiegato in una Compagnia di Assicurazioni, e come Kafka, all’Ufficio Sinistri. Tale linea parrebbe sgorgare dal realismo gogoliano, la grande capacità di estremizzare con venature visionario fantastiche situazioni burocratiche sullo sfondo di una desolante mediocrità umana, riassunta nell’intraducibile termine pošlost’, definito controvoglia da D.S. Mirskij come “meschinità autosoddisfatta, morale e spirituale” e da qualsiasi dizionario russo-italiano come “volgarità”. Doveva essere un principe in grado di rinunciare da giovane al proprio lignaggio come Mirskij a riconoscere questa particolare dimensione umana, foriera di peripezie bizzarre spinte all’assurdo da Beckett in personaggi incapaci di impiccarsi con la propria cintura senza che gli cadano i pantaloni.

E Villaggio è giunto buon ultimo, non necessariamente minore, in questa sequela di creatori dediti a ritrarre le miserie umane con grandi o piccoli effetti comici. Si apparenta a Kafka saltando la componente trascendentale di Buzzati per legarsi più strettamente alla concretezza impiegatizia in cui la trascendenza finisce ingoiata dalla sedicente realtà, assorbita nell’inesorabile organizzazione politica della società occidentale novecentesca.

Se Aspettando Godot debutta in teatro nel 1953, è solo due anni più tardi che troviamo Villaggio intento a scrivere testi e a fare il conduttore nella Compagnia goliardica genovese Mario Baistrocchi, laboratorio di artisti emergenti che in seguito avrebbero giganteggiato nel mondo dello spettacolo come Fabrizio De André, Enzo Tortora e Carmelo Bene. Villaggio prende parte a quasi tutte le edizioni dal 1956 al 1966, per poi farsi notare al Teatro di Piazza Marsala, a Genova, dove mette in scena gli embrioni dei suoi futuri cavalli di battaglia, tra i quali il prototipo fantozziano, l’infelice Giandomenico Fracchia capace di subire con innocenza infantile ogni sorta di angherie da colleghi e superiori.

Famiglia tutt’altro che comune quella che dà origine alla speciale creatura di nome Paolo Villaggio a Genova, il 30 dicembre del 1932, insieme al fratello gemello dizigote Piero, futuro docente alla Scuola normale superiore di Pisa. Il padre è un ingegnere edile palermitano, la madre veneziana è insegnante di tedesco. Frequenta il liceo classico e si iscrive a Giurisprudenza all’università di Genova, ma abbandona per guadagnarsi da vivere dedicandosi a svariati impieghi: da cameriere a speaker della BBC a Londra, ma anche cabarettista e intrattenitore sulle navi della Costa Crociere, insieme all’amico d’infanzia e gioventù Fabrizio De André, a Silvio Berlusconi e a Fedele Confalonieri. «Le crociere si facevano d’estate nel Mediterraneo e d’inverno ai Caraibi. Ho passato sulle navi cinque anni, mi chiamavano le petit connard, il coglioncino. Ho avuto compagni straordinari come Fabrizio De André. Saliva sul palco e davanti agli ottuagenari attaccava: Quando la morte ti chiamerà. Tutti con le mani sulle palle, uomini e donne. Mentre ai piani inferiori c’era lui, un pianista pieno di capelli umani che cantava Come prima, più di prima ti amerò. Era Silvio Berlusconi. Non era un creativo, usava le barzellette per farsi accettare, e con le donne era molto timido». Con il Berlusconi delle tv private anni più tardi i rapporti diverranno professionali, ma con un tocco sempre speciale: «Mi ha detto che sono un grande comico. Gli sono molto grato: per questo e per aver perso le ultime elezioni».

A scoprire la vena artistica di Villaggio è il giornalista e conduttore Maurizio Costanzo, che nel 1967 gli consiglia di esibirsi al Sette per otto, un noto e frequentato cabaret di Roma. «Andai. La prima sera c’era ad assistere allo spettacolo una Roma incuriosita da questo strano comico arrivato da Genova. Ricordo Garinei e Giovannini, Ugo Tognazzi, Ennio Flaiano che alla fine a forza di ridere cadde dalla poltrona». Poi al Derby di Milano, dove frequenta Giorgio Gaber e Renato Pozzetto. Nel 1967 la trasmissione radiofonica Il sabato del Villaggio. Il 4 febbraio 1968 esordisce sul piccolo schermo come conduttore del programma d’intrattenimento Quelli della domenica, scritto da Marcello Marchesi, Enrico Vaime, Italo Terzoli e dallo stesso Maurizio Costanzo. La comicità strettamente fisica dell’aggressivo e sadico Professor Kranz fa da contraltare all’umiliazione e alla sottomissione del suo primo personaggio impiegatizio e frustrato: Giandomenico Fracchia. Di lì i successi s’inanellano in una reazione a catena.

