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Tutto il folle amore di Pier Paolo Pasolini – Da Velásquez a Modugno

TUTTO IL FOLLE AMORE DI PIER PAOLO PASOLINI
Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Che cosa sono le nuvole?, il titolo dell’episodio firmato Pier Paolo Pasolini nel film collettivo Capriccio all’italiana, in cui il poeta compare come regista insieme a Monicelli, Steno, Bolognini, Pino Zac e Franco Rossi, si staglia all’inizio su una fascetta da annuncio cinematografico posta su un manifesto che riproduce Las meninas di Diego Velásquez. Perché scegliere a emblema del cortometraggio il quadro del 1656, chiamato in italiano Le damigelle d’onore? Forse perché il dipinto al Museo del Prado di Madrid instaura un gioco di specchi che confonde lo spettatore, posto in una stanza in cui davanti all’immagine si trova a sua volta uno specchio. L’autoritratto del pittore lo mostra mentre dipinge l’Infanta e le damigelle fissando un grande specchio dove in verità si trova l’osservatore, lastra d’argento che ritrae uno specchio più piccolo sullo sfondo dove i regnanti ammirano non visti la scena. O sono esattamente loro l’oggetto del ritratto? In tal caso non avrebbe senso la posa in cui le bambine sembrano immortalate in uno dei quadri prospetticamente più ingannevoli della storia dell’arte. Giù in fondo, un uomo segue la scena da una porta spalancata che getta la luce del giorno sull’intera opulenta visione di un ritratto che si ritrae da sé. Pier Paolo Pasolini ha scelto questa festa di mise en abyme per rappresentare la sua storia, somma circonvoluzione di una profondissima eco figurativa, un effetto all’infinito di teatro nel teatro, nella fattispecie di marionette, in cui la recita narra la contraddittoria avventura del vivere, dal suo inizio all’attimo estremo attraverso un copione scespiriano omogeneizzato per il popolo.
Il testo della canzone che accompagna e contrappunta il breve film è scritto da Pier Paolo Pasolini e musicato e cantato da Domenico Modugno, che interpreta un “mondezzaro” in diretto rapporto tra il teatro dei pupi e una discarica a cielo aperto, becchino di basso rango, Caronte munito di camioncino raccogli rifiuti. La pellicola, girata nella primavera del 1967 e diffusa al cinema nel 1968, con Ninetto Davoli, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Laura Betti, Adriana Asti e Carlo Pisacane, l’indimenticato Capannelle de I soliti ignoti, è l’ultima interpretata da Totò, che morirà prima della sua uscita. Tutte maschere attoriali che impersonano altrettante marionette nella sarabanda metaforica dell’esistenza, in cui si viene al mondo e si muore agendo a dispetto della propria volontà, mossi da fili invisibili che obbligano a scelte indesiderate. La rappresentazione della vita e delle sue tragedie comprende e si focalizza in piccolo nell’Otello di William Shakespeare, una riproposizione popolare che include l’epilogo tipico della sceneggiata napoletana in cui il pubblico di bassissimo ceto interagisce linciando i cattivi, Iago e Otello, e portando in trionfo il buon Cassio.
