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OPERA CONTEMPORANEA, ALLESTIMENTI e TEMI – Se Cavaradossi balla la rumba

OPERA CONTEMPORANEA, ALLESTIMENTI e TEMI

Articolo di Marco Ongaro pubblicato sulla rivista Quaderni N° 2 anno 2021 del Circolo Culturale LA SCALETTA Matera 1959

Se Cavaradossi balla la rumba, se Victor Hugo è meno noto di Riccardo Cocciante, il mondo elitario della musica contemporanea deve uscire dal guscio e confrontarsi con realtà con le quali non ha dimestichezza. 
Se Giovanni Sollima, ispirandosi al rap nel suo inno pacifista trentino o al rock nelle riscritture beatlesiane per violoncello, cerca di ammiccare alla tendenza del gusto giovanile moderno senza alcuna possibilità di interloquire con individui che di Sollima tutto ignorano, significa che la discussione non deve svolgersi sul piano di una tentata omologazione del cosiddetto “moderno”, ma su di una spinta innovativa che prenda spunto dal linguaggio stesso in cui si opera.

Lucie Mouscadet, soprano parigino, mi esprime in perfetto italiano le sue perplessità a proposito dell’opera buffa Il cuoco fellone o Han sette vite i gatti che ha debuttato a Verona nel 2004. «Di cosa parla il tuo libretto?» «Di un ristorante e di un cuoco che cucina gatti al posto dei conigli per cui il proprietario lo paga». È stupita che un’opera lirica oggigiorno tratti cose di oggigiorno. «Il ristorante è una locanda del Settecento?» «No. L’opera è ambientata ai giorni nostri». «Strano», mi dice. 
«Le opere che si scrivono di questi tempi sono tutte riferite a periodi remoti, ispirate a soggetti sacri o testi autorevoli già riconosciuti». 
In pratica, potremmo scrivere un buon libretto rifacendo per l’ennesima volta l’Antigone, ma guai a comporre negli anni Duemila un’opera buffa che usi il linguaggio del melodramma, rime ed elisioni comprese, ambientandolo nell’adesso come chiunque nell’Ottocento avrebbe trovato naturale fare. 
Fanno eccezione Il telefono di Gian Carlo Menotti, che nel 1947 adatta alla modernità dello strumento di comunicazione il linguaggio dell’opera comica, e Nixon in China di John Adams, che nel 1987 rievoca con il melodramma contemporaneo il viaggio del presidente americano Richard Nixon nella Cina di Mao Tse-tung. Rientra invece nella tradizione l’opera di Azio Corghi che, nel musicare Don Giovanni o Il dissoluto assolto del premio Nobel José Saramago, si dedica a una riscrittura del mito già reso immortale da Mozart nel 1787, con tanto di Catalogo espressamente incluso. Una delle numerose variazioni sul tema.

Noire et Blanche, 1926
Photo de Man Ray

Il Cuoco fellone, Kiki de Montparnasse, messa in scena a Parigi nel 2007, e Moro, con debutto a Parigi nel 2011, opere composte da Andrea Mannucci su libretto del sottoscritto, intendono porsi così nel panorama della musica seria attuale quali espressioni della contemporaneità all’interno di un mezzo talmente classico 
da essere relegato alla ripetizione di opere ormai consunte, riallestite di volta in volta con scenografie e visioni iper-moderniste nel tentativo di non farne avvertire l’imbalsamazione museale. Il Maestro Andrea Mannucci in effetti pesca talora nello swing e addirittura nell’avanspettacolo per alcune delle sue arie, giusto per quel piacere di guardar fuori dalla finestra in una giornata assolata, ma è consapevole che la materia su cui lavora è quella stessa sofferenza di note e pause che ha fatto sudare e sognare i più illustri predecessori. Non ammicca al rock & roll, per quanto inserisca una batteria nell’organico, né presta il fianco alla dodecafonia più rude per astrarsi nella torre d’avorio che gli spetterebbe. Semplicemente fa il suo lavoro in quest’epoca specifica. Così come lo faccio io. Forse la scelta del librettista è la sua più audace sfida. Uno scrittore-cantautore è quanto di più vicino e lontano si possa trovare nel campo della lirica contemporanea. Né Mogol né Da Ponte.
In Kiki de Montparnasse, gli Anni Folli della Parigi inizio Novecento – a ben pensarci in mezzo ai quali muore Giacomo Puccini – sono scandagliati con echi di Maurice Ravel e del Gruppo dei Sei. La capitale francese nell’Età d’oro degli artisti è già vintage ma non ancora classica, la rievocazione è comunque oggetto di contemporaneità. Una mistica del passato recente che non è revisione di opere già esistenti riattualizzate. Ma è la tragedia musicale Moro a costituire il crinale tra le due tendenze operistiche, quella di riesumazione di temi antichi e quella di inserimento del quotidiano in un mezzo espressivo demodé. Moro tratta un episodio purtroppo realmente accaduto, affrontato però su un livello diverso da quello della cronaca, del dibattito, dell’arte stessa intesa naturalisticamente, come aveva invece tentato di fare l’opera precedente su Aldo Moro, Non guardate al domani composta da Filippo Del Corno e Angelo Miotto nel 2001.

