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Un poeta può nasconderne un altro: Serge Gainsbourg

UN POETA PUÒ NASCONDERNE UN ALTRO: SERGE GAINSBOURG
Introduzione al libro di Marco Ongaro Un poeta può nasconderne un altro – Il senso per la parola di Serge Gainsbourg (Caissa Italia Editore)

Viaggiando in auto in Francia, ai passaggi a livello capita di leggere l’avvertenza: «Un train peut en cacher un autre», che significa «Un treno può nasconderne un altro». È un cartello posto all’attenzione di chi si trova a trepidare sull’orlo dei binari affinché sappia che un treno ben visibile potrebbe non essere l’unico pericolo in caso di attraversamento. L’impazienza potrebbe condurre sotto le ruote di un convoglio celato alla vista da un suo simile. È un avviso che non figura in corrispondenza delle croci di Sant’Andrea in altre nazioni, una premura cautelativa che le ferrovie francesi, SNCF, hanno ritenuto di apporre in conseguenza di alcuni incidenti o forse allo scopo di evitarli.
Il gusto cronico di Serge Gainsbourg per il calembour, la sua sensibilità  per le parole,  per le frasi fatte da ribaltare, la sua passionalità legata alle vibrazioni alfabetiche non l’hanno lasciato indifferente di fronte a un’occasione così ghiotta. Un parere bell’e pronto per essere vampirizzato e modificato come strumento di lancio di un altro concetto, meno concreto e proprio per questo molto più esteso. «Un amour peut en cacher un autre», «Un amore può nasconderne un altro», amplia l’orizzonte dalle rotaie francesi alla sfera sentimentale di chiunque a qualsiasi latitudine. La parola amore, trattandosi ora di poesia e non più di un cartello segnaletico, esplode in miriadi di altri significati, dal desiderio alla passione, dal sentimento alla persona che ne è oggetto, dal soggetto di un’avventura alla tensione di chi vi riversa le proprie aspettative, dall’egoismo del piacere alla diffusione di un altruismo totalitario. Un amore salta di qua e di là dalla carreggiata del senso zigzagando tra le accezioni e le sfumature più o meno evocative. Anche un treno, fosse stato messo in fila dal poeta Gainsbourg assumerebbe infinite sfumature di significato, figurarsi un amore. Un amore può nasconderne un altro: attenzione. Nella forma sintattica dell’avvertenza si cela già una confessione. Chi è sotto i suoi occhi non sa più che cosa ami di lei o se sia proprio lei l’amata. Non sa se non siano piuttosto la madre, la sorella gemella, la prima moglie, una nipote di Tolstoj, una delusione adolescenziale, un’immagine femminile su un poster, una bambina o chissà chi altro a richiamare un bisogno di sostituzione duro da ammettere. Dietro a una sostituzione rimossa balena la scintilla di una frustrazione.
Il poeta Gainsbourg, già pittore, cantautore e autore di successi dell’estate, attore, romanziere, regista cinematografico e pubblicitario, provocatore dandy e icona dell’autodistruzione dichiara «Le parole veicolanti le idee, e non le idee veicolanti le parole. Primordiale. Niente parole niente idee». E ancora: «Non ho delle idee, ho delle associazioni di parole, come i surrealisti: carenza di idee. Questo nasconde un vuoto assoluto, sono sottovuoto». Il calembour è sempre in agguato, come quando afferma: «Fino alla decomposizione, io comporrò». Se un treno può nasconderne un altro e un amore può nasconderne un altro, si può essere più basilari e azzardare che una parola possa nasconderne un’altra: l’anima del gioco di parole sta tutta lì.
Come pure una vita può nasconderne un’altra.


