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VIAGGIO A BREMA – La musica come arma

VIAGGIO A BREMA – La musica come arma

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Non è certo Il Pellegrinaggio in Oriente di Herman Hesse, uscito nel 1932, il primo esempio di apparente inconcludenza che un’esperienza di viaggio suscita in una narrazione. I protagonisti, che dopo aver percorso parte dell’Europa e del Medio Evo si incagliano in un contrattempo che li blocca a Bormio Inferiore, stimolano una visione mistico metaforica della natura iniziatica del viaggio. L’insegnamento viene dal progredire attraverso lo spazio e il tempo, non dal raggiungere una meta fittizia la cui prospettiva è utile più che altro a dare avvio all’avventura. Si fermeranno e si disperderanno a Bormio Inferiore ben prima di scoprire che quell’intoppo, la sparizione di un servitore insieme ad alcuni loro oggetti personali, era la vera prova da superare per raggiungere l’obiettivo spirituale. L’Oriente, come culla filosofica ma anche come semplice punto sorgente della luce del mattino, si trova ovunque la misera personalità del neofita abbia l’opportunità di temprarsi. Qualunque prova del pellegrinaggio ne è la meta nella misura in cui forgia lo spirito del viaggiatore. Come si diceva, non è certo questo gioiellino di mise en abyme e metaletteratura mistica il primo esemplare di incompiutezza nella narrazione di un viaggio. Basti pensare a Giovinezza, racconto autobiografico pubblicato da Joseph Conrad nel 1898, in cui il carico nella stiva di una nave che il secondo ufficiale deve contribuire a far giungere a Bangkok non arriverà mai, ma importa poco, perché le promesse che l’età ha in serbo per il giovanotto superano di gran lunga le vicissitudini e la mancata realizzazione della missione. Ancora una volta, la meta non è geografica ma esistenziale e lo scopo è connaturato alla stagione della vita che si sta attraversando. Il protagonista del Pellegrinaggio è ormai ben adulto e alla ricerca di una elevazione religiosa, quello di Giovinezza è talmente immerso nei suoi vent’anni da accogliere la meraviglia sotto qualunque forma gli si presenti, sia pure come traversia. Il viaggio è iniziazione in entrambi i casi, a dispetto dell’approdo in un luogo designato.
Grande anticipazione in tal senso si trova nella gustosa fiaba I musicanti di Brema, pubblicata dai fratelli Grimm nel 1819 ma risalente, come denuncia la scelta della città nel titolo, al periodo anseatico in cui essa si fregiava di diritti speciali di libertà. La Lega anseatica è un’alleanza tra alcune città che dal tardo Medioevo fino all’inizio dell’Era moderna hanno mantenuto il monopolio dei commerci su gran parte dell’Europa settentrionale e del Mar Baltico, favorendo l’emigrazione all’estero lungo il Weser via Brema. La sua fondazione viene fatta risalire al XII secolo, epoca a partire dalla quale Brema assume musicisti per la municipalità fino alla fine del XVIII secolo. Nella fiaba è naturale che diventi l’immagine di un luogo di nostalgia per gli animali che sono fuggiti dal loro paese per evitare di finire male, ciascuno a suo modo. Molte sono le chiavi di interpretazione di una storia così essenziale e stralunata. Un asino, un cane, un gatto e un gallo si incontrano sulla via di fuga dalle rispettive inospitali fattorie di provenienza e, dopo essersi narrati minacce e peripezie che li hanno spinti fino a lì, decidono di proseguire insieme per trovare lavoro a Brema come musicisti.
Qual è il loro strumento musicale? Il verso. Il ragliare dell’asino, il miagolio e pure il soffio del gatto, l’abbaiare e il guaire del cane, nonché la celebre onomatopea del gallo, unico ad aver diritto nel suo verso all’appellativo nobile di “canto”. Il primo piano metaforico è quello dell’orchestra, una realtà in cui le differenze si intrecciano per miracolo risultando in un’armonia che, proverbialmente, non sarebbe poi naturale tra bestie non affini come il cane e il gatto. I musicisti devono farsi andar bene lo scopo comune, la band è un crogiuolo che trasforma in accordo, grazie alle comuni disgrazie, ciascuna nota stridente tra i caratteri dei suonatori. Il livello simbolico si innalza così alla diversità delle specie, delle etnie eterogenee costrette a giungere a miti consigli e fare “lega” per l’obiettivo comune di sopravvivere.