Esordisce nel cinema con Mario Monicelli in Brancaleone alle crociate e sul set si lega artisticamente a Vittorio Gassman, che lo vuole coprotagonista nel suo Senza famiglia, nullatenenti cercano affetto, per condividere poi l’interpretazione in Che c’entriamo noi con la rivoluzione? di Sergio Corbucci e partecipare con l’amico a numerose trasmissioni televisive. Negli anni Settanta pubblica libri sulle avventure di Fantozzi e altre amenità satiriche che riscuotono un entusiastico riscontro di pubblico, al punto che finalmente il personaggio approda al cinema con la regia di Luciano Salce.

«Fantozzi è il prototipo del tapino, la quintessenza della nullità». In principio ha vissuto come personaggio stampato, nato da una serie di articoli-racconto scritti da Villaggio per l’Europeo tratti dai monologhi recitati in tivù, e anche sullo schermo pare mantenere la sua natura fondamentalmente diegetica. Questa resta la sua forza, la profonda narratività che rende ciascuna scena delle pellicole materiale per ulteriore narrazione tra gli spettatori all’uscita del cinema. Paolo Villaggio è creatore di un timbro umoristico personalissimo, ed è un brillante scrittore riconosciuto da Pasolini e Umberto Eco per la potenza innovativa del suo linguaggio e per la sua facile assimilazione nella permeabilità del tessuto dialogico popolare. Lunghe frasi senza verbi, predicati aboliti in cataloghi regolati dall’irresistibile climax ridisegnano la sintassi nazionale attecchendo negli strati più popolari con sorprendente immediatezza: “Nelle prime otto ore: escursione in battello sul Tevere, visita veloce a Colosseo, San Pietro, Musei Vaticani, catacombe di Priscilla, Pantheon, piazza Navona, Fontana di Trevi, via Veneto. Arrivo in piazza di Spagna. Al posto della vescica, un’anguria”.

Con i libri e i film su Fantozzi negli anni Settanta e Ottanta la sua popolarità diventa occasione di confronto intellettuale in un calderone emotivo-culturale capace di sfogare ironicamente tensioni politiche e sociali. «Fantozzi ha liberato gli Italiani dall’incapacità di essere felici secondo i dettami della cultura consumistica», spiega Villaggio. «Lui consuma, fa vacanze, parte per la settimana bianca e torna massacrato e infelice. Come tutti gli Italiani. Fantozzi è un terapeuta che dice: tutti quelli che subiscono questo tipo di cultura sono condannati a essere infelici». La poetessa Alda Merini dirà di essere sopravvissuta alla reclusione in manicomio grazie alla lettura di Fantozzi.

Villaggio estende l’area di alienazione dalla catena di montaggio delle fabbriche ai quadri impiegatizi delle multinazionali, non più privilegiati rispetto alla classe operaia bensì tormentati senza pietà da un potere sovrannaturale che infierisce perfino con la proverbiale nuvola piovosa loro dedicata in gite e vacanze. “Ogni impiegato ne ha una. Sono nuvole maligne che stanno celate dietro le montagne anche 12 mesi, ma quando s’avvedono che il loro uomo sta per andare in ferie gli piombano sulla testa scaricandogli in nuca un quadrato di grandine in un metro per un metro e lo accompagnano implacabili”. Per Marchesi c’erano le domeniche per ammalarsi, per Villaggio la nuvola del weekend è appiccicata all’individuo anche qualora si prendesse ferie infrasettimanali.

Le disgrazie esagerate del ragioniere, l’insormontabile difficoltà con i congiuntivi, la sua ossessione del potere e l’irrefrenabile pulsione al servilismo mettono a fuoco mistificazioni diffuse che un po’ tutti, attraverso la risata, finalmente esorcizzano: “«Allora, ragioniere, che fa? Batti?» «Ma… mi dà del tu?» «No, no. Dicevo: batti lei?» «Ah, congiuntivo»”. Ben prima che l’Italia rinunciasse a usare i congiuntivi sulla scorta dell’esempio televisivo commerciale, gli ultimi fantozziani, che sono ultimi proprio perché infilati nella categoria di mezzo tra la classe operaia e quella dirigente, mero strumento inconsapevole della burocrazia, si atteggiano a una cultura che non possiedono cercando comunque di declinare i verbi secondo tempi che non padroneggiano. Un congiuntivo sbagliato in Fantozzi è un aforisma sull’inadeguatezza di un intero ceto, quando non di una intera nazione. È la “volgarità” di Gogol’ individuata da Mirskij.

Muore il 3 luglio 2017 a 84 anni a causa di complicanze respiratorie dovute al diabete. Nel frattempo Fantozzi si accomoda non senza incomprensioni, cui peraltro è abituato, nell’ufficio di sottoscala vicino ad Arlecchino, Pulcinella, Brighella, Totò, Monsieur Hulot, Mister Bean e Charlot. La commedia che sopravvive alla sua epoca diventa poesia. Dopo il suo passaggio sulla Terra, La Corazzata Potëmkin non sarà mai più un capolavoro.