Il dentro e fuori dalla “tragedia umana” è esemplificato nei dialoghi dietro le quinte, quando i personaggi non agiti dal burattinaio liberamente filosofano sulla verità, sulla vita, sull’amore, sulla cattiveria, senza che tale consapevolezza intervenga poi sulla scena a influenzare il modello prefissato del loro agire. Shakespeare è citato da Totò/Iago, «Siamo un sogno dentro a un sogno», per spiegare a Ninetto Davoli/Otello l’insensatezza delle loro azioni sulla ribalta. L’effimera libertà permette loro una comprensione che priva Totò della malvagità e permette a Ninetto Davoli interrogativi fuori copione. E perfino il burattinaio, vice-demiurgo vestito da commesso, insinua spiegazioni rozzamente psicoanalitiche, «Forse perché Otello vuole uccidere Desdemona… forse perché Desdemona vuole essere ammazzata», insistendo però sul “forse”. Pur tirando i fili, nemmeno lui ha una cognizione autentica del mistero dell’esistere.
Quando si torna in scena, il testo va seguito inesorabile e Laura Betti/Desdemona deve morire anche se innocente, uccisa da un Otello riluttante eppure condannato alle reazioni passionali che dietro le quinte non riconosce valide. L’abisso allestito da Pasolini è senza fondo. A muovere le marionette potrebbero essere gli dei – come dice Jean Cocteau «Gli dei esistono, sono il diavolo» – o il diavolo stesso nella sua emanazione deleteria chiamata passioni umane, gelosia, invidia, omicidio o, segnatamente, femminicidio.
Oltre alla grandezza poetica dell’operazione in sé, oltre alla significazione vertiginosa di vedere maschere pubbliche come Franco, Ciccio, Capannelle e Totò interpretare maschere scespiriane in forma di marionetta, oltre a una scelta di colori e costumi di rara bellezza filmica – Totò/Iago è letteralmente verde di invidia – oltre a una vicinanza estrema al pensiero del regista e dei suoi personaggi attraverso l’escamotage del dentro e fuori scena, con l’osceno che appare saggio e il rappresentato che risulta assurdo, il miracolo di questo capolavoro allarga la vorticosa voragine in una esterrefatta riflessione sull’esistenza, semplificata come un dialogo platonico riscritto per gente di periferia. Se Pier Paolo Pasolini voleva essere vicino agli ultimi e condividere con loro la genuinità della sua immensa cultura, niente avrebbe potuto ottenere un risultato migliore, apparentabile forse, pur nella minore umiltà, all’episodio La ricotta censurato dal film Ro.Go.Pa.G. del 1963.
Nell’operazione di avvicinamento ecumenico ai più sprovveduti spettatori del mondo s’inserisce l’elemento canzone, forma d’arte minore, modesta per sua natura, interpretata da Mister Volare, eclatante maschera dell’universo canoro internazionale non estranea al mondo dei pupi siciliani in quanto glorioso interprete del Rinaldo in campo di Garinei e Giovannini nel 1961. Dal casting alla canzone-collante dell’episodio, nulla è stato lasciato al caso. Il brano musicato da Modugno con il suo magnifico afflato dona al folle amore perduto uno struggimento lirico irresistibile.

