Archivi tag: Parigi

MA I POSTER SOGNANO SPETTACOLI VIVENTI?

MA I POSTER SOGNANO SPETTACOLI VIVENTI? – Il deserto dei vecchi manifesti – Estratto da Il Negro di Marco Ongaro

La cosa che più colpisce il cuore dopo il confinamento per il virus sono i manifesti degli spettacoli annunciati, appesi ai muri, fermi sulle date fissate e mai perfezionate dall’esibizione. Date nate morte. Il mondo è entrato nel bunker e quando ne è uscito, ammesso che ne sia uscito, ha trovato il calendario di prima: nessuno ha voltato le pagine. Vero segno della catastrofe, del risveglio nella distopia. Nessuno ha suonato, l’attore non ha recitato, la pièce non è andata in scena, il teatro è rimasto chiuso, il cinema strilla ancora l’ultimo successo (?) di Muccino. Difficile che se ne riprenda la programmazione in un mondo senza programmi, più esposto alla volatilità dei palinsesti che alla stabilità dei cartelloni.

Quando gli Americani giunsero a Parigi dopo l’Occupazione, racconta Cocteau nel suo diario, non credettero ai loro occhi. Tutto era aperto, i ristoranti andavano a mille, i negozi erano aperti come i bordelli. Hitler usava la città per quello che è ancora, un parco dei divertimenti. Erano solo cambiati i clienti. Niente di immorale. Anche in tempo di guerra i concerti si tenevano. Le pièce avevano altri temi e i film nei cinema inscenavano storie vistate dalla censura ma la gente continuava a cibarsi dell’ingegno umano, dell’arte, magari imbavagliata ma con qualche lampo di libertà dietro la maschera tragica. Jean Marais prendeva a pugni il critico antisemita che recensiva Cocteau, Édith Piaf cenava all’ultimo piano della casa d’appuntamenti in cui si era stabilita. Cantava. I nazisti gustavano il bello di Parigi, solo per questo non l’avevano rasa al suolo. Per questo è ancora quella che è.

Qui al 26 maggio 2020 non si vede ancora un manifesto nuovo a coprire i sorpassati dalla Storia, il coprifuoco sull’arte è attivo e mostra le sue rovine. Meglio sarebbe stato listarli a lutto, non lasciarli così: testimonianze del tempo arrestato sul diritto d’autore come certi poster elettorali sopravvissuti a elezioni consumate, vecchie facce messe in posa per glorie finite in sonore trombature. Su quelli almeno qualche baffetto irriverente compariva qua e là, perché c’erano i bambini in giro, a strappare angoli di orecchio o a obliterare qualche dente in sorrisi ormai marciti. Stavolta invece i bambini e i ragazzi sono stati i primi a esser tolti dalle strade. E i manifesti sono lasciati nella loro immobilità solo vagamente consunta dalla meteorologia. Rammentano una vita congelata, incerta sulla rinascita.

Non con uno schianto finisce il mondo ma con una lagna, scrive Eliot. Il lento piagnisteo degli spettacoli abortiti, delle commedie saltate, degli allegri suonatori colti in un gesto di speranza sfumata ben prima della buonanotte. Teatri e cinema si sono rassegnati a entrare nella dimensione incorporea del web. Film in streaming assunti in poltrona, coraggiose vestigia di spettacoli teatrali passate al video da una triste diretta Facebook a  un ostinato canale YouTube.

Nella difesa a oltranza dei corpi, l’immateriale ha vinto relegando i suoi prodotti più spirituali, l’arte recitata e la musica, come pure è stato per il rito religioso, a un ambito che spirituale non è bensì solamente virtuale. La virtualità non parla di virtù, ma di finzione. La finzione che rappresenta la vita si confina nella finzione elettronica della finzione: l’eterea ritrasmissione internet di eventi corporei destinati un tempo a composti psicofisici.

Uscendo all’aperto in quella che fu chiamata Fase 2, ad accoglierci c’erano i manifesti di spettacoli che forse non torneranno in scena mai. Illusioni rinsecchite di autori e commedianti, musicisti e poeti su carta e muri pagati in anticipo per un niente di fatto. Usciamo e strappiamoli, vuotiamo le bacheche, bruciamo le locandine prima che brucino le locande. Torniamo alla sinfonia.

