TUTTO IL FOLLE AMORE DI PIER PAOLO PASOLINI
Articolo scritto da Marco Ongaro per la rivista Inchiostro
Che cosa sono le nuvole?, il titolo dell’episodio firmato Pier Paolo Pasolini nel film collettivo Capriccio all’italiana, in cui il poeta compare come regista insieme a Monicelli, Steno, Bolognini, Pino Zac e Franco Rossi, si staglia all’inizio su una fascetta da annuncio cinematografico posta su un manifesto che riproduce Las meninas di Diego Velásquez. Perché scegliere a emblema del cortometraggio il quadro del 1656, chiamato in italiano Le damigelle d’onore? Forse perché il dipinto al Museo del Prado di Madrid instaura un gioco di specchi che confonde lo spettatore, posto in una stanza in cui davanti all’immagine si trova a sua volta uno specchio. L’autoritratto del pittore lo mostra mentre dipinge l’Infanta e le damigelle fissando un grande specchio dove in verità si trova l’osservatore, lastra d’argento che ritrae uno specchio più piccolo sullo sfondo dove i regnanti ammirano non visti la scena. O sono esattamente loro l’oggetto del ritratto? In tal caso non avrebbe senso la posa in cui le bambine sembrano immortalate in uno dei quadri prospetticamente più ingannevoli della storia dell’arte. Giù in fondo, un uomo segue la scena da una porta spalancata che getta la luce del giorno sull’intera opulenta visione di un ritratto che si ritrae da sé. Pier Paolo Pasolini ha scelto questa festa di mise en abyme per rappresentare la sua storia, somma circonvoluzione di una profondissima eco figurativa, un effetto all’infinito di teatro nel teatro, nella fattispecie di marionette, in cui la recita narra la contraddittoria avventura del vivere, dal suo inizio all’attimo estremo attraverso un copione scespiriano omogeneizzato per il popolo.
Il testo della canzone che accompagna e contrappunta il breve film è scritto da Pier Paolo Pasolini e musicato e cantato da Domenico Modugno, che interpreta un “mondezzaro” in diretto rapporto tra il teatro dei pupi e una discarica a cielo aperto, becchino di basso rango, Caronte munito di camioncino raccogli rifiuti. La pellicola, girata nella primavera del 1967 e diffusa al cinema nel 1968, con Ninetto Davoli, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Laura Betti, Adriana Asti e Carlo Pisacane, l’indimenticato Capannelle de I soliti ignoti, è l’ultima interpretata da Totò, che morirà prima della sua uscita. Tutte maschere attoriali che impersonano altrettante marionette nella sarabanda metaforica dell’esistenza, in cui si viene al mondo e si muore agendo a dispetto della propria volontà, mossi da fili invisibili che obbligano a scelte indesiderate. La rappresentazione della vita e delle sue tragedie comprende e si focalizza in piccolo nell’Otello di William Shakespeare, una riproposizione popolare che include l’epilogo tipico della sceneggiata napoletana in cui il pubblico di bassissimo ceto interagisce linciando i cattivi, Iago e Otello, e portando in trionfo il buon Cassio.
Il dentro e fuori dalla “tragedia umana” è esemplificato nei dialoghi dietro le quinte, quando i personaggi non agiti dal burattinaio liberamente filosofano sulla verità, sulla vita, sull’amore, sulla cattiveria, senza che tale consapevolezza intervenga poi sulla scena a influenzare il modello prefissato del loro agire. Shakespeare è citato da Totò/Iago, «Siamo un sogno dentro a un sogno», per spiegare a Ninetto Davoli/Otello l’insensatezza delle loro azioni sulla ribalta. L’effimera libertà permette loro una comprensione che priva Totò della malvagità e permette a Ninetto Davoli interrogativi fuori copione. E perfino il burattinaio, vice-demiurgo vestito da commesso, insinua spiegazioni rozzamente psicoanalitiche, «Forse perché Otello vuole uccidere Desdemona… forse perché Desdemona vuole essere ammazzata», insistendo però sul “forse”. Pur tirando i fili, nemmeno lui ha una cognizione autentica del mistero dell’esistere.
Quando si torna in scena, il testo va seguito inesorabile e Laura Betti/Desdemona deve morire anche se innocente, uccisa da un Otello riluttante eppure condannato alle reazioni passionali che dietro le quinte non riconosce valide. L’abisso allestito da Pasolini è senza fondo. A muovere le marionette potrebbero essere gli dei – come dice Jean Cocteau «Gli dei esistono, sono il diavolo» – o il diavolo stesso nella sua emanazione deleteria chiamata passioni umane, gelosia, invidia, omicidio o, segnatamente, femminicidio.