La propria non corrisponde ai desideri, mai del tutto, anche la più fortunata. L’uomo è un assemblaggio di insoddisfazioni tenute insieme dall’alternanza di successi e sconfitte. Chi ha tutto ciò che vuole sull’ottovolante della quotidianità dovrebbe esserne sazio invece di frantumarsi il cuore con fumo e alcol anticipando l’oblio della morte a ogni sbornia. A meno che non sia un poeta, quella particolare creatura che vive a metà tra l’aldilà e ciò che è definito reale, l’individuo sacro suo malgrado che porta il fardello consapevole della tragedia umana. Per quanto nichilista, aqualescopista, epicureo scopatore e consumatore accanito di bellezza, il poeta è scorticato vivo, come dicono i francesi, senza pelle, una sigaretta che brucia ai due lati, l’incaricato della sopportazione universale da parte di un Dio cui neanche crede. Non può essere felice neanche quando lo è. Jean Cocteau lo definisce «Un essere indispensabile, non si sa a cosa». Ma può sembrare qualcos’altro da sé, può mostrarsi aedo di altri mondi a un mondo che lo capirà, forse, solo dopo la sua morte. L’esistenza sotto i riflettori sembra invidiabile e lo è, ma può nascondere un’altra esistenza: il peggiore sguardo diretto sulla metafisica. Non c’è abbastanza ingegno in giro per comprendere ciò che sta facendo, eppure continua a farlo. Instancabile, sempre in bilico tra i due regni. È scampato all’aborto, alla deportazione e alla Shoah, non solo la vita ma la sua stessa morte può nasconderne molte altre.
Chi è il poeta in questione e di quale poesia va cianciando? È il giustiziere venuto a rimettere in ordine le tristezze degli anni Quaranta portandole attraverso lo swing cinico dei Cinquanta fino all’esplosione shock dei Sessanta festanti sulle aiuole delle fanciulle in fiore? L’eroe dei Settanta psichedelici e degli Ottanta per legionari gay rockeggianti intorno al bunker nazi di una discoteca rasta? Questo poeta si nasconde dietro un altro poeta che prima di tutto è un artista. Il pittore ha scelto «un’arte minore che piace ai minori», quella della canzonetta estiva, dopo aver duettato a distanza con la canzone maiuscola e irridente di Boris Vian, con l’esistenzialismo scabro di Juliette Gréco, e si appresta a épater les bourgeois come a loro piace con il vezzo delicato di scarti di vocale e sciarade che apparentemente non significano granché. Tutto è superficiale se lo si guarda in superficie.
Il poeta stupisce sì, ma con innocenza. A volte giocando con le parole sporche come i bambini. Mostra l’intelligenza come un bene casuale, con timidezza sufficiente a mascherare il dispetto per un aspetto fisico indesiderato che dovrà pur diventare un punto di forza. Come il Riccardo III shakespeariano si sfida a conquistare la mano della bellissima Anna che sta seppellendo il marito da lui ucciso, così il poeta Gainsbourg riveste di attrazione la propria “deformità” e si circonda delle donne più avvenenti insinuando nel gusto generale il relativismo di un’estetica in continua discussione. Ora l’inverno del suo scontento è mutato in estate gloriosa grazie al sole di Brigitte Bardot. La Bestia attira la Bella e la espone come trofeo, massimo atto poetico che scardina la stolida solidità del pensiero in esilio nel luogo comune. È bello ciò che piace, la bellezza contamina il suo opposto rivelando il Principe nascosto nel rospo. La favola bella li vedrebbe vivere felici e contenti, ma il poeta è un harakiri ambulante e si decompone componendo, corre su un Orient Express che nasconde una Transiberiana e ciò che lascia è la sua unica meta: la poesia.

