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TIRI E TAROCCHI – Il Nuovo Realismo di Niki de Saint Phalle

TIRI E TAROCCHI – Il Nuovo Realismo di Niki de Saint Phalle

Estratto dal libro Psicovita di Niki de Saint Phalle di Marco Ongaro (Historica Ed. 2015)

Non è un caso se al primo esperimento di Tiro, con una carabina calibro 22 chiesta in prestito alle giostre della festa di carnevale, il teorico del Nouveau Réalisme Pierre Restany arruola sul campo Niki de Saint Phalle tra i membri del Movimento. Il tempo e la sua degradazione, come la raccolta di paccottiglia in disuso da inserire nell’opera d’arte, sono elementi del movimento artistico.

A ben pensarci, si tratta anche dell’emulazione del valore estemporaneo e caduco di un’esecuzione musicale, opera astratta che rimane in vita finché dura la performance ed è al massimo riaffermabile tramite documentazione registrata, su nastro sonoro per il concerto, su pellicola fotografica o filmica per la “scultura attiva” che si autodistrugge o che viene smantellata. Alla prima performance sono invitati i due fotografi Shunk e Kender, documentatori di un fatto irripetibile. L’happening: la performance in cui anche il pubblico è coinvolto come protagonista.

I Tiri passano dalla tridimensionalità del pannello composto di oggetti concreti, sovrapposti e affastellati, a una tetradimensionalità inevitabile grazie all’aggiunta dell’elemento tempo inserito nell’happening, con tanto di partecipazione del pubblico che spara o assiste all’esecuzione – nel senso più autenticamente giudiziario del termine – dell’opera in diretta. Una volta “eseguita” l’opera, una volta ucciso il quadro, potrà esserne acquistata ed esposta solo la carcassa, il cadavere che, come dice Niki, vive però una nuova vita.

La Morte è la carta del cambiamento negli Arcani Maggiori dei Tarocchi e l’artista ha dimestichezza con l’argomento fin dalla nascita. In una lettera all’amica artista Marina Karella, scrive del progetto di una sceneggiatura il cui tema sia l’artista torturato dal tempo. La fusione del tempo passato, futuro, presente. “Il tempo accelerato. Il tempo metafisico”. Alla fine l’artista si dà in sacrificio al ghiacciaio, consapevole che la sua giovinezza ne rimarrebbe imprigionata ed eterna.

Prima di essere il progetto di un film, l’argomento è stato un suo piano di suicidio perfetto, programmato vestendosi di tutto punto e facendosi ben pettinare, portando poi con sé una coperta, una torcia, una copia delle Elegie Duinesi di Rilke e un paio di pillole per favorire l’ultimo sonno, al cui seguito definitivo avrebbe provveduto il ghiacciaio. Un ultimo pasto, pillole per dormire, lettura con l’aiuto della torcia della quarta Elegia “e poi raggiungere le stelle”. Questo il progetto. “Niki è partita per la cena di mezzanotte, si è addormentata mentre beveva champagne”, questa la spiegazione offerta a Jean e agli amici, così nessuno si sarebbe sentito in colpa. La polmonite ha mandato a rotoli il piano due giorni prima della sua realizzazione, salvandole la vita.

La malattia che salva la vita, la corruzione che prelude alla rinascita.

L’idea della morte come passaggio necessario verso una nuova condizione, spesso di rinascita, è un tema comune alla saggezza dei Tarocchi e a qualunque altra saggezza trascendentale, inclusa quella cristiana. I quadri nei Tiri, pur con il carico di collera da liberare nella “bella violenza” della performance, sono una sublimazione di tale concezione. In una lettera esplicativa scritta a Pontus Hulten su sua richiesta, l’artista spiega che il primo Tiro pubblico “non è stato solo EMOZIONANTE E SEXY, ma anche TRAGICO, come assistere nello stesso tempo a una nascita e a una morte”.

Si pone di seguito alcune domande retoriche: “Il dipinto era la vittima. Chi era? Papà? Tutti gli uomini? Piccoli uomini? Uomini grandi? Grandi uomini? Gli uomini? Mio fratello Jean? O la pittura ero IO? Mi sono sparata attraverso un RITUALE che mi ha permesso di morire per mano mia e mi ha fatto rinascere?” I tentativi di risposta, com’era prevedibile, sono meno efficaci dei quesiti. Solo un dato di fatto personale convince, rimanendo appunto personale: durante i due anni di Tiri l’artista non si è mai ammalata, una terapia perfetta.

Mentre dal punto di vista culturale l’esperienza del Tiro si trasforma nel completamento dell’opera d’arte col contributo dei visitatori della mostra all’inaugurazione, aggiungendo alla quarta dimensione del tempo la quinta dimensione interattiva, dal punto di vista individuale la performance assume risvolti decisamente morbosi, a giudicare dall’affermazione di Niki nella medesima lettera quando parla di “una sensazione così difficile da descrivere come quella dell’atto d’amore”. Questa ammissione è coerente con la successiva confessione in merito all’abbandono dei Tiri dopo soli due anni di enorme successo.

