Tutti gli articoli di Stefania_Tramarin

DA “KAFKIANO” A “FANTOZZIANO”: LA VIA ITALIANA AL SARCASMO BUROCRATICO

DA “KAFKIANO” A “FANTOZZIANO”: LA VIA ITALIANA AL SARCASMO BUROCRATICO

Articolo scritto da Marco Ongaro per la rivista Inchiostro

Celebrando il centenario della morte di Kafka, il pensiero non può che correre al suo erede italiano del Novecento, Paolo Villaggio.

In quanto coautore delle canzoni di Fabrizio De André Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitier e Il fannullone, nonché autore del testo, se così lo si vuol definire, della Ballata di Fantozzi di Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e Fabio Frizzi, Villaggio non sfigurerebbe in questa rubrica. Ma per una volta preferiamo esondare dalla canzone verso il più ampio mare della creazione letteraria. E quando Paolo Villaggio dichiara che “Fantozzi non è un personaggio comico, è un personaggio tragico, l’uomo più sfortunato che la letteratura italiana abbia mai avuto” è consapevole di usare il termine letteratura a proposito.

C’è una linea satirico grottesca che lega il Gogol’ del Cappotto, il Melville di Bartleby lo scrivano, il Kafka del Castello, Il Bulgakov del Maestro e Margherita, il Beckett di Aspettando Godot e il Buzzati di Sette piani al Villaggio di Fantozzi ragionier Ugo, matricola 1001/bis, come Kafka impiegato in una Compagnia di Assicurazioni, e come Kafka, all’Ufficio Sinistri. Tale linea parrebbe sgorgare dal realismo gogoliano, la grande capacità di estremizzare con venature visionario fantastiche situazioni burocratiche sullo sfondo di una desolante mediocrità umana, riassunta nell’intraducibile termine pošlost’, definito controvoglia da D.S. Mirskij come “meschinità autosoddisfatta, morale e spirituale” e da qualsiasi dizionario russo-italiano come “volgarità”. Doveva essere un principe in grado di rinunciare da giovane al proprio lignaggio come Mirskij a riconoscere questa particolare dimensione umana, foriera di peripezie bizzarre spinte all’assurdo da Beckett in personaggi incapaci di impiccarsi con la propria cintura senza che gli cadano i pantaloni.

E Villaggio è giunto buon ultimo, non necessariamente minore, in questa sequela di creatori dediti a ritrarre le miserie umane con grandi o piccoli effetti comici. Si apparenta a Kafka saltando la componente trascendentale di Buzzati per legarsi più strettamente alla concretezza impiegatizia in cui la trascendenza finisce ingoiata dalla sedicente realtà, assorbita nell’inesorabile organizzazione politica della società occidentale novecentesca.

Se Aspettando Godot debutta in teatro nel 1953, è solo due anni più tardi che troviamo Villaggio intento a scrivere testi e a fare il conduttore nella Compagnia goliardica genovese Mario Baistrocchi, laboratorio di artisti emergenti che in seguito avrebbero giganteggiato nel mondo dello spettacolo come Fabrizio De André, Enzo Tortora e Carmelo Bene. Villaggio prende parte a quasi tutte le edizioni dal 1956 al 1966, per poi farsi notare al Teatro di Piazza Marsala, a Genova, dove mette in scena gli embrioni dei suoi futuri cavalli di battaglia, tra i quali il prototipo fantozziano, l’infelice Giandomenico Fracchia capace di subire con innocenza infantile ogni sorta di angherie da colleghi e superiori.

Famiglia tutt’altro che comune quella che dà origine alla speciale creatura di nome Paolo Villaggio a Genova, il 30 dicembre del 1932, insieme al fratello gemello dizigote Piero, futuro docente alla Scuola normale superiore di Pisa. Il padre è un ingegnere edile palermitano, la madre veneziana è insegnante di tedesco. Frequenta il liceo classico e si iscrive a Giurisprudenza all’università di Genova, ma abbandona per guadagnarsi da vivere dedicandosi a svariati impieghi: da cameriere a speaker della BBC a Londra, ma anche cabarettista e intrattenitore sulle navi della Costa Crociere, insieme all’amico d’infanzia e gioventù Fabrizio De André, a Silvio Berlusconi e a Fedele Confalonieri. «Le crociere si facevano d’estate nel Mediterraneo e d’inverno ai Caraibi. Ho passato sulle navi cinque anni, mi chiamavano le petit connard, il coglioncino. Ho avuto compagni straordinari come Fabrizio De André. Saliva sul palco e davanti agli ottuagenari attaccava: Quando la morte ti chiamerà. Tutti con le mani sulle palle, uomini e donne. Mentre ai piani inferiori c’era lui, un pianista pieno di capelli umani che cantava Come prima, più di prima ti amerò. Era Silvio Berlusconi. Non era un creativo, usava le barzellette per farsi accettare, e con le donne era molto timido». Con il Berlusconi delle tv private anni più tardi i rapporti diverranno professionali, ma con un tocco sempre speciale: «Mi ha detto che sono un grande comico. Gli sono molto grato: per questo e per aver perso le ultime elezioni».