La poesia, dal greco ποίησις, poiesis, con il significato di “creazione”, non è la semplice messa in fila di parole su una riga che va a capo prima della fine, non è neanche il puro accostamento di termini in una comunicazione fallita che richiede una decodifica, e non è l’accostamento di note musicali a testi di alta o bassa pretesa. La poesia nel suo senso etimologico, nella lingua in cui Aristotele la menzionava, è creazione. Tutto vi si presta: parole, musica, colori, forme, azioni, imitazioni di azioni, narrazione, dialoghi, vittorie, disastri, gourmet e scatologia, in breve: la vita. La poesia è la creazione della vita, un’opera d’arte spesso riassunta in un insufficiente epitaffio.
L’opera può essere la vita e la vita può essere l’opera. Serge Gainsbourg ha voluto abitare più di un anno nell’albergo parigino in cui Oscar Wilde è morto, identificandosi platealmente con lo scrittore irlandese e il suo paradosso tra genio e talento, vita e arte. Le due si compenetrano e sostituiscono, mescolate si rivelano. Distinte, l’una mostra l’altra. Un poeta che lascia al mondo la sua poesia lascia in eredità la sua vita.
Che può nasconderne un’altra.

SCHEGGE ASSENNATE – Album di aforismi da Barthes a Warhol via Wilde

SCHEGGE ASSENNATE – Album di aforismi da Barthes a Warhol via Wilde

Estratto dall’introduzione del libro Guida ai grandi aforisti di  Marco Ongaro (Odoya Editrice 2018)

Roland Barthes, ritratto in quest’opera in uno spazio tutto suo, elabora una teoria dialettica di grande efficacia tra Album e Libro. Considerando il Libro l’organizzazione in vita o postuma dell’Album di un autore e postulando una gara tra le due strutture scritte quanto a durata, pone l’interrogativo su quale delle due forme di scrittura prevalga alla fine. Il Libro concepito intenzionalmente, ordinato secondo una predisposizione, un programma rispettato nei dettagli, l’Album inteso come coacervo di ispirazioni casuali, raccolta di osservazioni oscillante tra il diario e l’affastellarsi delle epifanie annotate senza una precisa intenzionalità organizzata. Nell’Album lo scheletro è assente, c’è uno “sparpagliamento antologico di parti”, elementi guidati da un ordine arbitrario, dal caso e dalle circostanze. Succede che l’Album diventi Libro prima della morte dell’autore, come nel caso della Ricerca del tempo perduto di Proust, o dopo la sua dipartita come per i Pensieri di Pascal. L’Album è frammentario, il Libro è un corpo interconnesso e ragionato. L’Album è rapsodico, come Il mio cuore messo a nudo di Baudelaire, il Libro è un cosmo concluso, come Madame Bovary di Flaubert.

L’intuizione geniale di Barthes sta nell’individuare una sfida in questa alternativa. Chi vincerà alla fine tra Album e Libro? Altrettanto acuta è la soluzione al quesito. Se il Libro è il risultato dell’assemblaggio di noticine e annotazioni varie, le paperolles proustiane, idee raccolte e osservazioni incidentali raggranellate in Album durante la fase preparatoria, il tempo e la memoria umana faranno sì che tali monadi strutturate si liberino presto o tardi dalla griglia ragionata che le ha incarcerate per tornare, quali macerie del Libro, alla loro naturale seppur nuova condizione di Album.

Narra a questo proposito un aneddoto tratto direttamente dalla sua vita, nella bella tradizione di autoanalisi con cui Barthes sempre si approccia alla cultura, attingendo cioè a una personale annotazione inserita non senza ironia nel suo corso La preparazione del romanzo.

“L’8 luglio 1979, nell’autobus 21, affollato, di domenica sera, verso le 21.00, accanto a me, imperturbabile, una quarantenne, armata di un righello e una Bic nera, sottolinea quasi tutte le frasi di un libro (non ho potuto vedere quale)”.

Corrobora l’episodio con un’annotazione dalle Mémoires d’outre-tombe in cui Chateaubriand racconta di come Joubert strappasse dai libri le pagine che non gli piacevano, creandosi una biblioteca personale composta di “opere svuotate, racchiuse in copertine troppo grandi”. L’esperienza di vita trova conferma in un’esperienza tramandata nella scrittura, perciò è vera. Il linguaggio crea la realtà e la realtà conferma il linguaggio.