LA SCINTILLA DI KIKI DE MONTPARNASSE

La scintilla di Kiki de Montparnasse

Estratto dal libro Kiki la Modella di Marco Ongaro (Anordest Editrice 2011)

Scrive Guillaume Apollinaire: “Ecco la Montparnasse che è diventata per i pittori e i poeti ciò che Montmartre era per loro quindici anni fa: la casa della semplicità, della bellezza, della libertà”. La Scuola di Parigi è una legione di stranieri che festeggiano la gioia di stare al mondo e di creare. Tra loro, la miseria infiltra alcune storie tragiche, altre ridicole. Le più frequenti sono significative, poiché gli artisti tendono a significare nel momento in cui rappresentano, e gli strumenti a loro disposizione si accendono col sole al mattino e brillano la notte con la luna, luccicano delle risate nei cabaret e dei canti di una figlia illegittima venuta al mondo da una madre snaturata, grazie a un padrino contrabbandiere di alcolici.

Kiki ha fatto un ritratto a suo padre: si vede quest’uomo in una cucina con una bambina bionda. A chi le chiede chi è, dice che è suo padre. Quando le chiedono perché la piccola è bionda, risponde che è la bambina che suo padre ha sempre voluto. Quanta verità si nasconde sotto la verità.

La lotta per la vita rende vivissima Kiki. Tamara de Lempicka, con l’immenso successo aggiuntosi a una vita partita in modo facile e agiatissimo, tenore riconquistato dopo il rovescio rivoluzionario grazie proprio all’esperienza pittorica, ha conosciuto una fortissima depressione. Alice Prin, in arte Kiki de Montparnasse, non si è mai potuta permettere la depressione. L’ha vissuta di certo, ha sperimentato anche un po’ di psicosi e paranoia nel “periodo Mendjisky”, ma in genere si è lasciata guidare dal luccichio che l’ha sempre accompagnata, la scintilla di attaccamento alla bellezza della vita che ha sempre avuto dentro, anche quando andava in giro per Parigi con scarpe da uomo numero 40 o riparava quelle dei soldati in fabbrica durante la Grande Guerra. L’ha vinta temporaneamente a colpi di sbronze e sniffi di coca, a furia d’indigestioni erotiche con amanti occasionali di entrambi i sessi. Pure la baronessa polacca si è data alla bella vita e agli stravizi dissoluti nella Parigi degli Anni folli, ma si è anche concessa un ritiro in convento, e poi un secondo marito nobile quanto lei, per un epilogo agiato negli Stati Uniti in attesa che la sua arte tornasse in auge con nuova risonanza. È vero, non le mancava il genio. Tamara è una vera pittrice, la regina dell’Art Déco, non un fenomeno spontaneo e incolto come Kiki.

Quest’ultima, lo si è detto, è stata soprattutto una modella. Cantante per allegria e sopravvivenza, cabarettista e animatrice delle notti parigine, amica degli artisti e loro musa. Icona del Surrealismo, ha sognato di fare “film veri”, rimanendo vagamente delusa dalle pellicole che oggi, una volta di più, la consacrano opera d’arte. Avrebbe preferito essere attrice. Con l’amica Thérèse Treize, andavano in giro per i caffè, ciascuna con un topo ammaestrato sulla spalla. Un vezzo da dive per il quale non ha mai però sconfessato le sue origini di popolana. Immessa nel centro gravitazionale della cultura e dell’estetica del Novecento, tra un saluto a Modigliani, una posa da Picasso, una conversazione con il raffinato Cocteau e un ritratto preso ad Eisenstein, la modella ha sempre trovato il tempo e la voglia di andare nei club a cantare canzoni condite con lazzi da trivio. È la voglia di vivere a farla brillare, l’irriducibile voglia di vivere che le impone fino all’ultimo di “non lasciarsi abbattere”. Anche “lo scaldino tra le gambe” è espressione di quella voglia di vivere, spinta primordiale verso una procreazione che non avverrà, verso una rivincita sull’esistenza che solo tramite l’arte – la capacità d’ispirare l’arte – riuscirà a conseguire.