Cosa sono le nuvole?

Che io possa esser dannato
se non ti amo
e se così non fosse
non capirei più niente.
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.

Ah, ma l’erba soavemente delicata
di un profumo che dà gli spasimi!
Ah, ah, tu non fossi mai nata!
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.

Il derubato che sorride
ruba qualcosa al ladro
ma il derubato che piange
ruba qualcosa a se stesso.
Perciò io vi dico
finché sorriderò
tu non sarai perduta.

Ma queste son parole
e non ho mai sentito
che un cuore, un cuore affranto
si cura con l’udito.
E tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.

Il protagonista della canzone soffre per amore ma rammenta che, se il derubato deve ridere del furto subìto per sentirsi meno derubato, l’innamorato abbandonato sorridendo del proprio destino avvertirà meno la perdita dell’amata. Una semplice strategia sconfessata dallo stesso poeta nel riconoscere al canto elegiaco scarsa efficacia: «Non ho mai sentito che un cuore, un cuore affranto si cura con l’udito».
Però che cosa sono le nuvole? Come quelle dei fumetti, sono i veicoli dei versi e del folle amore soffiato via dal cielo, presente nelle mille sue forme cangianti, nella straordinarietà di contenitori di lacrime celesti riavvolte in affascinanti pareidolie. L’esclamazione messa in bocca alla marionetta Totò nel finale, quando i due cadaveri non morti trasfigurano il terrore del trapasso nell’esperienza estetica ammirando le nuvole, «Ah straziante meravigliosa bellezza del creato», è la diretta asserzione del regista intento a sopire la tragedia esistenziale con una attenuazione tutta greca dell’orrore trascolorato nella bellezza. Il poeta, anche se sa che le parole non curano, non esita a usarle per attutire il brivido tra vita e morte. Lo stesso fa nella canzone lasciandosi andare all’estasi dell’erba «soavemente delicata di un profumo che dà gli spasimi».
Come Piero Ciampi ne Il vino, tre anni più tardi, caduto ubriaco in un fosso canta «e in mezzo all’acqua sporca mi godo queste stelle», o come la favoletta zen narra del disperato che tra il dirupo e le minacciose tigri sopra e sotto, abbarbicato a una vite rosicchiata dai topi riesce ad assaporare la squisitezza di una fragola sul ciglio del burrone, così le marionette morte eppure vive, abbandonate dal “mondezzaro” innamorato a fissare la meraviglia da una discarica affacciata sul cielo, apprezzano il prodigio incommensurabile delle nuvole, foriere di nuance, imprendibili creatrici di immagini fantasiose celebrate poi nel 1990 da una anziana voce femminile ne Le nuvole di Fabrizio De André. L’addomesticamento artistico dell’orrore teorizzato da Friedrich Nietzsche è offerto al pubblico nella sua prospettiva più ordinaria. Nel travaglio costante tra alto e basso, tra cielo e discarica, tra passioni umane e stupefazione estetica, sta la sintesi sublime di un grande drammaturgo classico moderno di nome Pier Paolo Pasolini.

SUZANNE: LA PRIMA IMPRESSIONE SU LEONARD COHEN

SUZANNE – La prima impressione su Leonard Cohen

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista 
Inchiostro

Mai trascurare la prima impressione: è uno scrigno in cui ciascun gioiello nel mucchio gradualmente mostra il suo splendore. Guardi l’opera di un autore dopo la sua morte e ne noti l’imponenza. I brani più vicini al presente sono lì, più leggeri di quelli remoti che il tempo avrebbe dovuto lasciar scolorire. Le prime perle rilucono ancora intatte. L’incontro iniziale con una mente è sempre un’esperienza che mette alla prova l’interpretazione. L’impatto con la poesia di qualcuno è un esame sulla sua capacità di raggiungerti e sul tuo potere di decifrarla.

Il primo approccio a Leonard Cohen suscita sempre una sensazione di inadeguatezza. L’intelligenza dei suoi versi, anche della prosa dei suoi libri precedenti alle canzoni, rimanda a sottintesi che sembrano surclassare la tua capacità di comprendere, a concetti confinati in una zona impervia e inaccessibile. Sentimenti non detti ti sono sussurrati improvvisamente senza pudore. E usiamo il “tu” impersonale come lo usa lui in uno dei suoi brani più famosi: Suzanne. Ascoltando il racconto sulla mezza pazza, sciamanica folle capace di toccarti il corpo con la mente, l’impressione è che qualcosa sfugga alla tua comprensione, lo stesso vale per il Cristo descritto nella medesima canzone, dotato di qualcosa d’inafferrabile. Questa imprendibilità è parte del fascino segreto di Leonard Cohen.

Suzanne takes you down
To her place near the river
You can hear the boats go by
You can spend the night beside her
And you know that she’s half crazy
But that’s why you want to be there
And she feeds you tea and oranges
That come all the way from China
And just when you mean to tell her
That you have no love to give her
Then she gets you on her wavelength
And she lets the river answer
That you’ve always been her lover

And you want to travel with her
And you want to travel blind
And you know that she will trust you
For you’ve touched her perfect body with your mind

And Jesus was a sailor
When he walked upon the water
And he spent a long time watching
From his lonely wooden tower
And when he knew for certain
Only drowning men could see him
He said, “All men will be sailors then
Until the sea shall free them”
But he himself was broken
Long before the sky would open
Forsaken, almost human
He sank beneath your wisdom like a stone

And you want to travel with him
And you want to travel blind
And you think maybe you’ll trust him
For he’s touched your perfect body with his mind