Del Libro rimane dunque la citazione, la frase memorabile che ha letto noi nel momento in cui la si leggeva, prerogativa del classico. Come il classico è costituito dalle vestigia di civiltà un tempo floride e compiute, così il nuovo Album di un individuo, di una cultura, di una società è formato da ciò che ha prevalso nel mare magnum della scrittura, le rovine sopravvissute alle mutazioni delle epoche, resti di un naufragio portati a riva da imperscrutabili maree.

Brani di Jung convivono con pensieri di Freud senza alcuna considerazione della ruggine trascorsa fra i due padri della psicoanalisi. Marcel Proust e Eugène Sue condividono brandelli di memoria letteraria, Jean Cocteau e Andy Warhol partecipano di emozioni simili a dispetto delle rispettive correnti artistiche. I frammenti del Libro giunti a creare il nuovo Album appartenevano a costruzioni compatte, erano sequenze racchiuse in consequenzialità pensate con fatica. Ora sono brandelli di idee riposizionati secondo ordini casuali o associativi, indipendenti dalla loro collocazione temporale e logica.

L’aforisma è la forma d’arte, sintetica ed efficace a un tempo, che meglio rappresenta lo scrittore scomparso nel momento in cui la memoria dell’uomo artista torna ad affermarsi in qualche anniversario, della nascita o della morte. Chi riempie taccuini su taccuini, notturni e diurni, chi scrive sulle tovaglie delle trattorie o sui volantini pubblicitari è portato per natura a essere epigrammatico nei giudizi e nei commenti. Quando si raccolgono i suoi scritti e li si cataloga, gli apoftegmi si stagliano come gemme in una miniera di carbone.

Se poi la forma di scrittura scelta è quella che usa le massime come mattoni su cui edificare l’architettura dell’opera, è evidente che esse vengano in superficie e rimangano come documento vivo della sua arte. L’aforisma è la memoria di un pensatore, l’apoftegma è l’arguzia di un comunicatore. Entrambi sono punte d’iceberg che annunciano o ricordano momenti pregnanti di scrittura ormai sommersa.

Si trattasse del Libro o dell’Album dell’autore, come per i diari di Flaubert o Kafka, per le lettere a padri, fidanzate, amici, amanti, materiali la cui frammentarietà originaria conferisce statuto autorevole di fonte per estrapolazioni d’ogni sorta, l’emersione postuma in forma pregna e sintetica delle citazioni sancisce ora l’effettiva vittoria dell’Album sull’effimero assestamento del Libro. La tendenza necrofila ad assorbire ogni dettaglio di un autore dopo il suo distacco terreno raggiunge apici che sconfinano nella leggenda, riferendo frasi riferite, come “muoio al di sopra dei miei mezzi” pronunciata da Wilde nell’ultimo hotel della sua vita o “questo libro non l’ho letto e non l’ho neanche recensito” attribuita a Flaiano senza suggerirne con precisione l’origine.

Il famoso discorso di Wilde a definizione dell’amore “che non osa pronunciare il suo nome” rappresenta una delle miscele aforistiche extratestuali più significative, non essendo stato scritto dall’autore bensì declamato in tribunale a propria difesa poco prima della condanna ai lavori forzati per sodomia. Riferito direttamente dal cancelliere di un tribunale ha forse più legittimità di poche parole dette a un amico in un caffè, nondimeno rimane paradossale la sua inclusione nell’Album wildiano al pari, se non con maggiore successo, dei suoi scritti volontari, ragionati, interpuntati con precisa intenzionalità, o di brani destinati alla memoria precaria di argute conversazioni.

