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SUZANNE: LA PRIMA IMPRESSIONE SU LEONARD COHEN

SUZANNE – La prima impressione su Leonard Cohen

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista 
Inchiostro

Mai trascurare la prima impressione: è uno scrigno in cui ciascun gioiello nel mucchio gradualmente mostra il suo splendore. Guardi l’opera di un autore dopo la sua morte e ne noti l’imponenza. I brani più vicini al presente sono lì, più leggeri di quelli remoti che il tempo avrebbe dovuto lasciar scolorire. Le prime perle rilucono ancora intatte. L’incontro iniziale con una mente è sempre un’esperienza che mette alla prova l’interpretazione. L’impatto con la poesia di qualcuno è un esame sulla sua capacità di raggiungerti e sul tuo potere di decifrarla.

Il primo approccio a Leonard Cohen suscita sempre una sensazione di inadeguatezza. L’intelligenza dei suoi versi, anche della prosa dei suoi libri precedenti alle canzoni, rimanda a sottintesi che sembrano surclassare la tua capacità di comprendere, a concetti confinati in una zona impervia e inaccessibile. Sentimenti non detti ti sono sussurrati improvvisamente senza pudore. E usiamo il “tu” impersonale come lo usa lui in uno dei suoi brani più famosi: Suzanne. Ascoltando il racconto sulla mezza pazza, sciamanica folle capace di toccarti il corpo con la mente, l’impressione è che qualcosa sfugga alla tua comprensione, lo stesso vale per il Cristo descritto nella medesima canzone, dotato di qualcosa d’inafferrabile. Questa imprendibilità è parte del fascino segreto di Leonard Cohen.

Suzanne takes you down
To her place near the river
You can hear the boats go by
You can spend the night beside her
And you know that she’s half crazy
But that’s why you want to be there
And she feeds you tea and oranges
That come all the way from China
And just when you mean to tell her
That you have no love to give her
Then she gets you on her wavelength
And she lets the river answer
That you’ve always been her lover

And you want to travel with her
And you want to travel blind
And you know that she will trust you
For you’ve touched her perfect body with your mind

And Jesus was a sailor
When he walked upon the water
And he spent a long time watching
From his lonely wooden tower
And when he knew for certain
Only drowning men could see him
He said, “All men will be sailors then
Until the sea shall free them”
But he himself was broken
Long before the sky would open
Forsaken, almost human
He sank beneath your wisdom like a stone

And you want to travel with him
And you want to travel blind
And you think maybe you’ll trust him
For he’s touched your perfect body with his mind

Now, Suzanne takes your hand
And she leads you to the river
She is wearing rags and feathers
From Salvation Army counters
And the sun pours down like honey
On our lady of the harbor
And she shows you where to look
Among the garbage and the flowers
There are heroes in the seaweed
There are children in the morning
They are leaning out for love
And they will lean that way forever
While Suzanne holds the mirror

And you want to travel with her
And you want to travel blind
And you know that you can trust her
For she’s touched your perfect body with her mind

Senza riportare per esteso la traduzione letterale di un brano pubblicato da Cohen nel 1967, reso famoso in Italia dalla versione di Fabrizio De André del 1972, basta leggere

E quando seppe per certo / Che solo gli uomini che annegavano potevano vederlo / Disse: “Allora tutti gli uomini saranno marinai / Finché il mare non li libererà” / Ma lui stesso era a pezzi / Molto prima che il cielo si aprisse / Abbandonato, quasi umano / Affondò sotto la tua saggezza come una pietra

per notare come quel Gesù della seconda strofa, inserito tra due strofe dedicate alla già eterea e insondabile protagonista, si accorga della sua limitata influenza concreta scoprendo che solo gli uomini annegati possono vederlo. Il Cristo è un fantasma visto dagli spiriti dei naufragati, un fallito già ben prima che il cielo si apra per lui, un marinaio votato all’affogamento, un morto vivente che parla a morti inconsapevoli racchiusi in corpi vivi, bagnato della stessa stravaganza di Suzanne che con i suoi versi lo incornicia. Quasi umano, come lo sono i mezzi pazzi, come l’intestataria del brano, è un abbandonato che affonda sotto il peso della “tua” saggezza.