“Mi sentivo drogata” scrive. “Ero diventata dipendente da questo macabro rituale, anche se era gioioso”. L’eccitazione durante i tiri la conduce in una trance estatica. “L’idea di perdere il controllo mi spaventa e io odio la dipendenza. Così ho rinunciato”. Aggiunge che quando in futuro si sarebbe trovata a soffrire di depressione e poi di artrite reumatoide al punto da riuscire a malapena a camminare, avrebbe comunque resistito alla tentazione di riprendere i Tiri per venirne fuori. “Serviva del nuovo, o niente. Ho rinunciato”. Il che la dice lunga sul valore profondo del suo impulso artistico, terapeutico certo, ma animato da un senso di missione capace di trascendere qualunque opportunismo, a partire dal vantaggio curativo sperimentato in partenza.

Il tempo è una dimensione mitologica potentissima, è la porta da cui tutto entra ed esce. Il veggente sbircia in avanti attraverso di esso, il Mago confonde il presente con apparizioni e sparizioni stupefacenti, fruga nel passato scrutando nella memoria dell’universo, influenza il futuro con sortilegi di cui si dimenticherà l’esistenza. Il tempo carica di energia i movimenti. Progresso e regresso scorrono e indietreggiano, si arrestano dominati dall’incertezza capovolta dell’Appeso. Dominare il tempo nel suo primo ciclo artistico è l’intuizione geniale di Niki. Il ghiacciaio del “Suicidio perfetto numero 2” è una superficie bianca da cui sgorgano i colori nascosti in profondità da Dio e dall’uomo, fluidi meravigliosi e potenti che solo il tempo spreme col suo impassibile incedere. Il sangue della terra, il cielo nascosto dietro la montagna nivea, tutto rimarrebbe immobile, addormentato per secoli se il Mago non sfruttasse la ricettività dell’Appeso per forzare la situazione costringendo il tempo a rivelarsi. Il Mondo mostra la sua faccia, se gli si spara contro. La Morte falcia la scena e fa sgorgare il sangue da ciò che è vivo. Ciò che il tempo impiegherebbe centinaia di anni a fare, l’Artista lo fa nel tempo di una seduta di tiro al bersaglio. Il Fuoco irrompe nella Terra e libera l’Acqua che con i suoi flutti colora e dona una forma compiuta al Mondo lasciando nell’Aria il sentore vagamente diabolico dello zolfo, il Diavolo della polvere da sparo. Tutto ciò è possibile grazie all’accelerazione impressa al tempo nel corso di uno spettacolo pubblico.

Un’idea geniale che il direttore del MOMA Bill Setz non apprezza, quando accusa Niki de Saint Phalle di aver fatto tornare indietro di trent’anni l’arte moderna. Ma questo non è forse un altro modo di riconoscere il potere esercitato dall’artista sul tempo? La scultrice constata che, essendo precedenti al Movimento di liberazione della donna, i Tiri hanno fatto scandalo. Ancora una volta un dominio sul tempo, l’arrivo in anticipo genera scalpore e prepara la strada. “Una graziosa giovane donna che tira con un cannone” scrive a Hulten “e che «rantola» contro gli uomini nelle sue interviste. Se fossi stata brutta, si sarebbe detto che avevo un complesso e mi avrebbero dimenticata”. Invece i media riconoscono la sua forza comunicativa, e la sua sovranità sul tempo.

Non c’è solo questo, certo, in questi due anni di performance. C’è davvero la rivalsa, la vendetta contro lo strapotere maschile osservato fin dall’infanzia. C’è la liberazione dalla dipendenza e dalla dissimulazione, il piacere di sfondare con la forza il muro di gesso dell’ordine imbalsamato tra religione, borghesismo, bigottismo, altrui-decisionismo (la lettera bruciata dal dottor S-Cossa oscilla nell’aria ad ogni sparo coi suoi lacerti di fiamma), l’affermazione della donna che vuole essere pari, se non superiore all’uomo, la rabbia e la ribellione contro i ruoli riconosciuti nella fissità della tradizione familiare. Chi più ne ha, più ne metta.

La forza della critica e dell’interpretazione può a posteriori distillare ogni singolo elemento sprigionato dalla semplice idea di creare un’opera d’arte davanti al pubblico mescolandola a strumenti di guerra. Rendere atto creativo una tradizionale comunicazione di morte costituisce di per sé un’inversione sufficiente a dare senso ai Tiri di Niki da qui all’anno Cinquemila. Questa è la buona guerra, la bella violenza, quella che non serve a spezzare membra e a recidere arterie, che non arresta la vita delle persone ma suggerisce istanze di libertà e uguaglianza tra i sessi, iniettando vitalità nelle religioni morenti col ripristino di un rituale vivo e pulsante. Nel sacrificio agli dei e agli uomini si sostituisce la carne dell’animale o dell’uomo in guerra raccogliendone i simboli e ridipingendoli, ricoprendoli di nuovo significato. L’urto del proiettile non uccide esseri viventi, immola al loro posto immagini che rimarranno a monito del rischio terribile che l’umanità corre ogni volta che imbraccia un fucile o un cannone. L’arte salva le vite sostituendosi come simulacro ai poveri esseri sacrificati finora come simulacri viventi. Non più armi di distruzione di massa, bensì armi di distrazione di massa.

Si può davvero proseguire all’infinito, e forse anche per questo Niki ha smesso. Non ha senso continuare in un processo che va avanti da solo. Una volta avviata la sua spirale eterna di significato, tanto vale lasciarla andare per proprio conto e rivolgersi a qualcos’altro.