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DA “KAFKIANO” A “FANTOZZIANO”: LA VIA ITALIANA AL SARCASMO BUROCRATICO

DA “KAFKIANO” A “FANTOZZIANO”: LA VIA ITALIANA AL SARCASMO BUROCRATICO

Articolo scritto da Marco Ongaro per la rivista Inchiostro

Celebrando il centenario della morte di Kafka, il pensiero non può che correre al suo erede italiano del Novecento, Paolo Villaggio.

In quanto coautore delle canzoni di Fabrizio De André Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitier e Il fannullone, nonché autore del testo, se così lo si vuol definire, della Ballata di Fantozzi di Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e Fabio Frizzi, Villaggio non sfigurerebbe in questa rubrica. Ma per una volta preferiamo esondare dalla canzone verso il più ampio mare della creazione letteraria. E quando Paolo Villaggio dichiara che “Fantozzi non è un personaggio comico, è un personaggio tragico, l’uomo più sfortunato che la letteratura italiana abbia mai avuto” è consapevole di usare il termine letteratura a proposito.

C’è una linea satirico grottesca che lega il Gogol’ del Cappotto, il Melville di Bartleby lo scrivano, il Kafka del Castello, Il Bulgakov del Maestro e Margherita, il Beckett di Aspettando Godot e il Buzzati di Sette piani al Villaggio di Fantozzi ragionier Ugo, matricola 1001/bis, come Kafka impiegato in una Compagnia di Assicurazioni, e come Kafka, all’Ufficio Sinistri. Tale linea parrebbe sgorgare dal realismo gogoliano, la grande capacità di estremizzare con venature visionario fantastiche situazioni burocratiche sullo sfondo di una desolante mediocrità umana, riassunta nell’intraducibile termine pošlost’, definito controvoglia da D.S. Mirskij come “meschinità autosoddisfatta, morale e spirituale” e da qualsiasi dizionario russo-italiano come “volgarità”. Doveva essere un principe in grado di rinunciare da giovane al proprio lignaggio come Mirskij a riconoscere questa particolare dimensione umana, foriera di peripezie bizzarre spinte all’assurdo da Beckett in personaggi incapaci di impiccarsi con la propria cintura senza che gli cadano i pantaloni.

E Villaggio è giunto buon ultimo, non necessariamente minore, in questa sequela di creatori dediti a ritrarre le miserie umane con grandi o piccoli effetti comici. Si apparenta a Kafka saltando la componente trascendentale di Buzzati per legarsi più strettamente alla concretezza impiegatizia in cui la trascendenza finisce ingoiata dalla sedicente realtà, assorbita nell’inesorabile organizzazione politica della società occidentale novecentesca.

Se Aspettando Godot debutta in teatro nel 1953, è solo due anni più tardi che troviamo Villaggio intento a scrivere testi e a fare il conduttore nella Compagnia goliardica genovese Mario Baistrocchi, laboratorio di artisti emergenti che in seguito avrebbero giganteggiato nel mondo dello spettacolo come Fabrizio De André, Enzo Tortora e Carmelo Bene. Villaggio prende parte a quasi tutte le edizioni dal 1956 al 1966, per poi farsi notare al Teatro di Piazza Marsala, a Genova, dove mette in scena gli embrioni dei suoi futuri cavalli di battaglia, tra i quali il prototipo fantozziano, l’infelice Giandomenico Fracchia capace di subire con innocenza infantile ogni sorta di angherie da colleghi e superiori.

Famiglia tutt’altro che comune quella che dà origine alla speciale creatura di nome Paolo Villaggio a Genova, il 30 dicembre del 1932, insieme al fratello gemello dizigote Piero, futuro docente alla Scuola normale superiore di Pisa. Il padre è un ingegnere edile palermitano, la madre veneziana è insegnante di tedesco. Frequenta il liceo classico e si iscrive a Giurisprudenza all’università di Genova, ma abbandona per guadagnarsi da vivere dedicandosi a svariati impieghi: da cameriere a speaker della BBC a Londra, ma anche cabarettista e intrattenitore sulle navi della Costa Crociere, insieme all’amico d’infanzia e gioventù Fabrizio De André, a Silvio Berlusconi e a Fedele Confalonieri. «Le crociere si facevano d’estate nel Mediterraneo e d’inverno ai Caraibi. Ho passato sulle navi cinque anni, mi chiamavano le petit connard, il coglioncino. Ho avuto compagni straordinari come Fabrizio De André. Saliva sul palco e davanti agli ottuagenari attaccava: Quando la morte ti chiamerà. Tutti con le mani sulle palle, uomini e donne. Mentre ai piani inferiori c’era lui, un pianista pieno di capelli umani che cantava Come prima, più di prima ti amerò. Era Silvio Berlusconi. Non era un creativo, usava le barzellette per farsi accettare, e con le donne era molto timido». Con il Berlusconi delle tv private anni più tardi i rapporti diverranno professionali, ma con un tocco sempre speciale: «Mi ha detto che sono un grande comico. Gli sono molto grato: per questo e per aver perso le ultime elezioni».