E riecco il “tu” impersonale. Ecco che la “tua” saggezza si mostra difettosa, incapace di cogliere le marezzature di una immaterialità superiore, e ti rende colpevole dell’affondamento dello spirito più disinteressato nella storia dell’uomo. Poco importa se in quel “tu” l’autore include pure se stesso. Ciò che a Cohen sfugge diviene poesia, ciò che a “te” sfugge della sua poesia diviene senso di inadeguatezza. E allora che fai?

E tu vuoi viaggiare con lui / Vuoi viaggiare cieco / E pensi che forse ti fiderai di lui / Perché ha toccato il tuo corpo perfetto / Con la sua mente

Cristo come Suzanne, e come Cohen stesso, ti affascina per quel tanto di indefinibile che ti lega a lui. La presunta perfezione del tuo corpo è attratta come una marionetta di latta dalla magnetica imperfezione, incomprensibile, della sua mente che si appropria della tua volontà avvolgendoti in un mistero insolubile fatto di aldilà e di aldiquà.

Vuoi seguirlo nell’area intermedia in cui il poeta si muove agevolmente, attraverso il passaggio privilegiato che Jean Cocteau individua negli specchi, dove viaggia l’imprecisabile e liquida Suzanne, che uno specchio stringe non a caso nell’ultimo verso dell’ultima strofa, la zona di cui Gesù, destinato a risorgere perché mai appartenuto interamente alla solidità del mondo, è indiscusso mistagogo. In un brano solo, in un ritornello che è un biglietto da visita, Cohen raggruppa la trascendenza, la bellezza, l’amore e la poesia, stimolando nell’ascoltatore al primo impatto la sensazione di essere al cospetto di un segreto mai del tutto svelato.

L’immagine della mente malferma di Suzanne incastona in sé il potere ultramondano di Gesù suggerendo un’affinità tra la mezza follia e la mezza divinità. Già il poeta provenzale Arnaut Daniel, cantato da Dante nel Purgatorio, abbinava versi d’innamoramento e versi religiosamente ispirati, idea da trovatori esperti. Non è una novità l’accostamento dei due mondi nell’autorevole Cantico dei cantici, che si trova nella Bibbia. In Suzanne, Cohen aggiunge la spiegazione del meccanismo responsabile della gravitazione tra queste due sfere ineffabili e necessarie, e nel farlo delinea il sortilegio che “ti” legherà alla sua poetica da lì in avanti.

Come Suzanne, l’autore ti insegna dove guardare tra le immondizie e i fiori. Lei, una dolce donna di cui senza volerlo sei sempre stato amante, pronta inizialmente a seguirti come invece alla fine sarai tu a fare; Gesù, un quasi umano in sintonia con gli spettri e con la fallibilità del reale; Cohen un aedo che avvicina dettagli insospettati, come Cesare Pavese suggeriva fosse compito del poeta; e poi “tu”, che sei un po’ tutti loro se solo ti alleggerisci della gravità di una saggezza solida e inamovibile: in questa miscela, la prima impressione “ti” attanaglia per sempre.

Le informazioni extratestuali che si possono leggere su Wikipedia, su chi fosse Suzanne e sulle dichiarazioni successive, sono storicizzazione cronachistica inutile alla comprensione della canzone. Ogni poesia degna di tale nome nasce da qualcosa e se ne affranca per sempre.

SCHEGGE ASSENNATE – Album di aforismi da Barthes a Warhol via Wilde

SCHEGGE ASSENNATE – Album di aforismi da Barthes a Warhol via Wilde

Estratto dall’introduzione del libro Guida ai grandi aforisti di  Marco Ongaro (Odoya Editrice 2018)

