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LA TERRA CHE CADDE SULL’UOMO – Cronache di catastrofi annunciate

LA TERRA CHE CADDE SULL’UOMO – Cronache di catastrofi annunciate

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, del 1972, noto anche come Ziggy Stardust, è il quinto album in studio di David Bowie. Qualche tempo prima di pubblicarlo, l’artista inglese dichiarò: «Ciò che troverete sull’album, quando finalmente uscirà, è una storia che non si svolge realmente. Sono solo alcune piccole scene tratte dalla vita di una band chiamata Ziggy Stardust and the Spiders from Mars, che potrebbe essere l’ultimo gruppo sulla Terra perché stiamo vivendo gli ultimi cinque anni del pianeta». La raccolta narra infatti di un mondo sull’orlo dell’apocalisse in cui l’ultimo eroe è un ragazzo divenuto rockstar grazie all’aiuto alieno. Starman è la canzone più famosa della riuscitissima silloge, ma degno di particolare interesse è il brano di apertura che, con la batteria a tenere il ritmo cardiaco, introduce dal titolo la profezia dei cinque anni citati nell’intervista.

CINQUE ANNI

Così tante madri sospiravano
Facendosi largo nella piazza del mercato
Era appena arrivata la notizia
Ci rimanevano solo cinque anni per piangere

Il tizio al telegiornale gemeva dicendo
Che la Terra stava davvero morendo
Piangeva tanto che la sua faccia era bagnata
Così capii che non stava mentendo

Sentii telefoni, opere, le mie melodie preferite
Vidi ragazzi, giocattoli, ferri da stiro e TV
Il mio cervello doleva come un magazzino
Non aveva abbastanza spazio
Dovevo stipare tutto quanto
Farcelo stare lì dentro
E tutta la gente magra e grassa
E tutta la gente alta e bassa
Tutti i nessuno
Tutti i qualcuno
Non avrei mai pensato di aver bisogno di così tanta gente

Una ragazza della mia età fuori di testa
Picchiava dei bambini
Se il nero non l’avesse allontanata
Penso che li avrebbe ammazzati
Un soldato con un braccio rotto
Fissava lo sguardo sulle ruote di una Cadillac
Uno sbirro s’inginocchiò e baciò i piedi di un prete
E una checca vomitò nel vederlo
Io penso di averti visto in una gelateria
Bevevi frullati freddi e lunghi
Sorridevi e salutavi e sembravi così bello
Non penso sapessi che saresti finito in questa canzone

Ed era freddo e pioveva e mi sentii come un attore
E ripensai alla mamma, lì avrei voluto tornare
Il tuo volto, la tua razza, il tuo modo di parlare
Ti bacio, sei bello, voglio che cammini

Abbiamo cinque anni, impressi nei miei occhi
Ci rimangono cinque anni, ma che sorpresa
Abbiamo cinque anni, il cervello mi fa male
Abbiamo cinque anni, è tutto ciò che ci rimane

Cinque anni cinque anni cinque anni

In un’intervista molto posteriore Bowie allude al fratellastro maggiore Terry Burns quale fonte di ispirazione per Five years. Diagnosticato schizofrenico paranoide, il fratello fu confinato nel reparto psichiatrico del Cane Hill Hospital di Londra dagli anni Settanta al 1985, quando si tolse la vita gettandosi sotto un treno. Ma prima di ciò influì con le sue stravaganze sulla formazione di David Bowie tanto da costituire un riferimento per numerose altre canzoni e album. Che David abbia pensato a Terry per questa canzone fa riflettere sul quadro clinico che poi lo ha segnato. Il folle sacro,  l’illuminato santone delle tribù primitive, il drogato che apre le porte della percezione, l’Unto del Signore, il Cristo “bruciato dall’antico contatto celeste” dell’Urlo di Allen Ginsberg, il pazzo in comunicazione con gli alieni, il Billy Pilgrim di Mattatoio n. 5 pubblicato da Kurt Vonnegut solo tre anni prima, tutto risuona tra lo spirito alienato del fratello e la tematica extraterrestre che attraversa la produzione di Bowie, la visionarietà distopica da presunto disturbo mentale che lo avvicina alla poetica di Roger Waters e Syd Barret dei Pink Floyd come alle illuminazioni pre-afasiche dell’ultimo Nietzsche.