A scoprire la vena artistica di Villaggio è il giornalista e conduttore Maurizio Costanzo, che nel 1967 gli consiglia di esibirsi al Sette per otto, un noto e frequentato cabaret di Roma. «Andai. La prima sera c’era ad assistere allo spettacolo una Roma incuriosita da questo strano comico arrivato da Genova. Ricordo Garinei e Giovannini, Ugo Tognazzi, Ennio Flaiano che alla fine a forza di ridere cadde dalla poltrona». Poi al Derby di Milano, dove frequenta Giorgio Gaber e Renato Pozzetto. Nel 1967 la trasmissione radiofonica Il sabato del Villaggio. Il 4 febbraio 1968 esordisce sul piccolo schermo come conduttore del programma d’intrattenimento Quelli della domenica, scritto da Marcello Marchesi, Enrico Vaime, Italo Terzoli e dallo stesso Maurizio Costanzo. La comicità strettamente fisica dell’aggressivo e sadico Professor Kranz fa da contraltare all’umiliazione e alla sottomissione del suo primo personaggio impiegatizio e frustrato: Giandomenico Fracchia. Di lì i successi s’inanellano in una reazione a catena.

Esordisce nel cinema con Mario Monicelli in Brancaleone alle crociate e sul set si lega artisticamente a Vittorio Gassman, che lo vuole coprotagonista nel suo Senza famiglia, nullatenenti cercano affetto, per condividere poi l’interpretazione in Che c’entriamo noi con la rivoluzione? di Sergio Corbucci e partecipare con l’amico a numerose trasmissioni televisive. Negli anni Settanta pubblica libri sulle avventure di Fantozzi e altre amenità satiriche che riscuotono un entusiastico riscontro di pubblico, al punto che finalmente il personaggio approda al cinema con la regia di Luciano Salce.

«Fantozzi è il prototipo del tapino, la quintessenza della nullità». In principio ha vissuto come personaggio stampato, nato da una serie di articoli-racconto scritti da Villaggio per l’Europeo tratti dai monologhi recitati in tivù, e anche sullo schermo pare mantenere la sua natura fondamentalmente diegetica. Questa resta la sua forza, la profonda narratività che rende ciascuna scena delle pellicole materiale per ulteriore narrazione tra gli spettatori all’uscita del cinema. Paolo Villaggio è creatore di un timbro umoristico personalissimo, ed è un brillante scrittore riconosciuto da Pasolini e Umberto Eco per la potenza innovativa del suo linguaggio e per la sua facile assimilazione nella permeabilità del tessuto dialogico popolare. Lunghe frasi senza verbi, predicati aboliti in cataloghi regolati dall’irresistibile climax ridisegnano la sintassi nazionale attecchendo negli strati più popolari con sorprendente immediatezza: “Nelle prime otto ore: escursione in battello sul Tevere, visita veloce a Colosseo, San Pietro, Musei Vaticani, catacombe di Priscilla, Pantheon, piazza Navona, Fontana di Trevi, via Veneto. Arrivo in piazza di Spagna. Al posto della vescica, un’anguria”.

Con i libri e i film su Fantozzi negli anni Settanta e Ottanta la sua popolarità diventa occasione di confronto intellettuale in un calderone emotivo-culturale capace di sfogare ironicamente tensioni politiche e sociali. «Fantozzi ha liberato gli Italiani dall’incapacità di essere felici secondo i dettami della cultura consumistica», spiega Villaggio. «Lui consuma, fa vacanze, parte per la settimana bianca e torna massacrato e infelice. Come tutti gli Italiani. Fantozzi è un terapeuta che dice: tutti quelli che subiscono questo tipo di cultura sono condannati a essere infelici». La poetessa Alda Merini dirà di essere sopravvissuta alla reclusione in manicomio grazie alla lettura di Fantozzi.