Roland Barthes, ritratto in quest’opera in uno spazio tutto suo, elabora una teoria dialettica di grande efficacia tra Album e Libro. Considerando il Libro l’organizzazione in vita o postuma dell’Album di un autore e postulando una gara tra le due strutture scritte quanto a durata, pone l’interrogativo su quale delle due forme di scrittura prevalga alla fine. Il Libro concepito intenzionalmente, ordinato secondo una predisposizione, un programma rispettato nei dettagli, l’Album inteso come coacervo di ispirazioni casuali, raccolta di osservazioni oscillante tra il diario e l’affastellarsi delle epifanie annotate senza una precisa intenzionalità organizzata. Nell’Album lo scheletro è assente, c’è uno “sparpagliamento antologico di parti”, elementi guidati da un ordine arbitrario, dal caso e dalle circostanze. Succede che l’Album diventi Libro prima della morte dell’autore, come nel caso della Ricerca del tempo perduto di Proust, o dopo la sua dipartita come per i Pensieri di Pascal. L’Album è frammentario, il Libro è un corpo interconnesso e ragionato. L’Album è rapsodico, come Il mio cuore messo a nudo di Baudelaire, il Libro è un cosmo concluso, come Madame Bovary di Flaubert.

L’intuizione geniale di Barthes sta nell’individuare una sfida in questa alternativa. Chi vincerà alla fine tra Album e Libro? Altrettanto acuta è la soluzione al quesito. Se il Libro è il risultato dell’assemblaggio di noticine e annotazioni varie, le paperolles proustiane, idee raccolte e osservazioni incidentali raggranellate in Album durante la fase preparatoria, il tempo e la memoria umana faranno sì che tali monadi strutturate si liberino presto o tardi dalla griglia ragionata che le ha incarcerate per tornare, quali macerie del Libro, alla loro naturale seppur nuova condizione di Album.

Narra a questo proposito un aneddoto tratto direttamente dalla sua vita, nella bella tradizione di autoanalisi con cui Barthes sempre si approccia alla cultura, attingendo cioè a una personale annotazione inserita non senza ironia nel suo corso La preparazione del romanzo.

“L’8 luglio 1979, nell’autobus 21, affollato, di domenica sera, verso le 21.00, accanto a me, imperturbabile, una quarantenne, armata di un righello e una Bic nera, sottolinea quasi tutte le frasi di un libro (non ho potuto vedere quale)”.

Corrobora l’episodio con un’annotazione dalle Mémoires d’outre-tombe in cui Chateaubriand racconta di come Joubert strappasse dai libri le pagine che non gli piacevano, creandosi una biblioteca personale composta di “opere svuotate, racchiuse in copertine troppo grandi”. L’esperienza di vita trova conferma in un’esperienza tramandata nella scrittura, perciò è vera. Il linguaggio crea la realtà e la realtà conferma il linguaggio.

Del Libro rimane dunque la citazione, la frase memorabile che ha letto noi nel momento in cui la si leggeva, prerogativa del classico. Come il classico è costituito dalle vestigia di civiltà un tempo floride e compiute, così il nuovo Album di un individuo, di una cultura, di una società è formato da ciò che ha prevalso nel mare magnum della scrittura, le rovine sopravvissute alle mutazioni delle epoche, resti di un naufragio portati a riva da imperscrutabili maree.

Brani di Jung convivono con pensieri di Freud senza alcuna considerazione della ruggine trascorsa fra i due padri della psicoanalisi. Marcel Proust e Eugène Sue condividono brandelli di memoria letteraria, Jean Cocteau e Andy Warhol partecipano di emozioni simili a dispetto delle rispettive correnti artistiche. I frammenti del Libro giunti a creare il nuovo Album appartenevano a costruzioni compatte, erano sequenze racchiuse in consequenzialità pensate con fatica. Ora sono brandelli di idee riposizionati secondo ordini casuali o associativi, indipendenti dalla loro collocazione temporale e logica.

L’aforisma è la forma d’arte, sintetica ed efficace a un tempo, che meglio rappresenta lo scrittore scomparso nel momento in cui la memoria dell’uomo artista torna ad affermarsi in qualche anniversario, della nascita o della morte. Chi riempie taccuini su taccuini, notturni e diurni, chi scrive sulle tovaglie delle trattorie o sui volantini pubblicitari è portato per natura a essere epigrammatico nei giudizi e nei commenti. Quando si raccolgono i suoi scritti e li si cataloga, gli apoftegmi si stagliano come gemme in una miniera di carbone.