C’è un che di liberatorio nella vigliaccheria rappresentata dagli scatti subito puniti del ragioniere che si assoggetta per conformarsi, lamentandosene però in privato, c’è del sublime nel riflesso fedele che il suo personaggio offre alla miseria della mediocrità. Le tentate reazioni si riversano sui suoi simili: dirette in alto finiscono inevitabilmente per ricadere verso il basso aggravando ulteriormente il fardello dei famigliari, dei colleghi, degli uscieri, dei parcheggiatori in una sorta di ordinamento immutabile nel destino dei miserabili.

Ma sono gli impiegati, i diplomati ragioniere e geometra, i non laureati però neanche del tutto analfabeti il vero bersaglio del dileggio divino. Coloro che non hanno potuto o osato innalzarsi oltre una accettabile mediocrità sono puniti con il ridicolo che per la classe operaia invece si ribalta nella resistenza cinica del Cipputi di Altan. Nel caso di Fantozzi, inguardabile la moglie, primate la figlia, sottoscala l’ufficio, procacemente ributtante l’oggetto dell’inconsumabile desiderio: la signorina Silvani. In quel “signorina” brilla come uno specchietto per allodole tutta la libertà dello stato civile, sull’orlo della zitellaggine lustrata da una autostima comunque insufficiente: “Mi conquisti, mi seduchi. Ecco… mi colghi una stella alpina”. Nella guerra tra insignificanti non si risparmiano colpi bassi, si sprecano i rimasugli di dignità e si torna a casa con la coda tra le gambe, senza perdere però la speranza di uniformarsi l’indomani alle presunte fortune altrui imitandone le aspirazioni. Ai tre bulli che lo pestano nel corso della sua prima fallimentare uscita con la signorina Silvani, Fantozzi reagisce nel modo più civile nel tentativo di salvare la faccia irrimediabilmente spaccata, e a disastro già avvenuto osa un timido: “Badi a come parli”. La frase fatta che abitualmente dà il via agli alterchi, Villaggio la pone laddove ormai non c’è rimedio, quale estrema prova di debolezza nell’istante in cui il disgraziato vibra un sussulto di dignità per non sfigurare idealmente, essendo già fisicamente sfigurato, di fronte alla donna che desidera unicamente perché è meno rassegnata di sua moglie. Il “Lei non sa chi sono io” diventa un miraggio, giacché proprio questo spera Fantozzi, che non si sappia realmente chi è, che non se ne riconosca la pochezza. A tale scopo deve mostrarsi pari, se non superiore a quelli che, se andasse a guardare bene, nell’intimo sono spesso diversi da lui per una mera mancanza di scrupoli.

L’ambizione a migliorarsi o darsi un tono con sport, diete, escursioni, feste di Capodanno, raduni conviviali e gala non viene mai meno, e in essa ogni perdizione trova sfogo per l’insufficienza intrinseca del povero snob ricacciato nel recinto della sua inferiorità sociale, culturale, economica. La dieta ideale prevede: “Per dormire, mai letti morbidi. (…) Durante la giornata bere almeno settanta litri d’acqua tiepida. Uscire per una veloce passeggiata nel bosco di sei ore, brucando molta erba. (…) Non cenare mai con tori da combattimento spagnoli”. I suggerimenti non hanno solo l’esagerazione alla base della loro comicità, hanno anche un nonsenso qua e là che, reso accetto dall’autorevolezza della disciplina intrapresa per migliorare sé stessi, disorienta l’intera struttura di saggezza sociale contrabbandata come valida. “Uscite senza salutare nessuno e partite al galoppo verso l’ippodromo più vicino per una sgambata. Per non dare nell’occhio vi consiglio di nitrire ogni duecento metri”. L’idea salubre della locuzione “per una sgambata” offre un senso di gioiosa ragionevolezza a una prescrizione folle. Quella “sgambata” serve a unire in una promessa di allegria e benessere il malcapitato che cerca disperatamente, come spiega Villaggio, di conseguire la felicità attraverso la rubrica di spassi ed esercizi di salute offerti da una società assurda e aliena. Uscire senza salutare nessuno è come tuffarsi all’improvviso nell’agone, donarsi interamente all’avventura dimagrante, con fede cieca in totale competizione con il resto del genere umano. L’impulso all’imitazione, più che al miglioramento, che lo spinge nella morsa ferrea del dietologo gli suggerisce di imitare un animale, un cavallo, per poter tornare ad avere un normale peso umano.

