UN AEDO SENZA UNA LIRA

Mantenendo le debite proporzioni, ché nemmeno Cocteau pretendeva di raggiungere simili vette e umilmente adorava Picasso, qualcuno di questi detrattori avrebbe il coraggio di avanzare tale imputazione a Leonardo da Vinci? “Lui era un genio”, si risponde ed è fuor di dubbio. Ma perché oggi perfino il genio dovrebbe essere relegato a un unico campo di espressione? Perché quest’ansia, anche solo quando si parla di talento o perfino di semplice professione, di rinserrare uno spirito creativo dentro un unico recinto? L’ansia di stereotipo perderà l’Occidente.
Scrive T.S. Eliot nel Canto d’amore di J. Alfred Prufrock (traduzione Roberto Sanesi – Bompiani 2001):

E quando sono formulato, appuntato a uno spillo,
quando sono trafitto da uno spillo e mi dibatto sul muro
come potrei allora cominciare
a sputar fuori tutti i mozziconi dei miei giorni e delle mie abitudini?
Come potrei rischiare?

La nostalgia per la chitarra abbandonata dal cantautore non rivela forse la paura dello spettatore di non sapersi orientare, lui, non l’artista, in più di una disciplina?
Un artista proteiforme varia all’infinito i generi espressivi mantenendo però stabili i leitmotiv. Questo è il segreto. Avendo a disposizione innumerevoli ambiti creativi, l’artista poliedrico, che è il poeta nella sua accezione superiore, può permettersi di ripetere temi a lui cari spostandoli da una forma all’altra. Ciò che Mauriac rimprovera malignamente all’eclettico per eccellenza Cocteau, di essere cioè una libellula che s’illumina della luce altrui, è il più facile fraintendimento dell’eclettismo da parte di un artista “specializzato” in una sola categoria performativa. Picasso prende con gli occhi l’opera di chiunque e la fa propria. Sostiene che lo stile non esiste se non come espressione di un se stesso che s’impossessa di tutto ciò che percepisce, e nel farlo lo assorbe, lo critica, lo ributta fuori modificato, migliorato o comunque riproposto sotto un’altra ottica. L’eclettismo di Picasso, interno a un’unica forma d’arte o poco più – dalla pittura alla scultura e alla decorazione ceramica i settori sono contigui – è meno fuorviante di quello di Cocteau, che attingendo a tutte le forme d’arte dello scibile umano – perfino alla musica per interposta persona – si espone a malevole critiche di velleitarismo e scarsa personalità.
Cocteau ha una concezione precisa della propria arte e del tragitto intrapreso in virtù della compulsiva produttività, affezione felicemente nevrotica che con Picasso condivide. Il suo regno, come afferma di sé il pittore spagnolo, non è di questo mondo. Sta in una stratosfera d’astrazione artistica dettata dalla poesia nel senso più completo del termine, dalla quale discende continuamente, come per sovrana concessione verso l’intelligibilità, per l’irrinunciabile necessità di essere benvoluto. La sua opera non è velleitaria né priva di personalità. Se è influenzata dal felice milieu intellettuale in cui Cocteau si è venuto a trovare fin da giovanissimo, ciò dimostra solo l’intelligenza di riconoscere il valore degli stimoli senza opporvi l’arroganza di una presunta originalità. “«L’ho già fatto»; «Questo è già stato fatto»; frasi stupide”, scrive in Oppio. “Leitmotiv del mondo artistico dal 1912 in poi”.