Nel Moro di Mannucci il Coro conduce in una dimensione poetica a sé stante, alludendo alle lamiere bucate e all’agguato di Via Fani. Si parla di un agguato, ma altri ce ne sono stati prima. Altri uomini emblematici sono stati incarcerati e uccisi prima del tempo in cui i fatti sembrano svolgersi. In un attimo ci si trova sbalzati indietro di secoli e all’agguato si accosta la cicuta ingurgitata da Socrate in esecuzione alla sua condanna.
La tragedia moderna, trattata con strumenti contemporanei, si distilla immediatamente nella dimensione classica, compiendo a ritroso il percorso abitualmente intrapreso da registi e rilettori di opere dei secoli precedenti.


Il Coro, istituto teatrale antico recuperato in una tragedia moderna, svolge la funzione esattamente contraria all’attualizzazione di una storia remota: avverte che ci si trova in una sfera trascendente, dove si esplora qualcosa di più della pur complessa vicenda umana e civile di Aldo Moro. 
Di fronte all’incarcerazione e alla morte di un uomo pubblico, un individuo accomunato ai molti nell’intima speranza di salvezza, la specificità cronacistica si condensa in una umanistica classicità: la “sensibilità unificata” rivendicata da Thomas S. Eliot nel rammentare che il poeta odierno è la confluenza immanente dei suoi precursori e dei suoi successori. 
Laddove per poesia, classicamente parlando, si intende la creazione artistica che include il compositore quanto il pittore, lo scultore quanto il coreografo. Non è indispensabile ridelineare la Norma composta nel 1831 da Vincenzo Bellini usando accessori digitali per “contemporaneizzarne” il discorso, quanto scrivere qualcosa di contemporaneo su temi attuali, con criteri musicali contemporanei, senza scordare l’impianto classico del teatro musicale. Ciò ricordando che la lezione dell’Ecclesiaste “Non c’è niente di nuovo sotto il sole” vale in entrambe le direzioni e che la musica è espressione artistica percepita nel Tempo.

SERGE GAINSBOURG – Il terrore di non essere frainteso

SERGE GAINSBOURG – Il terrore di non essere frainteso

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Nel 2021 scade il trentesimo anniversario della morte di Serge Gainsbourg. Nel 1961, trent’anni prima della sua morte, esce il suo terzo album, L’étonnant Serge Gainsbourg. I numeri contano ma non significano quanto vorrebbero. Il brano che ne viene estratto, La chanson de Prévert, offre all’autore-interprete un successo duraturo dopo la sicura qualità degli album precedenti, Du chant à la une! del 1958 e Serge Gainsbourg N°2 del 1959, apprezzati dalla critica e dal pubblico “rive gauche” ma non ripagati da altrettanta fama. Nel 1960 il singolo L’Eau à la bouche, L’acquolina in bocca, appartenente alla colonna sonora dell’omonimo film di Jacques Doniol-Valcroze ha raggiunto le centomila copie vendute, buon risultato ma cifra non immensa per le vendite dell’epoca.