Villaggio estende l’area di alienazione dalla catena di montaggio delle fabbriche ai quadri impiegatizi delle multinazionali, non più privilegiati rispetto alla classe operaia bensì tormentati senza pietà da un potere sovrannaturale che infierisce perfino con la proverbiale nuvola piovosa loro dedicata in gite e vacanze. “Ogni impiegato ne ha una. Sono nuvole maligne che stanno celate dietro le montagne anche 12 mesi, ma quando s’avvedono che il loro uomo sta per andare in ferie gli piombano sulla testa scaricandogli in nuca un quadrato di grandine in un metro per un metro e lo accompagnano implacabili”. Per Marchesi c’erano le domeniche per ammalarsi, per Villaggio la nuvola del weekend è appiccicata all’individuo anche qualora si prendesse ferie infrasettimanali.

Le disgrazie esagerate del ragioniere, l’insormontabile difficoltà con i congiuntivi, la sua ossessione del potere e l’irrefrenabile pulsione al servilismo mettono a fuoco mistificazioni diffuse che un po’ tutti, attraverso la risata, finalmente esorcizzano: “«Allora, ragioniere, che fa? Batti?» «Ma… mi dà del tu?» «No, no. Dicevo: batti lei?» «Ah, congiuntivo»”. Ben prima che l’Italia rinunciasse a usare i congiuntivi sulla scorta dell’esempio televisivo commerciale, gli ultimi fantozziani, che sono ultimi proprio perché infilati nella categoria di mezzo tra la classe operaia e quella dirigente, mero strumento inconsapevole della burocrazia, si atteggiano a una cultura che non possiedono cercando comunque di declinare i verbi secondo tempi che non padroneggiano. Un congiuntivo sbagliato in Fantozzi è un aforisma sull’inadeguatezza di un intero ceto, quando non di una intera nazione. È la “volgarità” di Gogol’ individuata da Mirskij.

Muore il 3 luglio 2017 a 84 anni a causa di complicanze respiratorie dovute al diabete. Nel frattempo Fantozzi si accomoda non senza incomprensioni, cui peraltro è abituato, nell’ufficio di sottoscala vicino ad Arlecchino, Pulcinella, Brighella, Totò, Monsieur Hulot, Mister Bean e Charlot. La commedia che sopravvive alla sua epoca diventa poesia. Dopo il suo passaggio sulla Terra, La Corazzata Potëmkin non sarà mai più un capolavoro.

C’è un che di liberatorio nella vigliaccheria rappresentata dagli scatti subito puniti del ragioniere che si assoggetta per conformarsi, lamentandosene però in privato, c’è del sublime nel riflesso fedele che il suo personaggio offre alla miseria della mediocrità. Le tentate reazioni si riversano sui suoi simili: dirette in alto finiscono inevitabilmente per ricadere verso il basso aggravando ulteriormente il fardello dei famigliari, dei colleghi, degli uscieri, dei parcheggiatori in una sorta di ordinamento immutabile nel destino dei miserabili.

Ma sono gli impiegati, i diplomati ragioniere e geometra, i non laureati però neanche del tutto analfabeti il vero bersaglio del dileggio divino. Coloro che non hanno potuto o osato innalzarsi oltre una accettabile mediocrità sono puniti con il ridicolo che per la classe operaia invece si ribalta nella resistenza cinica del Cipputi di Altan. Nel caso di Fantozzi, inguardabile la moglie, primate la figlia, sottoscala l’ufficio, procacemente ributtante l’oggetto dell’inconsumabile desiderio: la signorina Silvani. In quel “signorina” brilla come uno specchietto per allodole tutta la libertà dello stato civile, sull’orlo della zitellaggine lustrata da una autostima comunque insufficiente: “Mi conquisti, mi seduchi. Ecco… mi colghi una stella alpina”. Nella guerra tra insignificanti non si risparmiano colpi bassi, si sprecano i rimasugli di dignità e si torna a casa con la coda tra le gambe, senza perdere però la speranza di uniformarsi l’indomani alle presunte fortune altrui imitandone le aspirazioni. Ai tre bulli che lo pestano nel corso della sua prima fallimentare uscita con la signorina Silvani, Fantozzi reagisce nel modo più civile nel tentativo di salvare la faccia irrimediabilmente spaccata, e a disastro già avvenuto osa un timido: “Badi a come parli”. La frase fatta che abitualmente dà il via agli alterchi, Villaggio la pone laddove ormai non c’è rimedio, quale estrema prova di debolezza nell’istante in cui il disgraziato vibra un sussulto di dignità per non sfigurare idealmente, essendo già fisicamente sfigurato, di fronte alla donna che desidera unicamente perché è meno rassegnata di sua moglie. Il “Lei non sa chi sono io” diventa un miraggio, giacché proprio questo spera Fantozzi, che non si sappia realmente chi è, che non se ne riconosca la pochezza. A tale scopo deve mostrarsi pari, se non superiore a quelli che, se andasse a guardare bene, nell’intimo sono spesso diversi da lui per una mera mancanza di scrupoli.