Ho conosciuto un americano che fa delle belle fotografie (…). Mi dice: «Kiki, non guardarmi così! Mi turbi!», scrive nel capitolo dei Souvenirs del 1929 soppresso poi nel 1938. Man Ray è turbato dallo sguardo della modella, e ciò è preludio d’ispirazione. C’è qualcosa, nell’anima onnivora della ragazza cresciuta a pane e tè, che sollecita corde segrete nello spirito dell’artista. C’è un luccichio nello sguardo che il pittore cerca di possedere immobilizzando il corpo nella fissità della posa. Eppure quella scintilla dagli occhi sfugge ancora alla posa, e prende forma in quella che per Kisling è malinconia e per Foujita erotismo, per Krohg semplice, irriducibile vitalità. Parte dal suo corpo ma non è lì che ha origine, non nella carne che ingrassa e dimagra, ma nello sguardo che la fotografia allarga e appuntisce prima di archiviarlo, negli occhi che solo l’artista sa accordare col naso per stringerne lo spirito. Le gambe sono distese o raggomitolate come il pittore vuole, il sorriso è allentato come desidera lo scultore e le braccia stanno nella posizione decisa dal fotografo. Eppure sfugge, il luccichio, da quel lontano marciapiede di Châtillon-sur-Seine in cui ha lottato per accendersi, scintilla lungo l’esistenza e illumina i marciapiedi dei boulevard, le terrazze dei caffè, balugina oggi in ogni quadro, nel ricordo che i poeti e gli scrittori porgono di lei.

IL PARADOSSO DEL VERO PICASSO

IL PARADOSSO DEL VERO PICASSO

Estratto dal libro Elogio dello snob di Marco Ongaro (Historica Ed. 2017)

Arthur Koestler (1905-1983) nel saggio L’atto della creazione racconta di una signora che colloca un disegno di Picasso sulle scale fintantoché lo crede una copia, per poi appenderlo al posto d’onore in salotto non appena viene a conoscenza della sua autenticità. Il Duca di Bedford nel suo pamphlet sullo snobismo teorizza che il quadro, in virtù della corretta attribuzione d’autore, abbia acquistato non solo un valore simbolico ma anche estetico. «Brillava, era fonte di delizia e di sincera commozione per le stesse persone che prima erano passate a pochi passi dallo stesso quadro con assoluta indifferenza». È a proposito di questo rappresentativo episodio di snobismo che il Duca afferma che «l’apparenza è realtà» attribuendo all’ipocrisia l’essenza dello snob.

Certo, è l’essenza dello snob che vuole farsi riconoscere in quanto individuo attiguo a nomi altisonanti, possessore di status symbol di casta, auto eleganti, abbigliamento comme il faut, appiccicato a mode in cui identificare una guida al comportamento, al vestire, alla tendenza culturale condivisa da “chi conta”. Questo è il povero snob alla Bouvard e Pécuchet, che non capisce l’essenza di ciò che dovrebbe ammirare per apparire nobile e si affida dunque alla fama già acclamata da altri. Non è certo lo snob dandy, che nello sprezzo di quella fama si elegge ad arbitro del gusto snobbando le mode non appena ne avverte l’olezzo.

In questo aneddoto, tanto Koestler quanto Bedford, lasciano fuori il vero snob, il dandy che supera le classi fregandosene altamente e traendone profitto, il magnete, l’autentico per eccellenza, il creatore che non parla di nessuno e di cui tutti parlano, l’uomo spettacolo che ha animato senza curarsene le meschine vicende snob di quella dimora signorile: Pablo Picasso.

Né Koestler, né il XIII Bedford né tantomeno l’oscura signora proprietaria della casa e del disegno eguaglieranno mai lontanamente in fama e aristocrazia dello spirito l’artefice dell’opera, che nella consapevolezza della sua implicita nobiltà soleva riferirsi a Dio come a «l’altro artigiano».

Il suo nome nel certificato di nascita è Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Ruiz y Picasso. Nato a Malaga nel 1881, a vent’anni per distinguersi sceglie il cognome della madre, quel cognome di origine ligure che celebrerà la sua grandezza nel mondo con il suono e l’immagine di un marchio registrato.