Ziggy è Bowie ma Bowie è anche il narratore della sua “ascesa e caduta”, ed è lui a incontrare nella gelateria la persona che non sapeva che sarebbe finita in quella canzone poco dopo aver avuto la notizia della neanche troppo imminente catastrofe. Al contempo è di nuovo Ziggy, il rocker, che incontra il fratello appartenente a una specie aliena e si rende conto di amarne la faccia, la razza, il modo di parlare. Lo trova bellissimo e vorrebbe che continuasse a camminare, lui come la razza umana che profeticamente rappresenta. Dalla follia alla salvezza il passo è breve, ed è sempre un’andata e ritorno. L’uomo delle stelle dice all’eletto cosa dire agli uomini e ne causa la rovina. Il messaggio è la fine del mondo, con una dilazione sufficiente a impazzire o rinsavire tutti. La distopia è annunciata, anticipata, chissà se davvero avrà luogo. Tra cinque anni, una scansione temporale da piano quinquennale sovietico, lo si scoprirà.

Più del disastro poté la paura. Le distopie, le apocalissi consumate con residui di umanità abbandonati su spiagge di pianeti senza memoria, le scimmie al potere (ben più di dodici), le macchine che si nutrono di energia cerebrale sognante succhiata a ignari sopravvissuti in bozzoli, le mega-esplosioni di cui rimangono ricordi frammentati tra le pieghe di un incubo: tutto questo “già accaduto” è potente monito e fantasia di un oblio dai contorni irrecuperabili. Ma quanto più spaventevole e malinconica sa essere l’attesa della calamità rispetto al suo risultato ormai consumato. Insegnano poco i detriti, le rovine sono materia da museo. Mad Max gareggia su auto ricombinate da sfasciacarrozze degni di Frankenstein, alimentate a miasmi di sterco di maiale nella medievale ripresa di uno steampunk troppo lontano dai vicoli londinesi. Il viaggio nel tempo cerca di riparare all’irreparabile individuando il punto esatto in cui sarebbe iniziato il cataclisma, per poi rendersi conto che il paradosso spaziotemporale vanifica ogni speranza.

Piccoli prescelti crescono per riportare il mondo a ciò che era, ebbene? Niente di veramente formidabile. Il vaticinio del disastro e la paura, quelli sì sono materiale di prim’ordine. La suspense di un universo che tenta di evitare la sua distruzione è emotivamente di gran lunga più interessante della sua avvenuta, anche se imperfetta, estinzione. Il “baco del Millennio” è ormai dimenticato, ma nel 1999 il brivido millenarista aveva agitato web e TV per poi rispalmarsi su tutto il 2000 in attesa di un primo gennaio 2001 nella cui portata devastante nessuno credeva già più. Tutto è stato surclassato pochi mesi dopo dall’amplificazione epocale di Ground Zero, nel panico e nelle chiacchiere a non finire spente nella certezza che il mondo conosciuto non sarebbe scomparso per un vago disallineamento informatico, ma avrebbe continuato a mietere vittime in virtù della sua stupidità. Lo stesso nel 2012 con la Profezia dei Maya.

Il fascino della distruzione prossima è più poetico della distruzione ormai esaurita e scordata. Ogni cosa è concessa prima della fine preconizzata. Al condannato a morte viene permesso un buon pasto e se non accade si è infranta una regola morale, come canta Enzo Iannacci in Sei minuti all’alba all’ufficiale che gli offre la sigaretta prima della fucilazione: “grazie ma non fumo, prima di mangiar”. L’immaginario dell’attesa della fine, della sua assurda predizione con il tempo frapposto e il predisporsi ciascuno a modo proprio all’evento, apre innumerevoli possibilità. È una specie di gioco di società in cui ci si sente più liberi: chi cede all’impulso di maltrattare bambini, chi guarda una Cadillac che non ha mai avuto e che forse ruberà, chi si prostra dinanzi a un ministro di Dio, chi, come nell’Aereo più pazzo del mondo, chiede compulsivamente al vicino di posto di fare l’amore, chi, come in Dio esiste e vive a Bruxelles, gioca a suicidarsi per concludere la faccenda prima del tempo assegnatogli dalla Causa segreta, chi sta chiuso in casa per paura degli agenti esterni, di un anticipo sul destino che gli spetta, e cucina pizze con il lievito madre, riscopre la natura nei gerani sul poggiolo, segue tutorial di danza aerobica, scrive e spedisce poesie ai compagni di catastrofe incipiente.

Lo sentiva Bowie, ben prima di interpretare L’uomo che cadde sulla Terra per Nicolas Roeg, lo sentiva come il Lars von Trier di Melancholia, che l’instabilità mentale è data dall’eccessiva sensibilità nei confronti della tragedia umana, sempre imminente e sempre collettiva. Sapeva che vale la pena cantare e includere nel magazzino della canzone più gente possibile, perché presto o tardi sarà la Terra a cadere sull’uomo.