L’ambizione a migliorarsi o darsi un tono con sport, diete, escursioni, feste di Capodanno, raduni conviviali e gala non viene mai meno, e in essa ogni perdizione trova sfogo per l’insufficienza intrinseca del povero snob ricacciato nel recinto della sua inferiorità sociale, culturale, economica. La dieta ideale prevede: “Per dormire, mai letti morbidi. (…) Durante la giornata bere almeno settanta litri d’acqua tiepida. Uscire per una veloce passeggiata nel bosco di sei ore, brucando molta erba. (…) Non cenare mai con tori da combattimento spagnoli”. I suggerimenti non hanno solo l’esagerazione alla base della loro comicità, hanno anche un nonsenso qua e là che, reso accetto dall’autorevolezza della disciplina intrapresa per migliorare sé stessi, disorienta l’intera struttura di saggezza sociale contrabbandata come valida. “Uscite senza salutare nessuno e partite al galoppo verso l’ippodromo più vicino per una sgambata. Per non dare nell’occhio vi consiglio di nitrire ogni duecento metri”. L’idea salubre della locuzione “per una sgambata” offre un senso di gioiosa ragionevolezza a una prescrizione folle. Quella “sgambata” serve a unire in una promessa di allegria e benessere il malcapitato che cerca disperatamente, come spiega Villaggio, di conseguire la felicità attraverso la rubrica di spassi ed esercizi di salute offerti da una società assurda e aliena. Uscire senza salutare nessuno è come tuffarsi all’improvviso nell’agone, donarsi interamente all’avventura dimagrante, con fede cieca in totale competizione con il resto del genere umano. L’impulso all’imitazione, più che al miglioramento, che lo spinge nella morsa ferrea del dietologo gli suggerisce di imitare un animale, un cavallo, per poter tornare ad avere un normale peso umano.

Non ha pretese extraterritoriali Paolo Villaggio, i suoi miserandi personaggi sono decisamente italiani, come molti bersagli flaianei, grazie all’ibrido nazionale che già per lo scrittore pescarese costituiva un affettuoso crocevia di «vorrei ma non posso». “L’Italia è un Paese di sportivi sedentari, che guardano lo sport in televisione ma non lo praticano. Lo sport nazionale è la maldicenza, che viene, invece, praticato a tutto campo”, annota. E altrove: “Gli italiani quando sono in due si confidano segreti, tre fanno considerazioni filosofiche, quattro giocano a scopa, cinque a poker, sei parlano di calcio, sette fondano un partito del quale aspirano tutti segretamente alla presidenza, otto formano un coro di montagna”, scrive Villaggio, e il coro di montagna è la peggiore delle aggregazioni, con l’impulso a condividere e primeggiare che trascina un po’ tutti verso il baratro del “tragico”, aggettivo riscritto dal creatore di Fantozzi con significato opposto, a mostrarne spietatamente il lato umoristico, incapace di suscitare commozione, costantemente teso alla ferocia del risibile.