Non ha pretese extraterritoriali Paolo Villaggio, i suoi miserandi personaggi sono decisamente italiani, come molti bersagli flaianei, grazie all’ibrido nazionale che già per lo scrittore pescarese costituiva un affettuoso crocevia di «vorrei ma non posso». “L’Italia è un Paese di sportivi sedentari, che guardano lo sport in televisione ma non lo praticano. Lo sport nazionale è la maldicenza, che viene, invece, praticato a tutto campo”, annota. E altrove: “Gli italiani quando sono in due si confidano segreti, tre fanno considerazioni filosofiche, quattro giocano a scopa, cinque a poker, sei parlano di calcio, sette fondano un partito del quale aspirano tutti segretamente alla presidenza, otto formano un coro di montagna”, scrive Villaggio, e il coro di montagna è la peggiore delle aggregazioni, con l’impulso a condividere e primeggiare che trascina un po’ tutti verso il baratro del “tragico”, aggettivo riscritto dal creatore di Fantozzi con significato opposto, a mostrarne spietatamente il lato umoristico, incapace di suscitare commozione, costantemente teso alla ferocia del risibile.

“C’è sempre in ogni agglomerato umano l’«organizzatore di sfide calcistiche». Mentre godono fama di organizzatori, questi elementi sono in realtà solo dei criminali pericolosi e la loro monomania porta periodicamente dei padri di famiglia sull’orlo della tomba”, è aforisma forse neanche tanto iperbolico. Le diete e il calcio, il ciclismo o la settimana bianca sono occasioni di emancipazione sociale e immancabili prove negative per l’hýbris del travet. È il loro trovarsi in una classe intermedia, di mezzo, a far sì che finiscano per essere “messi in mezzo” ogni volta che qualcuno cerca di salire o tener sotto gli altri. “Soprattutto dietro agli sportelli delle banche di periferia, consumano la loro vita i «lampadati». (…) Il loro sole sono i raggi UVA di un tragico parrucchiere sotto casa. (…) Quando escono il fetido parrucchiere, che prima faceva il fornaio, dice: «Sei splendido! Sembra proprio che tu abbia fatto una vacanza a Sharm el Sheik» (…) Sotto il rosso mogano della fronte, spicca il naso rosso fuoco dei nani da circo”.

Il Duca Conte Barambani e la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare sono espressioni della superiorità fintamente democratica costretta all’ecumenismo dalla necessità di sfruttare a dovere i nuovi sudditi. La facciata civile richiede una certa ipocrisia. L’impiegato ragioniere, che nutre un’ammirazione perfida e invidiosa per chiunque gli stia al di sopra, si piega al servilismo più abietto perseguendo una mimesi impossibile con chi, essendo nato nobile, non ha bisogno di mostrarsi più di quello che è, cioè crudelmente volgare e insensibile.

“Dopo quella diamantata pazzesca la contessina Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare gli fece conoscere alcuni amici e gli presentò nell’ordine: la signora Bolla, i coniugi Bertani, la contessa Ruffino, i fratelli Gancia, Donna Folonari, il barone Ricasoli, il marchese Antinori, i Serristori Branca e i Moretti, quelli della birra. A metà di quel giro di presentazioni Fantozzi era già completamente ubriaco”.

Queste figure nobili si trasferiscono agilmente dall’aristocrazia all’elevatezza culturale senza reali differenze. Come i cittadini di Capalbio, secondo Villaggio divisi distintamente tra contadini e intellettuali: “I contadini leggono, a fatica, «Il Tirreno»; gli intellettuali, uomini e donne, vestiti rigorosamente di lino bianco e con dei candidi golfini di cachemire annodati in vita, scorrazzano con «il manifesto» o «l’Unità» sotto il braccio, che i locali credono siano scritti in turco”. Lo spettro del Bar Casablanca di Gaber/Luporini si aggira tra queste righe la cui stilizzazione è estremamente precisa. “Ogni tribù veste i costumi nazionali, gli indiani da indiani, i Masai da Masai, i capalbiesi di lino bianco”. Il sospetto che questa suddivisione non solo sia etnica ma naturale, divinamente disposta, è più reale di quanto si creda.

Perciò il Megadirettore Galattico ha sembianze e poteri ultraterreni. L’ingiustizia sociale, nell’ateo pessimismo di Paolo Villaggio, si manifesta come il risultato di un volere celeste: “C’erano due bambini molto belli, biondi, figli di ricchi; tutti i figli dei ricchi sono biondi e eguali, i figli dei braccianti calabresi sono scuri e diseguali”. Qui spira l’influenza della cultura dell’epoca, con echi gaberiani di Signor G. Ovviamente l’insinuazione che Dio abbia voluto le diseguaglianze che portano all’oppressione è una critica a chi sfrutta la fede per mantenere lo statu quo, secondo una tecnica satirica di grande tradizione. “Temo che il Papa non creda in Dio” è invece la dichiarazione più potente contro tale fede. Ma le differenze sono le benvenute e proprio Fantozzi ne ha espresso, immolandosi, la ragion d’essere. “Perché ha avuto quella fortuna enorme?”, dice Villaggio. “Perché finalmente criticava questa imposizione: doversi travestire da tutti”. E lo Zelig di Woody Allen, il “camaleonte umano” uscito nel 1983, pur nella sua rarefatta sofisticatezza, non può dirsi del tutto innocente quanto a ispirazione.