ELEGANZA DELLA POESIA, POESIA DELL’ELEGANZA – Beau Brummel e George Byron

ELEGANZA DELLA POESIA, POESIA DELL’ELEGANZA – Beau Brummel e George Byron

Estratto dal libro Elogio dello snob di Marco Ongaro (Historica Ed. 2017)

Primo tra i dandies George Bryan (Beau) Brummel, è vissuto tra il 1778 e il 1840 in Inghilterra e poi in Francia dove morì in esilio. Campione del dandismo e figura cardine dello snobismo in tutta la sua ambiguità, Lord Brummel mai fu Lord pur ricevendone l’appellativo, studiò a Eton, poi passò a Oxford da perfetto snob all’inseguimento del Principe di Galles di cui divenne amico prima di alienarsene le grazie.

La forza di Brummel stava nella sua convinzione di superiorità, una convinzione di superiorità, per dirla con il Duca di Bedford, probabilmente nata e cresciuta in seno alla consapevolezza di un’inferiorità oggettiva. Di umili origini, il suo massimo merito, per il quale ancora lo si annovera tra i “nobili” – i famosi – è stato di rendere talmente evidente la raffinatezza del gusto da imporla come manifestazione sostanziale di una elevatezza tutta da dimostrare.

Il disinteresse per la natura – riconosciuta come religione da sconfessare dal suo più noto successore Baudelaire – e l’indifferenza per qualunque altra problematica del mondo sono state le armi critiche che hanno permesso a Brummel d’innalzarsi sopra il suo rango, mostrando alla società l’inconsistenza dei valori cui la società affettava di tenere.

Attribuendo all’eleganza l’unica importanza nel vivere, Brummel sbatte in faccia ai sacerdoti del decoro la loro ipocrisia, snobba ogni pretesa preoccupazione per il miglioramento sociale e accusa di peccare dello stesso cinismo chiunque riconosca in lui la “nobiltà”.

Molto diverso in questo dal dandy a intermittenza George Byron, secondo lo scrittore francese Barbey d’Aurevilly (1808-1888) autore di un saggio sul dandismo, il dandy Brummel è un concentrato di libertinismo senza seduzione seriale. Un Don Giovanni di Molière che disdegna fanciulle e fanciulli, giacché l’eros, come ogni passione che non riguardi il vestire, non si sottrae al tedio dell’insieme del creato e alla noia degli individui inferiori, cioè tutti gli altri.

La grandezza di Brummel sta nella capacità d’incarnare in un solo corpo entrambi i movimenti dello snobismo: quello verso l’alto che vorrebbe elevare l’uomo di bassa schiatta in virtù di nobili eccellenze assimilate e quello del superiore che indolente vorrebbe asserire l’inesistenza di chi cerca di avvicinarsi all’altezza del suo rango, l’incolmabile distinzione che lo separa da tutti.

In un’epoca come la sua, l’abbigliamento distingueva davvero le persone, il cencioso era cencioso e l’elegante era nobile perché poteva permetterselo. Ma già la ricchezza borghese imbrogliava le carte, permettendo a gente come lui di studiare nelle università e di abbigliarsi secondo criteri al di sopra del proprio censo, al di là del proprio orientamento sessuale presunto. Da qui la necessità di una nuova distinzione, che il Beau cavalcò come la più fiera delle tigri. Fiera di cosa? Ma delle vanità, è ovvio.

George Byron (1788-1824) era un vero nobile che riconosceva la superiorità della poesia – si spese per aiutare lo sfortunato John Keats che di nobile aveva solo quella – era un seduttore inveterato, bisessuale e incestuoso, un vero libertino che pose tra le sue opere più lunghe e incompiute un Don Juan di estrema purezza.