La Chanson de Prévert è scritta in origine per la cantante Michèle Arnaud che la registra in studio nel novembre del 1960 e la canta in tivù il mese successivo in una trasmissione televisiva di dieci minuti a lei dedicati. Depositato alla società degli autori solo nel gennaio 1961, diventa uno dei successi più celebri cantati poi dal suo autore. Ma di quale canzone parla questa canzone che ne include un’altra nel titolo? Del celebre brano Les Feuilles mortes, Le foglie morte, portato al successo da Yves Montand, scritto e composto da Jacques Prévert e Joseph Kosma per il film Les Portes de la nuit, Mentre Parigi dorme, di Marcel Carné del 1946. Nel film lo stesso Montand, che debutta sul grande schermo nel ruolo di Diego, canticchia il brano che poi raggiungerà notorietà internazionale, ripreso da Juliette Gréco nel 1951, quindi da Édith Piaf, Françoise Hardy, Dalida e, in inglese come Autumn Leaves, da Frank Sinatra e Nat King Cole. Già Le foglie morte nel suo testo parla di una canzone, rendendo l’effetto “all’infinito”, la mise en abyme celebrata da André Gide, un gioco vorticoso di rimandi meta-canori. Basti pensare che la stessa Juliette Gréco canterà in un album nel 2006 La chanson de Prévert, ma non l’aveva già cantata?

Il brano interpretato da Montand si apre con lo stesso verso che Gainsbourg riprenderà nell’incipit del suo: Oh je voudrais tant que tu te souviennes, Oh, vorrei tanto che ti ricordassi, inaugurando dal principio una spirale vertiginosa di reminiscenze a incastro. Cosa dovrebbe ricordare la donna cui si rivolge il protagonista? Le foglie autunnali che si accatastano e vengono spalate via come i ricordi e le tracce degli amori disuniti cancellate sulla spiaggia, l’autunno come stagione che si rispecchia nell’autunno della vita, tempo della perdita e dei rimpianti, delle occasioni passionali sfiorite, dei raggi di sole ormai assorbiti dal grigiore che annuncia la sterilità invernale. E insieme a questa nostalgia di una nostalgia, dovrebbe rammentarsi una canzone che lei cantava.

È una canzone
Che ci somiglia
Tu mi amavi
E io ti amavo

La canzone stessa nel testo di Prévert rinvia a una rassomiglianza, non fosse bastato il gioco di specchi allestito dal poeta, dunque una canzone nella canzone e una canzone che somiglia a chi la cantava e all’amore da lei condiviso con chi gliela vuol fare ricordare. Occasione ghiotta per il magico manipolatore di linguaggio che una mattina di autunno alle 10 si presenta a casa di Jacques Prévert per chiedergli il permesso di citarlo nel titolo e nel testo della propria composizione. Gainsbourg sa da quando ha lasciato la pittura per la musica che la canzone è la forma più popolare di messinscena emotiva, il palcoscenico sentimentale per eccellenza, e con il suo dirompente cinismo anti-kitsch lavora già da tempo al sabotaggio del mezzo con l’arguzia di un Odisseo che concepisce il Cavallo di Troia. Prévert lo accoglie con champagne mattutino, accompagnando con sigari aromatici le proverbiali Gitanes del giovanotto. Gainsbourg se ne esce con la liberatoria e la libertà di creare un cioccolatino avvelenato che la gente adorerà, come sarà tradizione nella sua opera e come già lo fu in quella del suo amato Oscar Wilde, senza veramente comprendere tutto ciò che vi è celato. “Vivo nel terrore di non essere frainteso”, aveva scritto l’autore irlandese, e se Serge Gainsbourg non prova terrore, certo nutre la speranza che non tutto ciò che compie, o perpetra, venga colto subito fino in fondo.

Serge Gainsbourg-L'étonnant

La canzone arrangiata da Alain Goraguer s’intrufola nel testo di Prévert apparentemente omaggiandolo, per poi smontarlo attraverso la propria sensibilità corrosiva.