La compagine soprannaturale fissa lo stato delle cose in forma inamovibile, dunque Paolo Villaggio è portato a ricercarne il comune denominatore in un’animalità primordiale, una condizione ancestrale che designa la raffinatezza voluta e non accessibile ai Fantozzi come un’illusione dell’Homo sapiens sapiens incapace di staccarsi dalle sue origini bestiali. L’unica verità che si staglia a distinzione degli esseri umani, italiani a paradigma del cosmo, è l’ammissione della loro sordida animalità. In questo effetto comico, da alcuni considerato facile per la sua volgarità, si trova invece la massima critica e comprensione dell’umano costretto a fingersi evoluto in un mondo mai emancipatosi dalla giungla. “Non ho paura degli attentati ma degli aliti terrificanti e indescrivibili che hanno gli Italiani di tutte le estrazioni sociali” orienta l’obiettivo in alto. Ma non tarda ad abbassarsi poi verso altre espressioni dell’infelicità dei corpi: “I mammiferi esperti di calcio che si fanno trasportare dai mezzi pubblici ne approfittano ignobilmente per scoreggiare come elefanti africani. Non sono scoregge rumorose perché hanno messo a punto una tecnica raffinata: il terrificante soffione con effetti devastanti. Ho visto due anziane signore di Liverpool piangere in silenzio, poi chiedere aiuto e infine buttarsi dai finestrini in corsa”. Siamo sicuri che gli hooligans siano avulsi da tali abitudini? Un sotteso lascito rabelaisiano attraversa gli scritti meno concessivi di Paolo Villaggio, un monito che trova il coraggio di allertare l’intera umanità sulla sua scarsa evoluzione: “Non fate mai l’errore madornale di fare i vostri bisogni negli insidiosissimi cessi detti “alla turca”, nei quali vengono risucchiati ogni anno una cinquantina di giovani”.

Nell’identificare Paolo Villaggio con la sua creatura più famosa non si usa alcuna delle iperboli che della sua neolingua sono l’ossatura: i “mostruoso”, i “tragico” e i “pazzesco” entrati grazie a lui nel lessico comune come elementi pertinenti al buffo, al burlesco, al sarcastico. È l’aggettivo “fantozziano”, entrato come sinonimo di grottesco e tragicomico nel dizionario nazionale, a designarsi quale evoluzione tutta italiana e novecentesca di “kafkiano”. Eredità indubbia del suo celebre precursore.