“C’è sempre in ogni agglomerato umano l’«organizzatore di sfide calcistiche». Mentre godono fama di organizzatori, questi elementi sono in realtà solo dei criminali pericolosi e la loro monomania porta periodicamente dei padri di famiglia sull’orlo della tomba”, è aforisma forse neanche tanto iperbolico. Le diete e il calcio, il ciclismo o la settimana bianca sono occasioni di emancipazione sociale e immancabili prove negative per l’hýbris del travet. È il loro trovarsi in una classe intermedia, di mezzo, a far sì che finiscano per essere “messi in mezzo” ogni volta che qualcuno cerca di salire o tener sotto gli altri. “Soprattutto dietro agli sportelli delle banche di periferia, consumano la loro vita i «lampadati». (…) Il loro sole sono i raggi UVA di un tragico parrucchiere sotto casa. (…) Quando escono il fetido parrucchiere, che prima faceva il fornaio, dice: «Sei splendido! Sembra proprio che tu abbia fatto una vacanza a Sharm el Sheik» (…) Sotto il rosso mogano della fronte, spicca il naso rosso fuoco dei nani da circo”.

Il Duca Conte Barambani e la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare sono espressioni della superiorità fintamente democratica costretta all’ecumenismo dalla necessità di sfruttare a dovere i nuovi sudditi. La facciata civile richiede una certa ipocrisia. L’impiegato ragioniere, che nutre un’ammirazione perfida e invidiosa per chiunque gli stia al di sopra, si piega al servilismo più abietto perseguendo una mimesi impossibile con chi, essendo nato nobile, non ha bisogno di mostrarsi più di quello che è, cioè crudelmente volgare e insensibile.

“Dopo quella diamantata pazzesca la contessina Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare gli fece conoscere alcuni amici e gli presentò nell’ordine: la signora Bolla, i coniugi Bertani, la contessa Ruffino, i fratelli Gancia, Donna Folonari, il barone Ricasoli, il marchese Antinori, i Serristori Branca e i Moretti, quelli della birra. A metà di quel giro di presentazioni Fantozzi era già completamente ubriaco”.

Queste figure nobili si trasferiscono agilmente dall’aristocrazia all’elevatezza culturale senza reali differenze. Come i cittadini di Capalbio, secondo Villaggio divisi distintamente tra contadini e intellettuali: “I contadini leggono, a fatica, «Il Tirreno»; gli intellettuali, uomini e donne, vestiti rigorosamente di lino bianco e con dei candidi golfini di cachemire annodati in vita, scorrazzano con «il manifesto» o «l’Unità» sotto il braccio, che i locali credono siano scritti in turco”. Lo spettro del Bar Casablanca di Gaber/Luporini si aggira tra queste righe la cui stilizzazione è estremamente precisa. “Ogni tribù veste i costumi nazionali, gli indiani da indiani, i Masai da Masai, i capalbiesi di lino bianco”. Il sospetto che questa suddivisione non solo sia etnica ma naturale, divinamente disposta, è più reale di quanto si creda.

Perciò il Megadirettore Galattico ha sembianze e poteri ultraterreni. L’ingiustizia sociale, nell’ateo pessimismo di Paolo Villaggio, si manifesta come il risultato di un volere celeste: “C’erano due bambini molto belli, biondi, figli di ricchi; tutti i figli dei ricchi sono biondi e eguali, i figli dei braccianti calabresi sono scuri e diseguali”. Qui spira l’influenza della cultura dell’epoca, con echi gaberiani di Signor G. Ovviamente l’insinuazione che Dio abbia voluto le diseguaglianze che portano all’oppressione è una critica a chi sfrutta la fede per mantenere lo statu quo, secondo una tecnica satirica di grande tradizione. “Temo che il Papa non creda in Dio” è invece la dichiarazione più potente contro tale fede. Ma le differenze sono le benvenute e proprio Fantozzi ne ha espresso, immolandosi, la ragion d’essere. “Perché ha avuto quella fortuna enorme?”, dice Villaggio. “Perché finalmente criticava questa imposizione: doversi travestire da tutti”. E lo Zelig di Woody Allen, il “camaleonte umano” uscito nel 1983, pur nella sua rarefatta sofisticatezza, non può dirsi del tutto innocente quanto a ispirazione.