Now, Suzanne takes your hand
And she leads you to the river
She is wearing rags and feathers
From Salvation Army counters
And the sun pours down like honey
On our lady of the harbor
And she shows you where to look
Among the garbage and the flowers
There are heroes in the seaweed
There are children in the morning
They are leaning out for love
And they will lean that way forever
While Suzanne holds the mirror

And you want to travel with her
And you want to travel blind
And you know that you can trust her
For she’s touched your perfect body with her mind

Senza riportare per esteso la traduzione letterale di un brano pubblicato da Cohen nel 1967, reso famoso in Italia dalla versione di Fabrizio De André del 1972, basta leggere

E quando seppe per certo / Che solo gli uomini che annegavano potevano vederlo / Disse: “Allora tutti gli uomini saranno marinai / Finché il mare non li libererà” / Ma lui stesso era a pezzi / Molto prima che il cielo si aprisse / Abbandonato, quasi umano / Affondò sotto la tua saggezza come una pietra

per notare come quel Gesù della seconda strofa, inserito tra due strofe dedicate alla già eterea e insondabile protagonista, si accorga della sua limitata influenza concreta scoprendo che solo gli uomini annegati possono vederlo. Il Cristo è un fantasma visto dagli spiriti dei naufragati, un fallito già ben prima che il cielo si apra per lui, un marinaio votato all’affogamento, un morto vivente che parla a morti inconsapevoli racchiusi in corpi vivi, bagnato della stessa stravaganza di Suzanne che con i suoi versi lo incornicia. Quasi umano, come lo sono i mezzi pazzi, come l’intestataria del brano, è un abbandonato che affonda sotto il peso della “tua” saggezza.

E riecco il “tu” impersonale. Ecco che la “tua” saggezza si mostra difettosa, incapace di cogliere le marezzature di una immaterialità superiore, e ti rende colpevole dell’affondamento dello spirito più disinteressato nella storia dell’uomo. Poco importa se in quel “tu” l’autore include pure se stesso. Ciò che a Cohen sfugge diviene poesia, ciò che a “te” sfugge della sua poesia diviene senso di inadeguatezza. E allora che fai?

E tu vuoi viaggiare con lui / Vuoi viaggiare cieco / E pensi che forse ti fiderai di lui / Perché ha toccato il tuo corpo perfetto / Con la sua mente

Cristo come Suzanne, e come Cohen stesso, ti affascina per quel tanto di indefinibile che ti lega a lui. La presunta perfezione del tuo corpo è attratta come una marionetta di latta dalla magnetica imperfezione, incomprensibile, della sua mente che si appropria della tua volontà avvolgendoti in un mistero insolubile fatto di aldilà e di aldiquà.

Vuoi seguirlo nell’area intermedia in cui il poeta si muove agevolmente, attraverso il passaggio privilegiato che Jean Cocteau individua negli specchi, dove viaggia l’imprecisabile e liquida Suzanne, che uno specchio stringe non a caso nell’ultimo verso dell’ultima strofa, la zona di cui Gesù, destinato a risorgere perché mai appartenuto interamente alla solidità del mondo, è indiscusso mistagogo. In un brano solo, in un ritornello che è un biglietto da visita, Cohen raggruppa la trascendenza, la bellezza, l’amore e la poesia, stimolando nell’ascoltatore al primo impatto la sensazione di essere al cospetto di un segreto mai del tutto svelato.

L’immagine della mente malferma di Suzanne incastona in sé il potere ultramondano di Gesù suggerendo un’affinità tra la mezza follia e la mezza divinità. Già il poeta provenzale Arnaut Daniel, cantato da Dante nel Purgatorio, abbinava versi d’innamoramento e versi religiosamente ispirati, idea da trovatori esperti. Non è una novità l’accostamento dei due mondi nell’autorevole Cantico dei cantici, che si trova nella Bibbia. In Suzanne, Cohen aggiunge la spiegazione del meccanismo responsabile della gravitazione tra queste due sfere ineffabili e necessarie, e nel farlo delinea il sortilegio che “ti” legherà alla sua poetica da lì in avanti.