Tutto il folle amore di Pier Paolo Pasolini – Da Velásquez a Modugno

TUTTO IL FOLLE AMORE DI PIER PAOLO PASOLINI
Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Che cosa sono le nuvole?, il titolo dell’episodio firmato Pier Paolo Pasolini nel film collettivo Capriccio all’italiana, in cui il poeta compare come regista insieme a Monicelli, Steno, Bolognini, Pino Zac e Franco Rossi, si staglia all’inizio su una fascetta da annuncio cinematografico posta su un manifesto che riproduce Las meninas di Diego Velásquez. Perché scegliere a emblema del cortometraggio il quadro del 1656, chiamato in italiano Le damigelle d’onore? Forse perché il dipinto al Museo del Prado di Madrid instaura un gioco di specchi che confonde lo spettatore, posto in una stanza in cui davanti all’immagine si trova a sua volta uno specchio. L’autoritratto del pittore lo mostra mentre dipinge l’Infanta e le damigelle fissando un grande specchio dove in verità si trova l’osservatore, lastra d’argento che ritrae uno specchio più piccolo sullo sfondo dove i regnanti ammirano non visti la scena. O sono esattamente loro l’oggetto del ritratto? In tal caso non avrebbe senso la posa in cui le bambine sembrano immortalate in uno dei quadri prospetticamente più ingannevoli della storia dell’arte. Giù in fondo, un uomo segue la scena da una porta spalancata che getta la luce del giorno sull’intera opulenta visione di un ritratto che si ritrae da sé. Pier Paolo Pasolini ha scelto questa festa di mise en abyme per rappresentare la sua storia, somma circonvoluzione di una profondissima eco figurativa, un effetto all’infinito di teatro nel teatro, nella fattispecie di marionette, in cui la recita narra la contraddittoria avventura del vivere, dal suo inizio all’attimo estremo attraverso un copione scespiriano omogeneizzato per il popolo.
Il testo della canzone che accompagna e contrappunta il breve film è scritto da Pier Paolo Pasolini e musicato e cantato da Domenico Modugno, che interpreta un “mondezzaro” in diretto rapporto tra il teatro dei pupi e una discarica a cielo aperto, becchino di basso rango, Caronte munito di camioncino raccogli rifiuti. La pellicola, girata nella primavera del 1967 e diffusa al cinema nel 1968, con Ninetto Davoli, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Laura Betti, Adriana Asti e Carlo Pisacane, l’indimenticato Capannelle de I soliti ignoti, è l’ultima interpretata da Totò, che morirà prima della sua uscita. Tutte maschere attoriali che impersonano altrettante marionette nella sarabanda metaforica dell’esistenza, in cui si viene al mondo e si muore agendo a dispetto della propria volontà, mossi da fili invisibili che obbligano a scelte indesiderate. La rappresentazione della vita e delle sue tragedie comprende e si focalizza in piccolo nell’Otello di William Shakespeare, una riproposizione popolare che include l’epilogo tipico della sceneggiata napoletana in cui il pubblico di bassissimo ceto interagisce linciando i cattivi, Iago e Otello, e portando in trionfo il buon Cassio.
Il dentro e fuori dalla “tragedia umana” è esemplificato nei dialoghi dietro le quinte, quando i personaggi non agiti dal burattinaio liberamente filosofano sulla verità, sulla vita, sull’amore, sulla cattiveria, senza che tale consapevolezza intervenga poi sulla scena a influenzare il modello prefissato del loro agire. Shakespeare è citato da Totò/Iago, «Siamo un sogno dentro a un sogno», per spiegare a Ninetto Davoli/Otello l’insensatezza delle loro azioni sulla ribalta. L’effimera libertà permette loro una comprensione che priva Totò della malvagità e permette a Ninetto Davoli interrogativi fuori copione. E perfino il burattinaio, vice-demiurgo vestito da commesso, insinua spiegazioni rozzamente psicoanalitiche, «Forse perché Otello vuole uccidere Desdemona… forse perché Desdemona vuole essere ammazzata», insistendo però sul “forse”. Pur tirando i fili, nemmeno lui ha una cognizione autentica del mistero dell’esistere.
Quando si torna in scena, il testo va seguito inesorabile e Laura Betti/Desdemona deve morire anche se innocente, uccisa da un Otello riluttante eppure condannato alle reazioni passionali che dietro le quinte non riconosce valide. L’abisso allestito da Pasolini è senza fondo. A muovere le marionette potrebbero essere gli dei – come dice Jean Cocteau «Gli dei esistono, sono il diavolo» – o il diavolo stesso nella sua emanazione deleteria chiamata passioni umane, gelosia, invidia, omicidio o, segnatamente, femminicidio.
Oltre alla grandezza poetica dell’operazione in sé, oltre alla significazione vertiginosa di vedere maschere pubbliche come Franco, Ciccio, Capannelle e Totò interpretare maschere scespiriane in forma di marionetta, oltre a una scelta di colori e costumi di rara bellezza filmica – Totò/Iago è letteralmente verde di invidia – oltre a una vicinanza estrema al pensiero del regista e dei suoi personaggi attraverso l’escamotage del dentro e fuori scena, con l’osceno che appare saggio e il rappresentato che risulta assurdo, il miracolo di questo capolavoro allarga la vorticosa voragine in una esterrefatta riflessione sull’esistenza, semplificata come un dialogo platonico riscritto per gente di periferia. Se Pier Paolo Pasolini voleva essere vicino agli ultimi e condividere con loro la genuinità della sua immensa cultura, niente avrebbe potuto ottenere un risultato migliore, apparentabile forse, pur nella minore umiltà, all’episodio La ricotta censurato dal film Ro.Go.Pa.G. del 1963.
Nell’operazione di avvicinamento ecumenico ai più sprovveduti spettatori del mondo s’inserisce l’elemento canzone, forma d’arte minore, modesta per sua natura, interpretata da Mister Volare, eclatante maschera dell’universo canoro internazionale non estranea al mondo dei pupi siciliani in quanto glorioso interprete del Rinaldo in campo di Garinei e Giovannini nel 1961. Dal casting alla canzone-collante dell’episodio, nulla è stato lasciato al caso. Il brano musicato da Modugno con il suo magnifico afflato dona al folle amore perduto uno struggimento lirico irresistibile.

Cosa sono le nuvole?

Che io possa esser dannato
se non ti amo
e se così non fosse
non capirei più niente.
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.

Ah, ma l’erba soavemente delicata
di un profumo che dà gli spasimi!
Ah, ah, tu non fossi mai nata!
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.

Il derubato che sorride
ruba qualcosa al ladro
ma il derubato che piange
ruba qualcosa a se stesso.
Perciò io vi dico
finché sorriderò
tu non sarai perduta.

Ma queste son parole
e non ho mai sentito
che un cuore, un cuore affranto
si cura con l’udito.
E tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.