La compagine soprannaturale fissa lo stato delle cose in forma inamovibile, dunque Paolo Villaggio è portato a ricercarne il comune denominatore in un’animalità primordiale, una condizione ancestrale che designa la raffinatezza voluta e non accessibile ai Fantozzi come un’illusione dell’Homo sapiens sapiens incapace di staccarsi dalle sue origini bestiali. L’unica verità che si staglia a distinzione degli esseri umani, italiani a paradigma del cosmo, è l’ammissione della loro sordida animalità. In questo effetto comico, da alcuni considerato facile per la sua volgarità, si trova invece la massima critica e comprensione dell’umano costretto a fingersi evoluto in un mondo mai emancipatosi dalla giungla. “Non ho paura degli attentati ma degli aliti terrificanti e indescrivibili che hanno gli Italiani di tutte le estrazioni sociali” orienta l’obiettivo in alto. Ma non tarda ad abbassarsi poi verso altre espressioni dell’infelicità dei corpi: “I mammiferi esperti di calcio che si fanno trasportare dai mezzi pubblici ne approfittano ignobilmente per scoreggiare come elefanti africani. Non sono scoregge rumorose perché hanno messo a punto una tecnica raffinata: il terrificante soffione con effetti devastanti. Ho visto due anziane signore di Liverpool piangere in silenzio, poi chiedere aiuto e infine buttarsi dai finestrini in corsa”. Siamo sicuri che gli hooligans siano avulsi da tali abitudini? Un sotteso lascito rabelaisiano attraversa gli scritti meno concessivi di Paolo Villaggio, un monito che trova il coraggio di allertare l’intera umanità sulla sua scarsa evoluzione: “Non fate mai l’errore madornale di fare i vostri bisogni negli insidiosissimi cessi detti “alla turca”, nei quali vengono risucchiati ogni anno una cinquantina di giovani”.

Nell’identificare Paolo Villaggio con la sua creatura più famosa non si usa alcuna delle iperboli che della sua neolingua sono l’ossatura: i “mostruoso”, i “tragico” e i “pazzesco” entrati grazie a lui nel lessico comune come elementi pertinenti al buffo, al burlesco, al sarcastico. È l’aggettivo “fantozziano”, entrato come sinonimo di grottesco e tragicomico nel dizionario nazionale, a designarsi quale evoluzione tutta italiana e novecentesca di “kafkiano”. Eredità indubbia del suo celebre precursore.

SCHEGGE ASSENNATE – Album di aforismi da Barthes a Warhol via Wilde

SCHEGGE ASSENNATE – Album di aforismi da Barthes a Warhol via Wilde

Estratto dall’introduzione del libro Guida ai grandi aforisti di  Marco Ongaro (Odoya Editrice 2018)

Roland Barthes, ritratto in quest’opera in uno spazio tutto suo, elabora una teoria dialettica di grande efficacia tra Album e Libro. Considerando il Libro l’organizzazione in vita o postuma dell’Album di un autore e postulando una gara tra le due strutture scritte quanto a durata, pone l’interrogativo su quale delle due forme di scrittura prevalga alla fine. Il Libro concepito intenzionalmente, ordinato secondo una predisposizione, un programma rispettato nei dettagli, l’Album inteso come coacervo di ispirazioni casuali, raccolta di osservazioni oscillante tra il diario e l’affastellarsi delle epifanie annotate senza una precisa intenzionalità organizzata. Nell’Album lo scheletro è assente, c’è uno “sparpagliamento antologico di parti”, elementi guidati da un ordine arbitrario, dal caso e dalle circostanze. Succede che l’Album diventi Libro prima della morte dell’autore, come nel caso della Ricerca del tempo perduto di Proust, o dopo la sua dipartita come per i Pensieri di Pascal. L’Album è frammentario, il Libro è un corpo interconnesso e ragionato. L’Album è rapsodico, come Il mio cuore messo a nudo di Baudelaire, il Libro è un cosmo concluso, come Madame Bovary di Flaubert.

L’intuizione geniale di Barthes sta nell’individuare una sfida in questa alternativa. Chi vincerà alla fine tra Album e Libro? Altrettanto acuta è la soluzione al quesito. Se il Libro è il risultato dell’assemblaggio di noticine e annotazioni varie, le paperolles proustiane, idee raccolte e osservazioni incidentali raggranellate in Album durante la fase preparatoria, il tempo e la memoria umana faranno sì che tali monadi strutturate si liberino presto o tardi dalla griglia ragionata che le ha incarcerate per tornare, quali macerie del Libro, alla loro naturale seppur nuova condizione di Album.

Narra a questo proposito un aneddoto tratto direttamente dalla sua vita, nella bella tradizione di autoanalisi con cui Barthes sempre si approccia alla cultura, attingendo cioè a una personale annotazione inserita non senza ironia nel suo corso La preparazione del romanzo.