Come Suzanne, l’autore ti insegna dove guardare tra le immondizie e i fiori. Lei, una dolce donna di cui senza volerlo sei sempre stato amante, pronta inizialmente a seguirti come invece alla fine sarai tu a fare; Gesù, un quasi umano in sintonia con gli spettri e con la fallibilità del reale; Cohen un aedo che avvicina dettagli insospettati, come Cesare Pavese suggeriva fosse compito del poeta; e poi “tu”, che sei un po’ tutti loro se solo ti alleggerisci della gravità di una saggezza solida e inamovibile: in questa miscela, la prima impressione “ti” attanaglia per sempre.

Le informazioni extratestuali che si possono leggere su Wikipedia, su chi fosse Suzanne e sulle dichiarazioni successive, sono storicizzazione cronachistica inutile alla comprensione della canzone. Ogni poesia degna di tale nome nasce da qualcosa e se ne affranca per sempre.

LEONARD COHEN – La leggenda del famoso impermeabile blu

LEONARD COHEN – LA LEGGENDA DEL FAMOSO IMPERMEABILE BLU

Articolo di Marco Ongaro pubblicato sulla rivista Inchiostro

Da Atene in traghetto il 14 aprile 1960 Leonard Cohen arriva a Idra, isola di scrittori e artisti espatriati, sei anni prima dell’uscita del suo romanzo Belli e perdenti (Beautiful losers), e sette anni prima dell’esordio come folksinger con l’album Songs of Leonard Cohen, che lo renderà celebre nel mondo. Questa è una delle versioni del mito, che in quanto tale varia di fonte in fonte, nessuna abbastanza autorevole. Secondo una di esse a Idra Cohen sarebbe già stato nel 1959 grazie a un premio di 2000 dollari del Canada Council e vi avrebbe scritto il primo romanzo Il gioco favorito (The favourite game). Secondo un’altra nel 1960 avrebbe acquistato una casa sull’isola grazie ai 1500 dollari di eredità della nonna. Questioni di contabilità che non influenzano il nucleo del discorso, appunto leggendario.

Insieme agli scrittori e pittori che come lui hanno trovato asilo sull’isola, Cohen frequenta la drogheria del porto, dove incontra Marianne Ihlen, quella che non farà che essere lasciata e separarsi da lui in canzoni dell’album di esordio come So long Marianne e Hey, that’s no way to say goodbye. Sempre a Idra conosce la cantante Julie Felix che lo accompagnerà con chitarra e voce proprio in un’esecuzione televisiva di quest’ultima canzone. Gran viavai di ragazze per il latin lover canadese. Sempre a Idra amerà anche la non meglio identificata Jane, la misteriosa protagonista femminile della canzone Famoso impermeabile blu (Famous blue raincoat), comparsa nell’album Songs of love and hate (Canzoni di amore e odio) pubblicato nel 1971. Ma andiamo per gradi, come si addice ai miti e alle leggende, soprattutto nell’atto di svelarne i supposti retroscena.