Il protagonista della canzone soffre per amore ma rammenta che, se il derubato deve ridere del furto subìto per sentirsi meno derubato, l’innamorato abbandonato sorridendo del proprio destino avvertirà meno la perdita dell’amata. Una semplice strategia sconfessata dallo stesso poeta nel riconoscere al canto elegiaco scarsa efficacia: «Non ho mai sentito che un cuore, un cuore affranto si cura con l’udito».
Però che cosa sono le nuvole? Come quelle dei fumetti, sono i veicoli dei versi e del folle amore soffiato via dal cielo, presente nelle mille sue forme cangianti, nella straordinarietà di contenitori di lacrime celesti riavvolte in affascinanti pareidolie. L’esclamazione messa in bocca alla marionetta Totò nel finale, quando i due cadaveri non morti trasfigurano il terrore del trapasso nell’esperienza estetica ammirando le nuvole, «Ah straziante meravigliosa bellezza del creato», è la diretta asserzione del regista intento a sopire la tragedia esistenziale con una attenuazione tutta greca dell’orrore trascolorato nella bellezza. Il poeta, anche se sa che le parole non curano, non esita a usarle per attutire il brivido tra vita e morte. Lo stesso fa nella canzone lasciandosi andare all’estasi dell’erba «soavemente delicata di un profumo che dà gli spasimi».
Come Piero Ciampi ne Il vino, tre anni più tardi, caduto ubriaco in un fosso canta «e in mezzo all’acqua sporca mi godo queste stelle», o come la favoletta zen narra del disperato che tra il dirupo e le minacciose tigri sopra e sotto, abbarbicato a una vite rosicchiata dai topi riesce ad assaporare la squisitezza di una fragola sul ciglio del burrone, così le marionette morte eppure vive, abbandonate dal “mondezzaro” innamorato a fissare la meraviglia da una discarica affacciata sul cielo, apprezzano il prodigio incommensurabile delle nuvole, foriere di nuance, imprendibili creatrici di immagini fantasiose celebrate poi nel 1990 da una anziana voce femminile ne Le nuvole di Fabrizio De André. L’addomesticamento artistico dell’orrore teorizzato da Friedrich Nietzsche è offerto al pubblico nella sua prospettiva più ordinaria. Nel travaglio costante tra alto e basso, tra cielo e discarica, tra passioni umane e stupefazione estetica, sta la sintesi sublime di un grande drammaturgo classico moderno di nome Pier Paolo Pasolini.

SUZANNE: LA PRIMA IMPRESSIONE SU LEONARD COHEN

SUZANNE – La prima impressione su Leonard Cohen

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista 
Inchiostro

Mai trascurare la prima impressione: è uno scrigno in cui ciascun gioiello nel mucchio gradualmente mostra il suo splendore. Guardi l’opera di un autore dopo la sua morte e ne noti l’imponenza. I brani più vicini al presente sono lì, più leggeri di quelli remoti che il tempo avrebbe dovuto lasciar scolorire. Le prime perle rilucono ancora intatte. L’incontro iniziale con una mente è sempre un’esperienza che mette alla prova l’interpretazione. L’impatto con la poesia di qualcuno è un esame sulla sua capacità di raggiungerti e sul tuo potere di decifrarla.

Il primo approccio a Leonard Cohen suscita sempre una sensazione di inadeguatezza. L’intelligenza dei suoi versi, anche della prosa dei suoi libri precedenti alle canzoni, rimanda a sottintesi che sembrano surclassare la tua capacità di comprendere, a concetti confinati in una zona impervia e inaccessibile. Sentimenti non detti ti sono sussurrati improvvisamente senza pudore. E usiamo il “tu” impersonale come lo usa lui in uno dei suoi brani più famosi: Suzanne. Ascoltando il racconto sulla mezza pazza, sciamanica folle capace di toccarti il corpo con la mente, l’impressione è che qualcosa sfugga alla tua comprensione, lo stesso vale per il Cristo descritto nella medesima canzone, dotato di qualcosa d’inafferrabile. Questa imprendibilità è parte del fascino segreto di Leonard Cohen.

Suzanne takes you down
To her place near the river
You can hear the boats go by
You can spend the night beside her
And you know that she’s half crazy
But that’s why you want to be there
And she feeds you tea and oranges
That come all the way from China
And just when you mean to tell her
That you have no love to give her
Then she gets you on her wavelength
And she lets the river answer
That you’ve always been her lover

And you want to travel with her
And you want to travel blind
And you know that she will trust you
For you’ve touched her perfect body with your mind

And Jesus was a sailor
When he walked upon the water
And he spent a long time watching
From his lonely wooden tower
And when he knew for certain
Only drowning men could see him
He said, “All men will be sailors then
Until the sea shall free them”
But he himself was broken
Long before the sky would open
Forsaken, almost human
He sank beneath your wisdom like a stone

And you want to travel with him
And you want to travel blind
And you think maybe you’ll trust him
For he’s touched your perfect body with his mind