Un uomo divorato dalla noia e dalla passione al punto di morire sull’isola di Missolungi nel tentativo di togliere la Grecia agli Ottomani per restituirla agli dei dell’era classica. Del dandy cosa condivideva Lord Byron con “Beau” Brummel, se non l’impudenza verso ogni nobiltà non conquistata? Nobile in disgrazia per la rovina delle sostanze di famiglia per opera di un prozio, Byron era snob in entrambe le direzioni. Si guadagnava da vivere grazie al successo dei suoi versi ed era malvisto alla Camera dei Lord per i numerosi scandali della sua vita licenziosa, tra cui quello di una figlia nata dall’amore con la sorellastra Augusta.

In esilio dall’Inghilterra, il Byron dal piede caprino, tocco satanico dovuto a un tendine d’Achille troppo corto dalla nascita, se ne fregò bellamente dell’alto lignaggio sancito dalla sua casata, cercando di meritarne di più concreti: quello sommo della Poesia, quello armato di una causa gloriosa. Snob perché incurante delle barriere sociali, dandy per l’eleganza, il gusto e l’insolenza, il VI barone di Byron rappresenta dall’alto il disprezzo per i privilegi acquisiti quanto Brummel lo ha rappresentato dal basso.

Entrambi sono stati costretti all’esilio, come poi sarà momentaneamente per Charles Baudelaire in Belgio per sfuggire ai creditori, per Oscar Wilde in Francia sommerso dalla patria impopolarità e per James Joyce in fuga volontaria dalle mediocri guerre di religione d’Irlanda. Ma Byron, Baudelaire, Wilde e Joyce avevano dalla loro la poesia, Brummel aveva solo la ricercatezza del vestire e una smisurata presunzione di superiorità.

Questa fu la sua poesia. L’attribuire sconfinata importanza alle frivolezze era l’unico lato nobiliare di cui amò impossessarsi, essendo l’unica manifestazione esteriore di chi non ha bisogno di nulla. L’assenza del bisogno o la sua ostentata noncuranza è irrinunciabile prerogativa di chi ha tutto.

Per il buddismo il desiderio è l’essenza della trappola dell’universo, per l’induismo è la fonte della sofferenza, per Brummel il confinamento del desiderio nel solo regno della futilità è rigore intellettuale senza scappatoie. Una frivola forma di ascesi.

Il talento nell’eleganza non viene dalla nascita ma si coltiva grazie a un’inclinazione, pure innata, verso la squisitezza, che etimologicamente riporta alla “ricerca” quale unica via per una distinzione senza scorciatoie. Data la meta di distinguersi dalla volgarità delle moltitudini – il popolo è volgare per definizione – come i nobili di nascita hanno avuto in sorte, ecco apparire nel proto-dandy l’ispirazione di insegnare pure a loro la vera squisitezza. Virtù che paradossalmente non s’impara.

Il dandy Brummel dunque rimane solitario sul baluardo dell’eleganza a guardare in basso le migliaia che si azzuffano nel tentativo di raggiungere l’eccellenza nell’abbinamento di una cravatta a un solino, scienza di cui lui mantiene insindacabile giudizio. Più gli altri cercano di eguagliarlo nel gusto e più riconoscono la propria sudditanza alla futilità. Più cercano di distinguersi somigliandogli, e meno sono distinti. Così il dandy vince la sua guerra di denuncia, costringendo ogni snob, in alto e in basso, a mostrare la propria effettiva distanza dalle cose importanti nel mondo.

Il poeta non può che essere dandy, inascoltato esploratore del mistero dell’esistenza, unico interprete ispirato dell’aldilà, veggente inviso alla concretezza, dedito a escursioni in ciò che vi è di più vano: la parola, volatile e imprendibile. Il dandy non necessariamente è poeta.

La sua poesia è un’ossessione specialistica per il dettaglio dell’abito, che risulta nello smascheramento della futilità altrui. Perciò Byron, diviso tra essenze poetiche e politiche voluttà, ebbe a dire: «Brummel è uno dei maggiori uomini del diciannovesimo secolo; egli occupa il primo posto, al secondo c’è Napoleone e al terzo ci sono io».