Oltre alla grandezza poetica dell’operazione in sé, oltre alla significazione vertiginosa di vedere maschere pubbliche come Franco, Ciccio, Capannelle e Totò interpretare maschere scespiriane in forma di marionetta, oltre a una scelta di colori e costumi di rara bellezza filmica – Totò/Iago è letteralmente verde di invidia – oltre a una vicinanza estrema al pensiero del regista e dei suoi personaggi attraverso l’escamotage del dentro e fuori scena, con l’osceno che appare saggio e il rappresentato che risulta assurdo, il miracolo di questo capolavoro allarga la vorticosa voragine in una esterrefatta riflessione sull’esistenza, semplificata come un dialogo platonico riscritto per gente di periferia. Se Pier Paolo Pasolini voleva essere vicino agli ultimi e condividere con loro la genuinità della sua immensa cultura, niente avrebbe potuto ottenere un risultato migliore, apparentabile forse, pur nella minore umiltà, all’episodio La ricotta censurato dal film Ro.Go.Pa.G. del 1963.
Nell’operazione di avvicinamento ecumenico ai più sprovveduti spettatori del mondo s’inserisce l’elemento canzone, forma d’arte minore, modesta per sua natura, interpretata da Mister Volare, eclatante maschera dell’universo canoro internazionale non estranea al mondo dei pupi siciliani in quanto glorioso interprete del Rinaldo in campo di Garinei e Giovannini nel 1961. Dal casting alla canzone-collante dell’episodio, nulla è stato lasciato al caso. Il brano musicato da Modugno con il suo magnifico afflato dona al folle amore perduto uno struggimento lirico irresistibile.
Cosa sono le nuvole?
Che io possa esser dannato
se non ti amo
e se così non fosse
non capirei più niente.
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.
Ah, ma l’erba soavemente delicata
di un profumo che dà gli spasimi!
Ah, ah, tu non fossi mai nata!
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.
Il derubato che sorride
ruba qualcosa al ladro
ma il derubato che piange
ruba qualcosa a se stesso.
Perciò io vi dico
finché sorriderò
tu non sarai perduta.
Ma queste son parole
e non ho mai sentito
che un cuore, un cuore affranto
si cura con l’udito.
E tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.
Il protagonista della canzone soffre per amore ma rammenta che, se il derubato deve ridere del furto subìto per sentirsi meno derubato, l’innamorato abbandonato sorridendo del proprio destino avvertirà meno la perdita dell’amata. Una semplice strategia sconfessata dallo stesso poeta nel riconoscere al canto elegiaco scarsa efficacia: «Non ho mai sentito che un cuore, un cuore affranto si cura con l’udito».
Però che cosa sono le nuvole? Come quelle dei fumetti, sono i veicoli dei versi e del folle amore soffiato via dal cielo, presente nelle mille sue forme cangianti, nella straordinarietà di contenitori di lacrime celesti riavvolte in affascinanti pareidolie. L’esclamazione messa in bocca alla marionetta Totò nel finale, quando i due cadaveri non morti trasfigurano il terrore del trapasso nell’esperienza estetica ammirando le nuvole, «Ah straziante meravigliosa bellezza del creato», è la diretta asserzione del regista intento a sopire la tragedia esistenziale con una attenuazione tutta greca dell’orrore trascolorato nella bellezza. Il poeta, anche se sa che le parole non curano, non esita a usarle per attutire il brivido tra vita e morte. Lo stesso fa nella canzone lasciandosi andare all’estasi dell’erba «soavemente delicata di un profumo che dà gli spasimi».
Come Piero Ciampi ne Il vino, tre anni più tardi, caduto ubriaco in un fosso canta «e in mezzo all’acqua sporca mi godo queste stelle», o come la favoletta zen narra del disperato che tra il dirupo e le minacciose tigri sopra e sotto, abbarbicato a una vite rosicchiata dai topi riesce ad assaporare la squisitezza di una fragola sul ciglio del burrone, così le marionette morte eppure vive, abbandonate dal “mondezzaro” innamorato a fissare la meraviglia da una discarica affacciata sul cielo, apprezzano il prodigio incommensurabile delle nuvole, foriere di nuance, imprendibili creatrici di immagini fantasiose celebrate poi nel 1990 da una anziana voce femminile ne Le nuvole di Fabrizio De André. L’addomesticamento artistico dell’orrore teorizzato da Friedrich Nietzsche è offerto al pubblico nella sua prospettiva più ordinaria. Nel travaglio costante tra alto e basso, tra cielo e discarica, tra passioni umane e stupefazione estetica, sta la sintesi sublime di un grande drammaturgo classico moderno di nome Pier Paolo Pasolini.