Nel 1977 Serge Doubrovsky pubblica il libro Fils e lo definisce opera di autofiction, termine da lui creato per raccontare la propria vita come avventura del linguaggio. A distinguere e precisare questo genere di narrativa è la coincidenza dell’autore, del narratore e del protagonista raggruppati sotto lo stesso nome. Doubrovsky è autore di Fils, ne è il narratore interno e il protagonista. Cosa c’entra questo con il brano Famoso impermeabile blu? Basta scorrere il testo della canzone fino alla fine e lo si capisce. La canzone è una lunga lettera, firmata in calce: Sinceramente, L. Cohen. Sinceramente è una formula epistolare anglosassone di provata efficacia, riferita al destinatario della missiva ma anche all’ascoltatore che, nel riconoscere la firma anagrafica dell’autore e sentendogliela proprio cantare, tocca con mano la sincerità dell’operazione come pure del contenuto del testo. Ora, è peculiare del procedimento di autofiction indicare a un tempo l’autorialità smaccata e la dichiarata finzione e la formula coniata da Doubrovsky ne reca testimonianza nella costruzione combinatoria da parola macedonia, mezza autobiografia e mezza finzione, che ne rappresenta il senso. L’autore si infila di persona nella finzione con la pretesa di renderla più vera e contemporaneamente disorienta nell’affermare la propria sincerità in un’opera dell’ingegno, nel caso di Cohen costituita da due forme artistiche convenzionali, la canzone e la lettera. Dante Alighieri è autore, narratore e protagonista della Divina Commedia, non per questo ogni cosa che compare nei suoi versi, al di là delle allegorie, può essere considerata strettamente veritiera, anzi. L’elemento identificativo dell’autore non ne garantisce la sincerità. Cohen si firma: Sincerely L. Cohen per attribuire credibilità alla lettera scritta nella canzone, usando una formula riconosciuta nel linguaggio epistolare, ma questo potrebbe rappresentare un semplice espediente artistico. D’altro canto non è l’unica intrusione del suo nome in una canzone. Ne La ballata della cavalla assente (The ballad of absent mare) che chiude l’album Recent songs del 1979 il folksinger si fa chiamare Leo dalla sua bella nell’ultima strofa, con un tocco squisitamente autofinzionale che gli permette di chiudere la canzone saltandone fuori a piè pari. Ma non basta un nome a rendere autobiografico uno scritto e nel caso di Famous blue raincoat la veridicità è talmente schiacciante da apparire paradossalmente incomprensibile.

Molti sono gli elementi realistici che ingannano abitualmente gli esegeti del Famoso impermeabile blu privi dell’effettiva chiave di lettura, posta dall’autore sotto gli occhi dell’ascoltatore come La lettera rubata di Poe eppure nascosta nelle interviste al punto di individuare l’impermeabile come un Burberry effettivamente acquistato dall’autore a Londra qualche tempo prima e poi rubatogli nel 1970. Tali elementi sono sotto gli occhi di tutti, si diceva, ma sfuggono all’indagine di chi ignora alcuni indizi che andremo presto a esaminare. Prima di tutto il testo completo.

Sono le quattro del mattino, alla fine di Dicembre
ti sto scrivendo adesso giusto per sapere se stai meglio
New York è fredda ma mi piace dove vivo,
La musica in Clinton Street va avanti tutta la sera
Ho sentito che stai costruendo la tua piccola casa nel profondo del deserto
Stai vivendo per niente adesso, spero tu tenga qualche tipo di diario

Sì, e Jane ritornò con una ciocca dei tuoi capelli
Disse che gliel’avevi data tu
quella notte in cui pianificaste di chiarirvi
Sei poi diventato chiaro?

Ah, l’ultima volta che ti abbiamo visto sembravi così invecchiato
Il tuo famoso impermeabile blu era strappato a una spalla
Eri stato alla stazione a prendere ogni treno
E poi sei tornato a casa senza Lili Marlene
E hai offerto alla mia donna una scheggia della tua vita
E quando è tornata indietro non era più la moglie di nessuno
 
Bene ti vedo là con una rosa tra i denti
L’ennesimo zingaro smilzo e ladro
Bene, vedo che Jane si è svegliata
Ti manda i suoi saluti

E cosa posso dirti
Fratello mio, mio assassino
Cosa ti posso mai dire?
Immagino che mi manchi, immagino di perdonarti
Sono felice che tu sia stato sulla mia strada

Se ti capita di ripassare, per Jane o per me
Bene, il tuo nemico sta dormendo e la sua donna è libera
Sì, e grazie per il turbamento che le hai tolto dagli occhi
Credevo sarebbe rimasto là per sempre
quindi non ci ho mai provato

E Jane ritornò con una ciocca dei tuoi capelli
Disse che gliel’avevi data tu
Quella notte in cui pianificaste di chiarirvi
Sinceramente,  L Cohen

Non si può analizzare questo testo senza fare attenzione ad alcuni segnali che lo stesso Cohen non ha mai menzionato per ragioni che non è nostra intenzione indagare. Primo fra tutti il Famoso impermeabile blu che dal titolo del brano lampeggia come una spia accesa.