La canzone che ne ha tratto Vinicio Capossela nel 2019 si ferma al di sotto di questo livello limitandosi a interpretare in dettaglio le ragioni che hanno spinto i poveri animali a scappare dalle loro case e il miraggio che Brema li accolga nell’orchestra cittadina. La speranza di salvarsi insieme è sorretta da un’Utopia che la canzone giustamente non si cura di mostrare raggiunta mentre la fiaba, pur non narrandone a sua volta la realizzazione, affina la tavolozza delle corrispondenze a un livello superiore con morali della favola avvitate a spirale e potenziate. E qui il prodigio del canto, del verso, del fraintendimento diventa il vero tema in un mondo che si affida alla comunicazione tra umani.
Durante il viaggio i quattro migranti si trovano a passare per un bosco di notte e, affamati, decidono di trovare rifugio in una casa abitata da briganti che stanno apprestandosi a mangiare ogni ben di Dio. I quattro animali allora si pongono l’uno sopra l’altro e tengono il loro primo concerto, denunciando la consapevolezza di quanto la loro arte sappia essere molesta. Il fracasso è tale da far scappare a gambe levate i ribaldi, convinti che il frastuono sia conseguenza di un maleficio di fantasmi. Non c’è niente di più spaventoso di ciò che non si capisce: questa potrebbe essere una morale del racconto, giacché i bruti temono l’ultraterreno e sono portati a credere alla sua esistenza. Una seconda morale, che la musica può essere celestiale ma anche infernale a seconda della volontà dei suonatori, e qui è evidente che l’intento del gruppo era di spaventare, non senza svelare la loro malafede di aspiranti strumentisti. Il loro progetto di suonare per la municipalità di Brema, per quanto città illuminata dagli accordi anseatici, non avrebbe forse avuto buon fine. Ne sono coscienti, non per niente usano la loro musica come arma.
Ma l’intrico dei segni malintesi non si ferma a questo punto del racconto. Nella notte uno dei briganti, forse il più furbo o il più affamato, torna alla casa per sincerarsi di poter riprenderne possesso. I presunti musicanti stanno dormendo, la casa è immersa nel buio e ciò favorisce l’ispessimento semiotico della fiaba: entrando al buio il poveretto va in cucina per trovare una candela e vede brillare nell’oscurità gli occhi del gatto. Li prende per carboni ardenti e avvicinando lo stoppino stimola la reazione violenta del felino che gli salta in faccia e lo graffia. Qualche passo indietro e il cane gli addenta una gamba. Uscendo una zoccolata d’asino lo prende in pieno mentre il gallo dal tetto emette uno dei suoi versi più lugubri e acuti. Di nuovo in fuga ma stavolta per minacce ben più concrete della cacofonia di un concerto animalesco, il malcapitato torna dai compari e fa il suo resoconto dell’accaduto. Leggiamolo nella preziosa traduzione di Antonio Gramsci:
“Il brigante corse come meglio poté dal suo capo e disse: «Ahimè, nella casa si è stabilita una orrenda strega, che mi ha soffiato in faccia e con le sue lunghe dita mi ha graffiato; dinanzi alla porta stava un uomo con un coltello che mi ha pugnalato la gamba e nel cortile era sdraiato un mostro nero che mi ha bastonato con una mazza, e sopra il tetto c’era il giudice che gridava: – Consegnatemi quel briccone! – Sono riuscito a stento a scappare».
Il travisamento è degno delle migliori interpretazioni psicoanalitiche in merito alle personali fobie. Ciò che non si vede lo si immagina, si riveste qualcosa di ignoto con ciò che è noto anche se del tutto infondato, il buio favorisce fantasie sperticate, l’oscurità della ragione offre sempre spiegazioni la cui plausibilità risiede nei fantasmi della mente di chi ignora. Alla ridda di morali assommate nello squisito finale si aggiunge l’equivoco del verso del gallo scambiato per un discorso compiuto: “Consegnatemi quel briccone!” Quanta paura ci vuole per trasformare l’ululato di un capo-pollaio nelle parole di un magistrato? E quanto il giudice temuto assomiglia in verità a un galletto allarmato?
Il trucco narrativo che dovrebbe insegnare ai bambini a non fidarsi delle apparenze chiude la storia: i velleitari musicisti in cambio di una casa tutta loro, il sogno del migrante, rimangono nel frutto del loro esproprio proletario e rinunciano a raggiungere Brema. Rubare una casa a dei briganti non è reato. Le illusioni artistiche scemano non appena il loro obiettivo utilitaristico viene a decadere. In fondo non erano musicisti nell’anima, volevano solo sbarcare il lunario e avere salva la vita. Ora che la sopravvivenza è assicurata, chissenefrega della musica e della municipalità.
Accade questo con i viaggi della speranza, hanno una destinazione cangiante, autoriducibile a seconda delle circostanze. E tutti i viaggi, sotto sotto, lo sono.