Oh, vorrei tanto che ti ricordassi
Questa canzone era la tua
Era la tua preferita, credo
Sia di Prévert e Kosma
 
E ogni volta le foglie morte
Ti riportano al mio ricordo
Giorno dopo giorno gli amori morti
Non la finiscono di morire
 
Con altre è ovvio mi abbandono
Ma la loro canzone è monotona
E poco a poco mi viene l’indifferenza
A questo non ci si può fare niente
 
Perché ogni volta, le foglie morte
Ti richiamano al mio ricordo
Giorno dopo giorno gli amori morti
Non la finiscono di morire
 
Si può mai sapere dove comincia
E quando finisce l’indifferenza?
Passi l’autunno e venga l’inverno
E che la canzone di Prévert
 
Questa canzone, Le foglie morte
Si cancelli dalla mia memoria
E quel giorno i miei amori morti
Avranno finito di morire

Dopo la citazione iniziale con cui prende il testimone dal poeta Prévert, il poeta Gainsbourg gli si sovrappone oscurandone i lati più patetici con un’ironia spietata. Quando dichiara perplesso il nome degli autori, “credo sia di…”, affetta l’indifferenza che si annuncia come vero tema del suo brano. La donna cui si rivolge potrebbe essere la stessa cui parla il primo poeta o riflettere una nostalgia personale – un poeta può nasconderne un altro e una donna può nasconderne un’altra – se non fosse che a causa di questa donna, di questa ex che gli riporta alla mente la fine di un amore, Le foglie morte è una canzone tossica, un brano che con la sua lamentevole malinconia aggravata dalla bellezza melodica insiste a rigenerare in lui la morte degli amori senza permettere loro di essere sepolti. In questo testo risuonano con dandistica nonchalance i versi potenti di Giuseppe Ungaretti che in Non gridate più del 1947 chiede, ordina, forse supplica:

Cessate d’uccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
 
Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo.

L’adynaton del primo verso, figura retorica che esprime un’impossibilità, torna nei ritornelli di Gainsbourg che trasformano il sentimentalismo nostalgico prevertiano in una sorta di creazione di zombie emozionali ogni volta rimessi in circolazione dalla canzone che evoca una canzone che evoca una canzone su un rimpianto che evoca un rimpianto che evoca un rimpianto. Sembra che l’autore sbotti: “Finitela con queste foglie morte, o moriremo tutti di nostalgia”. Nessuno potrà più amare perché ogni altro amore è sotto l’influsso di questo patetismo che istiga per reazione all’indifferenza.

Si può mai sapere dove comincia e quando finisce l’indifferenza?/Passi l’autunno e venga l’inverno… sembra quasi il lamento di Thomas S. Eliot ne La terra desolata: Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo /Con un po’ di pazienza. Ci deve essere la morte prima della rinascita, se si continua a rammaricarsi per la morte di qualcosa, quella cosa continuerà a morire. Come Gainsbourg sperava, anche grazie alla felice orchestrazione che nei ricami di chitarra ispira l’orecchiabilità avvolgente del sirtaki, quasi nessuno ha pensato a quanto in verità stesse smontando il successo universale de Le foglie morte augurandosi che finissero le mille riprese dei mille interpreti, così da concedergli di innamorarsi ancora, di cantare vivaddio una nuova canzone. Ancora mise en abyme: la nuova canzone è giusto La chanson de Prévert che stiamo ascoltando.

Gainsbourg dev’essersi leccato i baffi per il perfetto fraintendimento ottenuto, un’intima presa in giro di un’arte minore attraverso un suo esemplare ben riuscito. Se a questo si aggiunge il senso supremo celato in tutta l’operazione, quello squisitamente linguistico che al creatore di calembour non può certo essere sfuggito, il capolavoro si manifesta in tutto il suo splendore: Prévert in francese significa “prato verde”. Con questa grandiosa truffa di successo, Gainsbourg si prende il lusso di fare giustizia di un cognome rispetto alla sua propensione lirica, togliendo il “prato verde” dalla stagione autunnale e cancellandone la visione da una memoria sintonizzata su una stantia immagine nostalgica. Quando La canzone del prato verde si sarà cancellata dai suoi ricordi, finalmente gli amori morti di Gainsbourg la finiranno di morire e, come diceva più o meno Ungaretti, l’erba potrà tornare lieta dove non passa quel frignone di un uomo.

La Chanson de Prévert non è semplicemente la Canzone di Prévert, ma è la critica ai sentimenti autunnali in essa riposti, un passo verso la liberazione di tutti gli amori morti ramazzati con la pala dai parchi e tracciati nei passi degli amori disuniti sulla spiaggia, la rivendicazione di una primavera d’amore che preluda a un’estate erotica senza precedenti, che sappiamo Gainsbourg inaugurerà nel ’69 con Je t’aime… moi non plus.