Now, Suzanne takes your hand
And she leads you to the river
She is wearing rags and feathers
From Salvation Army counters
And the sun pours down like honey
On our lady of the harbor
And she shows you where to look
Among the garbage and the flowers
There are heroes in the seaweed
There are children in the morning
They are leaning out for love
And they will lean that way forever
While Suzanne holds the mirror

And you want to travel with her
And you want to travel blind
And you know that you can trust her
For she’s touched your perfect body with her mind

Senza riportare per esteso la traduzione letterale di un brano pubblicato da Cohen nel 1967, reso famoso in Italia dalla versione di Fabrizio De André del 1972, basta leggere

E quando seppe per certo / Che solo gli uomini che annegavano potevano vederlo / Disse: “Allora tutti gli uomini saranno marinai / Finché il mare non li libererà” / Ma lui stesso era a pezzi / Molto prima che il cielo si aprisse / Abbandonato, quasi umano / Affondò sotto la tua saggezza come una pietra

per notare come quel Gesù della seconda strofa, inserito tra due strofe dedicate alla già eterea e insondabile protagonista, si accorga della sua limitata influenza concreta scoprendo che solo gli uomini annegati possono vederlo. Il Cristo è un fantasma visto dagli spiriti dei naufragati, un fallito già ben prima che il cielo si apra per lui, un marinaio votato all’affogamento, un morto vivente che parla a morti inconsapevoli racchiusi in corpi vivi, bagnato della stessa stravaganza di Suzanne che con i suoi versi lo incornicia. Quasi umano, come lo sono i mezzi pazzi, come l’intestataria del brano, è un abbandonato che affonda sotto il peso della “tua” saggezza.

E riecco il “tu” impersonale. Ecco che la “tua” saggezza si mostra difettosa, incapace di cogliere le marezzature di una immaterialità superiore, e ti rende colpevole dell’affondamento dello spirito più disinteressato nella storia dell’uomo. Poco importa se in quel “tu” l’autore include pure se stesso. Ciò che a Cohen sfugge diviene poesia, ciò che a “te” sfugge della sua poesia diviene senso di inadeguatezza. E allora che fai?

E tu vuoi viaggiare con lui / Vuoi viaggiare cieco / E pensi che forse ti fiderai di lui / Perché ha toccato il tuo corpo perfetto / Con la sua mente

Cristo come Suzanne, e come Cohen stesso, ti affascina per quel tanto di indefinibile che ti lega a lui. La presunta perfezione del tuo corpo è attratta come una marionetta di latta dalla magnetica imperfezione, incomprensibile, della sua mente che si appropria della tua volontà avvolgendoti in un mistero insolubile fatto di aldilà e di aldiquà.

Vuoi seguirlo nell’area intermedia in cui il poeta si muove agevolmente, attraverso il passaggio privilegiato che Jean Cocteau individua negli specchi, dove viaggia l’imprecisabile e liquida Suzanne, che uno specchio stringe non a caso nell’ultimo verso dell’ultima strofa, la zona di cui Gesù, destinato a risorgere perché mai appartenuto interamente alla solidità del mondo, è indiscusso mistagogo. In un brano solo, in un ritornello che è un biglietto da visita, Cohen raggruppa la trascendenza, la bellezza, l’amore e la poesia, stimolando nell’ascoltatore al primo impatto la sensazione di essere al cospetto di un segreto mai del tutto svelato.

L’immagine della mente malferma di Suzanne incastona in sé il potere ultramondano di Gesù suggerendo un’affinità tra la mezza follia e la mezza divinità. Già il poeta provenzale Arnaut Daniel, cantato da Dante nel Purgatorio, abbinava versi d’innamoramento e versi religiosamente ispirati, idea da trovatori esperti. Non è una novità l’accostamento dei due mondi nell’autorevole Cantico dei cantici, che si trova nella Bibbia. In Suzanne, Cohen aggiunge la spiegazione del meccanismo responsabile della gravitazione tra queste due sfere ineffabili e necessarie, e nel farlo delinea il sortilegio che “ti” legherà alla sua poetica da lì in avanti.

Come Suzanne, l’autore ti insegna dove guardare tra le immondizie e i fiori. Lei, una dolce donna di cui senza volerlo sei sempre stato amante, pronta inizialmente a seguirti come invece alla fine sarai tu a fare; Gesù, un quasi umano in sintonia con gli spettri e con la fallibilità del reale; Cohen un aedo che avvicina dettagli insospettati, come Cesare Pavese suggeriva fosse compito del poeta; e poi “tu”, che sei un po’ tutti loro se solo ti alleggerisci della gravità di una saggezza solida e inamovibile: in questa miscela, la prima impressione “ti” attanaglia per sempre.

Le informazioni extratestuali che si possono leggere su Wikipedia, su chi fosse Suzanne e sulle dichiarazioni successive, sono storicizzazione cronachistica inutile alla comprensione della canzone. Ogni poesia degna di tale nome nasce da qualcosa e se ne affranca per sempre.