Se poi la forma di scrittura scelta è quella che usa le massime come mattoni su cui edificare l’architettura dell’opera, è evidente che esse vengano in superficie e rimangano come documento vivo della sua arte. L’aforisma è la memoria di un pensatore, l’apoftegma è l’arguzia di un comunicatore. Entrambi sono punte d’iceberg che annunciano o ricordano momenti pregnanti di scrittura ormai sommersa.

Si trattasse del Libro o dell’Album dell’autore, come per i diari di Flaubert o Kafka, per le lettere a padri, fidanzate, amici, amanti, materiali la cui frammentarietà originaria conferisce statuto autorevole di fonte per estrapolazioni d’ogni sorta, l’emersione postuma in forma pregna e sintetica delle citazioni sancisce ora l’effettiva vittoria dell’Album sull’effimero assestamento del Libro. La tendenza necrofila ad assorbire ogni dettaglio di un autore dopo il suo distacco terreno raggiunge apici che sconfinano nella leggenda, riferendo frasi riferite, come “muoio al di sopra dei miei mezzi” pronunciata da Wilde nell’ultimo hotel della sua vita o “questo libro non l’ho letto e non l’ho neanche recensito” attribuita a Flaiano senza suggerirne con precisione l’origine.

Il famoso discorso di Wilde a definizione dell’amore “che non osa pronunciare il suo nome” rappresenta una delle miscele aforistiche extratestuali più significative, non essendo stato scritto dall’autore bensì declamato in tribunale a propria difesa poco prima della condanna ai lavori forzati per sodomia. Riferito direttamente dal cancelliere di un tribunale ha forse più legittimità di poche parole dette a un amico in un caffè, nondimeno rimane paradossale la sua inclusione nell’Album wildiano al pari, se non con maggiore successo, dei suoi scritti volontari, ragionati, interpuntati con precisa intenzionalità, o di brani destinati alla memoria precaria di argute conversazioni.

IL DESTINO DEL DESTINO – Da Gounod a Sofocle senza ritorno

IL DESTINO DEL DESTINO – Da Gounod a Sofocle senza ritorno

Estratto dal libro Elogio della puntualità di Andrea Battista e Marco Ongaro (Giubilei Regnani Editrice 2014)

Nel 1927 due uomini stanno viaggiando nella regione delle Alpi Marittime francesi. Si fermano a una locanda e conversano ad alta voce di ciò che interessa maggiormente loro: la musica, la poesia. Si mettono a enumerare le arie del Faust di Charles Gounod nelle quali, concordano, il compositore ha superato se stesso. Uno degli interlocutori dichiara che talune hanno l’andatura del sogno. Un signore si alza dal tavolo accanto e si presenta: è il nipote di Gounod. Racconta loro che il compositore ottocentesco aveva effettivamente sognato quelle melodie del Faust per poi annotarne le note al risveglio.

A rendere straordinario l’aneddoto è la conferma dell’impressione espressa dai due signori, di per sé sbalorditiva, ma soprattutto la coincidenza dell’incontro, se si considera che i due onorati dalla confidenza del nipote di Gounod erano il poeta Jean Cocteau e il compositore Igor Stravinskij in viaggio di collaborazione per la stesura dell’opera-oratorio Œdipus Rex, che quell’anno avrebbe debuttato a Parigi al Théatre Sarah Bernhardt.

Quante probabilità c’erano che tre personaggi di tal fatta s’incontrassero in una guinguette della riviera franco-mediterranea e che in quell’esatto momento due di loro parlassero di un’opera il cui autore aveva depositato testimonianza spirituale presso il proprio nipote seduto al tavolo accanto? Nel rimarcare il carattere innocuo di questa manifestazione del Meraviglioso è impossibile non ravvisare la trama di un appuntamento inconscio, gentilmente soprannaturale, inspiegabile attraverso gli strumenti della scienza – com’è appunto prerogativa del Meraviglioso – tuttavia di indiscutibile puntualità.

Da notare: l’opera che Cocteau e Stravinskij stanno mettendo a punto in questo viaggio è, si è detto, l’Œdipus Rex, adattamento del poeta francese dal testo tragico greco di Sofocle. Tragedia che tre anni più tardi lo stesso Cocteau rielaborerà nella pièce teatrale La macchina infernale.