Nel 1967, il filosofo e scrittore L. Ron Hubbard fonda la Sea Org, l’Organizzazione del mare, che costituisce l’élite della Chiesa di Scientology sorta nel 1952 dall’evoluzione religiosa della filosofia applicata in ambito mentale e spirituale chiamata Dianetics. La divisa degli ufficiali della Sea Org è connotata ancor oggi da un inconfondibile impermeabile blu. La Sea Org fu fondata nel 1967 e inizialmente si trovava a bordo di alcune navi. Fu istituita per aiutare L. Ron Hubbard a condurre le sue ricerche sulle antiche civiltà e a occuparsi dell’organizzazione delle sue chiese nel mondo. La nave su cui Hubbard e la sua élite incrociavano allora si chiamava Apollo. E proprio dalla nave ammiraglia Apollo la leggenda vuole scendesse un giorno a Idra un ufficiale con il suo bell’impermeabile blu, indumento destinato a diventare famoso quale simbolo dell’Organizzazione del mare di Scientology, e incontrasse Jane, oltre a Leonard, divenendone amico.

Una volta accettata come verosimile questa “voce di corridoio”, basterà il testo della canzone a rivelare e confermare il seguito della storia. Il primo ritornello canta:

Sì, e Jane ritornò con una ciocca dei tuoi capelli
Disse che gliel’avevi data tu
quella notte in cui pianificaste di chiarirvi
Sei poi diventato chiaro?

Tra Jane e l’ufficiale dall’impermeabile blu nasce evidentemente l’amore. Non un amore qualsiasi, come quello che lo stesso Cohen sapeva certo donare alla sua donna, ma un amore intrecciato alle opportunità di miglioramento personale offerte dalla tecnologia filosofica applicata di Dianetics e Scientology chiamata auditing. Quella notte in cui pianificaste di chiarirvi, in inglese that night that you planned to go clear, è il secondo indizio chiave che attira inevitabilmente l’interpretazione in questa direzione.

È dal sito ufficiale della Chiesa di Scientology che deriva la seguente definizione di Chiaro, Clear: “Clear è il nome di uno stato raggiunto tramite l’auditing e descrive un essere che non ha più la propria mente reattiva, fonte nascosta di comportamenti irrazionali, paure irragionevoli, turbamenti e insicurezze. Senza mente reattiva, le persone riacquistano la loro personalità fondamentale, l’autodeterminazione e, in sostanza, diventano molto, molto più se stessi”.

Il verso La notte in cui pianificaste di chiarirvi, o di diventare Clear, nella lettera scritta da Cohen al fratello/assassino che quella notte stette con la sua donna, è seguito dalla domanda esplicita: Did you ever go clear? Sei mai diventato Clear? Evidentemente nemmeno l’ufficiale gentiluomo aveva ancora conseguito quello stato di essere e la pianificazione di raggiungerlo insieme era il canto di una sirena accordata sul desiderio di cambiamento che animava Jane.