Suo padre è un pittore di modesta levatura e insegnante, sposato a una cadetta di possidenti terrieri da parte di madre. Dalle prime parole che la mamma asserisce di avergli sentito pronunciare, «piz, piz», abbreviazione di lápiz, che in spagnolo significa «matita», si capisce che la nobiltà ricercata e trovata da Pablo sarebbe appartenuta a un ambito aristocratico diverso. Divenuto uno degli artisti più ricchi del mondo, se ne sarebbe rimasto sempre in disparte, nonostante l’inguaribile protagonismo, con l’atteggiamento blasé del monarca assoluto, alternando a un abbigliamento di vistosa eleganza, una tuta da operaio o una tenuta più volte fotografata dai massimi ritrattisti dell’epoca nel sud della Francia e consistente in un paio di pantaloncini corti larghi, a torso e piedi nudi.

Un dandismo di ritorno assimilabile a quello di Gandhi, non fosse per l’immensa distanza morale tra i due.

Quello di Picasso è lo snobismo vincente del genio, radicato nella coscienza di un’arte che solo alcuni, i migliori, riescono a comprendere pienamente e tutti gli altri fingono di accogliere con entusiasmo per pura ignoranza. La fame iniziale, il sospetto di anarchismo che gli sarebbe valso il rifiuto della naturalizzazione francese pur avendo vissuto in Francia per la maggior parte della sua vita, la curiosa adesione al comunismo combinata con il calcolo minuzioso delle quotazioni dei quadri, la misurata gestione dei collezionisti per trarre il massimo guadagno dalla propria opera e il senso innato per l’opportunità pongono Picasso all’incrocio dei venti di tutti gli snobismi tra Ottocento e Novecento senza mai incasellarlo in una categoria classificabile. La sua opera e il suo nome diventano status symbol del jet-set internazionale e modello di primissimo ordine per ogni rango dell’arte moderna.

Circondato da poeti, riconosce la poesia come unico complemento alla sua arte, il poeta come unica compagnia degna. Nutre la propria tirannia sull’amore femminile in virtù di una potenza creatrice senza rivali, cui aggiunge un connaturato senso del marketing che lo conduce alla vetta del successo mondiale, in posizione superiore a qualunque nobile più o meno snob. Non c’è regina o sovrano che possano ambire alla sua elevatezza, nessuno che lo possa snobbare senza apparire sprovveduto.

Dipinge quadri cubisti con Georges Braque e non si perita di firmarli, lasciando dubbi ancora insoluti in merito alla paternità delle opere. Fondatore insieme a Braque del Cubismo, se ne chiama fuori come Guglielmo Marconi potrebbe chiamarsi fuori dalla radiofonia. Scrutatore e anticipatore di mille correnti, non se ne lascia catturare ma le precorre tutte fino a oggi, imitando qualunque genere in modo inimitabile.

Nel nostro secolo, successivo al suo, la casa automobilistica Citroën ha in catalogo un’auto che ne porta il nome e la firma. Non perché Picasso ne abbia siglato la linea della carrozzeria, ma perché qualche erede ne ha permesso l’uso da parte della Citroën come marchio di garanzia artistica. Una forma di snobismo al contrario ha preso l’esempio inverso dalla pop art dell’altro dandy di nome Andy Warhol, appropriandosi della firma per avvalorare l’artisticità di un prodotto seriale anziché trasformare il prodotto stesso in opera d’arte esposta nelle gallerie. Non è la Coca-Cola a brillare in una serigrafia bensì la calligrafia e il nome di Picasso a viaggiare sulla lamiera delle auto in serie.

Morto nel 1973 alla veneranda età di 91 anni, ha trasformato ogni donna amata in una regina più o meno infelice e ogni figlio in un erede di alto lignaggio, con destino non sempre fortunato quanto la ricchezza paterna avrebbe lasciato immaginare. Avaro e munifico come chi non deve niente a nessuno, ha donato mille dipinti inestimabili alla città di Barcellona e altri a Parigi. Echi della sua ricchezza risuonano in un orfanotrofio del Vietnam lontano, come lascito remoto di aventi diritto che gli sono sopravvissuti per qualche tempo.

Le sue parole in punto di morte riecheggiano con maggior leggerezza quelle del Cristo, dandy leggendario ancora insuperato: «Bevete alla mia salute».