“L’8 luglio 1979, nell’autobus 21, affollato, di domenica sera, verso le 21.00, accanto a me, imperturbabile, una quarantenne, armata di un righello e una Bic nera, sottolinea quasi tutte le frasi di un libro (non ho potuto vedere quale)”.

Corrobora l’episodio con un’annotazione dalle Mémoires d’outre-tombe in cui Chateaubriand racconta di come Joubert strappasse dai libri le pagine che non gli piacevano, creandosi una biblioteca personale composta di “opere svuotate, racchiuse in copertine troppo grandi”. L’esperienza di vita trova conferma in un’esperienza tramandata nella scrittura, perciò è vera. Il linguaggio crea la realtà e la realtà conferma il linguaggio.

Del Libro rimane dunque la citazione, la frase memorabile che ha letto noi nel momento in cui la si leggeva, prerogativa del classico. Come il classico è costituito dalle vestigia di civiltà un tempo floride e compiute, così il nuovo Album di un individuo, di una cultura, di una società è formato da ciò che ha prevalso nel mare magnum della scrittura, le rovine sopravvissute alle mutazioni delle epoche, resti di un naufragio portati a riva da imperscrutabili maree.

Brani di Jung convivono con pensieri di Freud senza alcuna considerazione della ruggine trascorsa fra i due padri della psicoanalisi. Marcel Proust e Eugène Sue condividono brandelli di memoria letteraria, Jean Cocteau e Andy Warhol partecipano di emozioni simili a dispetto delle rispettive correnti artistiche. I frammenti del Libro giunti a creare il nuovo Album appartenevano a costruzioni compatte, erano sequenze racchiuse in consequenzialità pensate con fatica. Ora sono brandelli di idee riposizionati secondo ordini casuali o associativi, indipendenti dalla loro collocazione temporale e logica.

L’aforisma è la forma d’arte, sintetica ed efficace a un tempo, che meglio rappresenta lo scrittore scomparso nel momento in cui la memoria dell’uomo artista torna ad affermarsi in qualche anniversario, della nascita o della morte. Chi riempie taccuini su taccuini, notturni e diurni, chi scrive sulle tovaglie delle trattorie o sui volantini pubblicitari è portato per natura a essere epigrammatico nei giudizi e nei commenti. Quando si raccolgono i suoi scritti e li si cataloga, gli apoftegmi si stagliano come gemme in una miniera di carbone.

Se poi la forma di scrittura scelta è quella che usa le massime come mattoni su cui edificare l’architettura dell’opera, è evidente che esse vengano in superficie e rimangano come documento vivo della sua arte. L’aforisma è la memoria di un pensatore, l’apoftegma è l’arguzia di un comunicatore. Entrambi sono punte d’iceberg che annunciano o ricordano momenti pregnanti di scrittura ormai sommersa.

Si trattasse del Libro o dell’Album dell’autore, come per i diari di Flaubert o Kafka, per le lettere a padri, fidanzate, amici, amanti, materiali la cui frammentarietà originaria conferisce statuto autorevole di fonte per estrapolazioni d’ogni sorta, l’emersione postuma in forma pregna e sintetica delle citazioni sancisce ora l’effettiva vittoria dell’Album sull’effimero assestamento del Libro. La tendenza necrofila ad assorbire ogni dettaglio di un autore dopo il suo distacco terreno raggiunge apici che sconfinano nella leggenda, riferendo frasi riferite, come “muoio al di sopra dei miei mezzi” pronunciata da Wilde nell’ultimo hotel della sua vita o “questo libro non l’ho letto e non l’ho neanche recensito” attribuita a Flaiano senza suggerirne con precisione l’origine.

Il famoso discorso di Wilde a definizione dell’amore “che non osa pronunciare il suo nome” rappresenta una delle miscele aforistiche extratestuali più significative, non essendo stato scritto dall’autore bensì declamato in tribunale a propria difesa poco prima della condanna ai lavori forzati per sodomia. Riferito direttamente dal cancelliere di un tribunale ha forse più legittimità di poche parole dette a un amico in un caffè, nondimeno rimane paradossale la sua inclusione nell’Album wildiano al pari, se non con maggiore successo, dei suoi scritti volontari, ragionati, interpuntati con precisa intenzionalità, o di brani destinati alla memoria precaria di argute conversazioni.