Da questo momento in poi le informazioni personali, già concrete nella prima strofa (New York il luogo da cui scrive, fine dicembre la data, Clinton Street la via nei pressi dell’abitazione) diventano dati strettamente legati all’avvenimento nell’andirivieni tipico di una sapiente narrazione. Ho sentito che stai costruendo la tua piccola casa nel profondo del deserto / Stai vivendo per niente adesso, spero tu tenga qualche tipo di diario che chiudono la prima strofa danno l’idea dell’abbandono dello scopo di raggiungere lo stato di Clear da parte dell’ufficiale, probabilmente allontanatosi dalla Sea Org dopo il dubbio comportamento tenuto proprio in quella circostanza. Basta Scientology, isolamento nel deserto, vita senza più scopo, altro che pianificare il miglioramento personale. La compassione del vincitore spinge Cohen a suggerire al rivale di tenere almeno un diario, forma di terapia elementare per compensare la perdita dell’amore e dell’obiettivo di miglioramento che si era posto con Jane. Ulteriore allusione alla decadenza dell’ufficiale venuto dal mare è l’inizio della seconda strofa in cui si menziona appunto il famoso impermeabile per registrarne la sopravvenuta sciatteria. Ah, l’ultima volta che ti abbiamo visto sembravi così invecchiato / Il tuo famoso impermeabile blu era strappato a una spalla. Quello strappo mostra la degradazione prima della rovina. L’invecchiamento è conseguenza della sconfitta e del dolore. Non per niente a incontrarlo alla stazione in cerca di un amore occasionale sono loro, Leonard e Jane: L’ultima volta che ti abbiamo visto. D’altro canto Jane è tornata da Leonard, e non solo con una ciocca di capelli del poveretto, lo si evince chiaramente dalla lettera quando in modo spietato Cohen dice che è sveglia, dunque è lì vicino a lui, e gli manda i saluti. È tornata dopo che l’ufficiale le ha offerto una scheggia della sua vita, è tornata e non è più la moglie di nessuno. Una donna indipendente. È tornata e, lei sì, è migliorata. Qualunque tecnica di auditing le sia stata applicata, ha ottenuto un risultato superiore a quello del povero conquistatore ormai sconfitto. Tanto che Cohen gli dice che se mai ripasserà da queste parti, per Jane o per me, bene, il tuo nemico sta dormendo e la sua donna è libera. Dormire ed essere liberi sono concetti come risvegliarsi o essere schiavi, inerenti a stati di essere che anche con il Buddismo, che Cohen abbraccerà più tardi, hanno certo a che fare. Poco prima non ha forse detto che Jane è sveglia? Concretezza e simbolismo si avvicendano per tornare su un canale unico quando il folksinger si permette di aggiungere un ringraziamento finale: Sì, e grazie per il turbamento che le hai tolto dagli occhi / Credevo sarebbe rimasto là per sempre / quindi non ci ho mai provato. Qui non solo Leonard dà riconoscimento all’ex rivale in amore, ma alla tecnologia stessa che grazie a lui ha tolto quell’ombra dagli occhi di Jane, un riconoscimento vago ma deciso come un esame di coscienza: Cohen ammette di non averci mai provato, perché riteneva non fosse possibile ottenere un simile risultato. Quindi torna a ripetere il ritornello in cui pianificarono di “andare a Clear” e si firma con nome puntato e cognome. L’autofiction è servita e l’enigma pure. Da quel momento in poi, una ridda infinita di interpretazioni, depistaggi e smentite porterà la canzone nell’Olimpo delle più interpretate e delle meno comprese. Dalla Famosa volpe azzurra confezionata da Fabrizio De Andrè per Ornella Vanoni alle ipotesi di un Cohen depresso che parla a se stesso fingendo un triangolo, dalla “notte in cui pensaste di andare lontani” a quella “in cui decideste di smettere di drogarvi”, la mancata chiave di lettura di questo brano arcano ha prodotto infinite esegesi tutte valide e tutte sbagliate. Anche questa nostra ricostruzione mitologica rientra nelle mille cornici costruite intorno a un mistero cantato in forma di lettera sincera. E davvero conta poco come sempre in arte cosa sia vero, si tratti di autofiction o di romanzo verità. Ogni spunto autobiografico è destinato a essere paludato dall’impulso artistico che probabilmente vede più in là della verità stessa.

Una cosa ci sentiamo di dire, concludendo: Leonard Cohen non è mai stato depresso, non più del resto dell’umanità ma spesso è stato lucido, molto più lucido di molti altri umani.