Ora, se esiste una storia che simbolicamente rappresenta alla perfezione il gioco degli appuntamenti inconsci, con o senza destino, dei piedi dell’uomo che “lo portano dove egli è atteso”, questa è la narrazione eterna della tragedia edipica. Per dirla con Stefano Jacomuzzi dell’Università di Torino, che ha scritto l’introduzione alla pubblicazione italiana del dramma di Cocteau: «Gli dei hanno davvero approntato una macchina infernale, che nessuna forza può far scattare a vuoto. La casualità occasionale degli incontri e dei gesti di Edipo si colora fin dall’inizio della beffarda, più che tragica fatalità. Il Caso e il Fato coincidono: il primo offre i momenti, i luoghi, gli appuntamenti, le circostanze, le coincidenze, le parole per la ferrea catena degli accadimenti imposti dall’altro».

Riassumendo in breve il meccanismo a orologeria che presiede alla vicenda della stirpe di Laio, ci si rende conto della trappola inesorabile approntata da forze superiori in una serie di appuntamenti reconditi cui i poveri esseri umani cercano inutilmente di sfuggire.

A Laio, re di Tebe e marito di Giocasta, l’oracolo di Delfi annuncia che se avranno un figlio: «Egli ucciderà suo padre. Sposerà sua madre». Concepito comunque in una notte di ebbrezza, il neonato è abbandonato sulla montagna con i piedi forati e legati. Un pastore corinzio lo trova e lo consegna agli sterili regnanti di Corinto, Polibo e Merope, che lo adottano col nome di Edipo, ossia Piedi forati.

Cresciuto, il ragazzo s’insospettisce sulle sue origini in seguito a un alterco con un ubriaco che gli ha dato del bastardo. Interroga allora l’oracolo di Delfi che dà il solito responso: «Ammazzerai tuo padre e sposerai tua madre». Per non nuocere a chi crede siano i suoi genitori, decide di non tornare a Corinto e prende la direzione di Tebe. A un crocicchio incontra una scorta. Viene urtato da un cavallo, scoppia una contesa, un servo lo minaccia, reagisce con una bastonata. Il colpo mal diretto ammazza il signore. Il vecchio ucciso è Laio, re di Tebe, che si stava recando a Delfi a chiedere responso per liberare la sua città dal flagello della Sfinge. Senza saperlo, all’incrocio delle strade di Delfi e di Daulia, Edipo ha ucciso suo padre.

La scorta, orbata del re, si dà alla fuga mentre il giovane prosegue il suo tragitto. In una sosta apprende che la “Cagna canora” decima la gioventù tebana incapace di risolvere l’indovinello da lei proposto. La vedova di Laio, Giocasta, offre il regno e la mano al vincitore della Sfinge. Edipo sfida la “Fanciulla alata” e ne indovina l’enigma liberando così la città. Entra trionfante a Tebe e sposa la regina. Senza saperlo, sposa sua madre.

Ciascun appuntamento fissato dall’oracolo è stato rispettato con assoluta precisione, grazie all’ignoranza che circonda un verdetto oracolare di proverbiale laconicità. Gli uomini vogliono conoscere il futuro e poi cercano di evitarlo: nel tentativo, gli finiscono dritti in bocca. Questa è la beffa che il poeta tragico canta, commosso dal vano dibattersi dei suoi simili al cospetto del soprannaturale.

L’aspetto commovente della vicenda è l’insistenza con cui l’essere umano cerca di rapportarsi con il trascendente attraverso l’oracolo, il che lo espone al primo e massimo dei paradossi: se quanto annunciato è stato letto nel futuro, è inutile tentare di modificarlo poiché è già successo.

Allora a cosa serve indagarlo in anticipo? Solo l’ansia di sapere tipica dell’uomo lo lascia in balia del suo futuro. Meglio costruire il destino da sé tenendo aperto l’avvenire nell’illusione che non si sia ancora verificato. Così ciascun appuntamento rimane segreto e il suo puntuale verificarsi costituirà una sorpresa. Ma non è forse la paura di brutte sorprese a muovere l’uomo verso gli oracoli? Ebbene, la storia di Edipo gli serva di lezione per non spiare più attraverso la serratura del non ancora accaduto.