MA I POSTER SOGNANO SPETTACOLI VIVENTI?

MA I POSTER SOGNANO SPETTACOLI VIVENTI? – Il deserto dei vecchi manifesti – Estratto da Il Negro di Marco Ongaro

La cosa che più colpisce il cuore dopo il confinamento per il virus sono i manifesti degli spettacoli annunciati, appesi ai muri, fermi sulle date fissate e mai perfezionate dall’esibizione. Date nate morte. Il mondo è entrato nel bunker e quando ne è uscito, ammesso che ne sia uscito, ha trovato il calendario di prima: nessuno ha voltato le pagine. Vero segno della catastrofe, del risveglio nella distopia. Nessuno ha suonato, l’attore non ha recitato, la pièce non è andata in scena, il teatro è rimasto chiuso, il cinema strilla ancora l’ultimo successo (?) di Muccino. Difficile che se ne riprenda la programmazione in un mondo senza programmi, più esposto alla volatilità dei palinsesti che alla stabilità dei cartelloni.

Quando gli Americani giunsero a Parigi dopo l’Occupazione, racconta Cocteau nel suo diario, non credettero ai loro occhi. Tutto era aperto, i ristoranti andavano a mille, i negozi erano aperti come i bordelli. Hitler usava la città per quello che è ancora, un parco dei divertimenti. Erano solo cambiati i clienti. Niente di immorale. Anche in tempo di guerra i concerti si tenevano. Le pièce avevano altri temi e i film nei cinema inscenavano storie vistate dalla censura ma la gente continuava a cibarsi dell’ingegno umano, dell’arte, magari imbavagliata ma con qualche lampo di libertà dietro la maschera tragica. Jean Marais prendeva a pugni il critico antisemita che recensiva Cocteau, Édith Piaf cenava all’ultimo piano della casa d’appuntamenti in cui si era stabilita. Cantava. I nazisti gustavano il bello di Parigi, solo per questo non l’avevano rasa al suolo. Per questo è ancora quella che è.

Qui al 26 maggio 2020 non si vede ancora un manifesto nuovo a coprire i sorpassati dalla Storia, il coprifuoco sull’arte è attivo e mostra le sue rovine. Meglio sarebbe stato listarli a lutto, non lasciarli così: testimonianze del tempo arrestato sul diritto d’autore come certi poster elettorali sopravvissuti a elezioni consumate, vecchie facce messe in posa per glorie finite in sonore trombature. Su quelli almeno qualche baffetto irriverente compariva qua e là, perché c’erano i bambini in giro, a strappare angoli di orecchio o a obliterare qualche dente in sorrisi ormai marciti. Stavolta invece i bambini e i ragazzi sono stati i primi a esser tolti dalle strade. E i manifesti sono lasciati nella loro immobilità solo vagamente consunta dalla meteorologia. Rammentano una vita congelata, incerta sulla rinascita.

Non con uno schianto finisce il mondo ma con una lagna, scrive Eliot. Il lento piagnisteo degli spettacoli abortiti, delle commedie saltate, degli allegri suonatori colti in un gesto di speranza sfumata ben prima della buonanotte. Teatri e cinema si sono rassegnati a entrare nella dimensione incorporea del web. Film in streaming assunti in poltrona, coraggiose vestigia di spettacoli teatrali passate al video da una triste diretta Facebook a  un ostinato canale YouTube.

Nella difesa a oltranza dei corpi, l’immateriale ha vinto relegando i suoi prodotti più spirituali, l’arte recitata e la musica, come pure è stato per il rito religioso, a un ambito che spirituale non è bensì solamente virtuale. La virtualità non parla di virtù, ma di finzione. La finzione che rappresenta la vita si confina nella finzione elettronica della finzione: l’eterea ritrasmissione internet di eventi corporei destinati un tempo a composti psicofisici.

Uscendo all’aperto in quella che fu chiamata Fase 2, ad accoglierci c’erano i manifesti di spettacoli che forse non torneranno in scena mai. Illusioni rinsecchite di autori e commedianti, musicisti e poeti su carta e muri pagati in anticipo per un niente di fatto. Usciamo e strappiamoli, vuotiamo le bacheche, bruciamo le locandine prima che brucino le locande. Torniamo alla sinfonia.