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LA METAFORA DELL’ATTESA – Ed è subito sera

LA METAFORA DELL’ATTESA – Ed è subito sera

Estratto dal libro Elogio della puntualità di Andrea Battista e Marco Ongaro (Giubilei Regnani Editrice 2014)

Attendere implica una tensione verso qualcosa cui si aspira e che non si possiede. L’attesa è l’ingrediente essenziale del desiderio, è ciò che determina il ritmo e il successo di una rappresentazione teatrale, la piacevolezza prosodica di una poesia, il gradimento di una previsione soddisfatta e il brivido di un’aspettativa dall’esito sorprendente. È uno stato che, se protratto oltremodo, genera disagio.

«Si dice che l’attesa sia lunga, noiosa», scrive Thomas Mann. «Ma è anche, in realtà, breve, poiché inghiotte quantità di tempo senza che vengano vissute le ore che passano e senza utilizzarle». Passando dalla letteratura alla canzone in direzione non per forza verticale, Giorgio Gaber ben la definisce insieme al suo collaboratore Sandro Luporini nell’omonima canzone: «L’attesa è una suspense elementare / è un antico idioma che non sai decifrare / è un’irrequietezza misteriosa e anonima / è una curiosità dell’anima. / E l’uomo in quelle ore /guarda fisso il suo tempo / un tempo immune da avventure / o da speciale sgomento».

Queste ultime descrizioni rendono l’idea dell’attesa nella sua forma meno romantica, quella in cui la persona si trova defraudata della propria libertà d’impiegare altrimenti il proprio tempo. In tale accezione essa si accomuna meno al concetto ampio di speranza, rimanendo piuttosto incollata all’idea di un’aspettativa prossima, concreta e parzialmente delusa come accade quando qualcuno è in ritardo a un appuntamento.

Non l’attesa del desiderio che è meglio protrarre per evitare la delusione implicita nella sua soddisfazione, non l’attesa del piacere che è piacere essa stessa, come sostiene lo scrittore tedesco Gotthold Ephraim Lessing, bensì il tempo regalato involontariamente a qualcuno che si è preso il proprio tempo per fare irrispettosamente dell’altro. Quella zona grigia di non vita, di concentrazione su un non evento in grado di rapinare tempo a chi nutre fiducia in qualcuno che, in quella misura, non la meritava.

Un’attesa veniale, rispetto a quella grave e diffusa in cui l’essere umano spesso spreca la propria vita, tra semafori e pratiche burocratiche, code negli uffici postali, speranze illusorie e segrete paure di agire. Una rappresentazione minuscola, simbolicamente riduttiva dell’attesa narrata fulmineamente da Salvatore Quasimodo nel 1930, nella raccolta Acque e terre:

Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.

Non è poi così terribile aspettare qualcuno in ritardo a un rendez-vous, ma nel suo piccolo il fatto richiama alla coscienza dei più sensibili l’immensa attesa cui ogni essere è chiamato nel venire al mondo, quella del senso di un’esistenza e della morte che la troncherà. Il raggio di sole, che il poeta pone come un giavellotto piantato verticalmente lungo la spina dorsale dell’uomo, lo lascerà ancora sbigottito solo un attimo dopo, con il sempre improvviso avvento della sera. L’universale solitudine sul cuore della terra si fraziona in ogni piccolo atto d’attesa, mostrando all’individuo la povertà del tempo a disposizione e l’urgenza, forse inutile, di impiegarlo meglio che si può.

Ogni minuto sprecato rammenta, a chi vuole vivere, l’immenso sperpero cui la Natura lo espone. Senza attardarsi troppo nelle camere del tragico, si può asserire che ogni ritardo sulle previsioni di un incontro, avvenimento, scadenza, appuntamento drammatizza in minima parte lo stato di attesa fondamentale da cui l’uomo cerca disperatamente di affrancarsi.

IL DYLAN DI DYLAN

Articolo di Marco Ongaro pubblicato sulla rivista Inchiostro

Interstellar, film di fantascienza di Christopher Nolan del 2014, si basa sul ponte di Einstein-Rosen, una teoria su scorciatoie che offrirebbero la possibilità di viaggiare tra vari sistemi solari attraverso cunicoli spazio-temporali detti wormholes, letteralmente buchi di vermi.
Nella distopia di Nolan la Terra non è più ospitale e gli umani devono trovare un altro posto dove andare, sfruttando i wormholes alla ricerca di un pianeta abitabile in altre galassie.
Il regista ha arricchito l’intreccio con una citazione da Dylan Thomas, Non andartene docile in quella buona notte, poesia composta nel maggio 1951 e dedicata al padre David John, allora consumato da un cancro. La forma è quella della villanelle, 19 versi suddivisi in cinque terzine e una quartina finale, molto usata a imitazione delle ballate inglesi di ispirazione pastorale.

Non andartene docile in quella buona notte
di Dylan Thomas

Non andartene docile in quella buona notte,
la vecchiaia dovrebbe bruciare e delirare al chiudersi del giorno;
infuria, infuria, contro il morire della luce.

Per quanto i saggi sappiano alla loro fine che la tenebra è giusta,
giacché le loro parole non hanno diramato fulmini,
non andartene docile in quella buona notte.

Gli uomini buoni, con l’ultima onda, gridando quanto splendide
le loro fragili gesta avrebbero danzato in una verde baia,
infuriano, infuriano contro il morire della luce.

Gli uomini selvaggi che presero e cantarono il sole in volo,
e impararono, troppo tardi, di averne addolorato il passo,
non se ne vanno docili in quella buona notte.

I becchini, vicini alla morte, che vedono con cieca vista
che occhi ciechi avrebbero potuto brillare come meteore ed essere allegri,
infuriano, Infuriano contro il morire della luce.

E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
benedicimi ora con le tue lacrime feroci, ti prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuria, infuria contro il morire della luce.

Scritta nel 1951, due anni prima della propria morte, e dedicata al padre morente, la poesia di Dylan Thomas associa con efficacia lo spegnersi del giorno allo spegnersi della vita, metafora non certo nuova nella storia della poesia. Salvatore Quasimodo nel 1930 l’aveva già suggellata in un’arcinota terzina.