A scoprire la vena artistica di Villaggio è il giornalista e conduttore Maurizio Costanzo, che nel 1967 gli consiglia di esibirsi al Sette per otto, un noto e frequentato cabaret di Roma. «Andai. La prima sera c’era ad assistere allo spettacolo una Roma incuriosita da questo strano comico arrivato da Genova. Ricordo Garinei e Giovannini, Ugo Tognazzi, Ennio Flaiano che alla fine a forza di ridere cadde dalla poltrona». Poi al Derby di Milano, dove frequenta Giorgio Gaber e Renato Pozzetto. Nel 1967 la trasmissione radiofonica Il sabato del Villaggio. Il 4 febbraio 1968 esordisce sul piccolo schermo come conduttore del programma d’intrattenimento Quelli della domenica, scritto da Marcello Marchesi, Enrico Vaime, Italo Terzoli e dallo stesso Maurizio Costanzo. La comicità strettamente fisica dell’aggressivo e sadico Professor Kranz fa da contraltare all’umiliazione e alla sottomissione del suo primo personaggio impiegatizio e frustrato: Giandomenico Fracchia. Di lì i successi s’inanellano in una reazione a catena.

Esordisce nel cinema con Mario Monicelli in Brancaleone alle crociate e sul set si lega artisticamente a Vittorio Gassman, che lo vuole coprotagonista nel suo Senza famiglia, nullatenenti cercano affetto, per condividere poi l’interpretazione in Che c’entriamo noi con la rivoluzione? di Sergio Corbucci e partecipare con l’amico a numerose trasmissioni televisive. Negli anni Settanta pubblica libri sulle avventure di Fantozzi e altre amenità satiriche che riscuotono un entusiastico riscontro di pubblico, al punto che finalmente il personaggio approda al cinema con la regia di Luciano Salce.

«Fantozzi è il prototipo del tapino, la quintessenza della nullità». In principio ha vissuto come personaggio stampato, nato da una serie di articoli-racconto scritti da Villaggio per l’Europeo tratti dai monologhi recitati in tivù, e anche sullo schermo pare mantenere la sua natura fondamentalmente diegetica. Questa resta la sua forza, la profonda narratività che rende ciascuna scena delle pellicole materiale per ulteriore narrazione tra gli spettatori all’uscita del cinema. Paolo Villaggio è creatore di un timbro umoristico personalissimo, ed è un brillante scrittore riconosciuto da Pasolini e Umberto Eco per la potenza innovativa del suo linguaggio e per la sua facile assimilazione nella permeabilità del tessuto dialogico popolare. Lunghe frasi senza verbi, predicati aboliti in cataloghi regolati dall’irresistibile climax ridisegnano la sintassi nazionale attecchendo negli strati più popolari con sorprendente immediatezza: “Nelle prime otto ore: escursione in battello sul Tevere, visita veloce a Colosseo, San Pietro, Musei Vaticani, catacombe di Priscilla, Pantheon, piazza Navona, Fontana di Trevi, via Veneto. Arrivo in piazza di Spagna. Al posto della vescica, un’anguria”.

Con i libri e i film su Fantozzi negli anni Settanta e Ottanta la sua popolarità diventa occasione di confronto intellettuale in un calderone emotivo-culturale capace di sfogare ironicamente tensioni politiche e sociali. «Fantozzi ha liberato gli Italiani dall’incapacità di essere felici secondo i dettami della cultura consumistica», spiega Villaggio. «Lui consuma, fa vacanze, parte per la settimana bianca e torna massacrato e infelice. Come tutti gli Italiani. Fantozzi è un terapeuta che dice: tutti quelli che subiscono questo tipo di cultura sono condannati a essere infelici». La poetessa Alda Merini dirà di essere sopravvissuta alla reclusione in manicomio grazie alla lettura di Fantozzi.

Villaggio estende l’area di alienazione dalla catena di montaggio delle fabbriche ai quadri impiegatizi delle multinazionali, non più privilegiati rispetto alla classe operaia bensì tormentati senza pietà da un potere sovrannaturale che infierisce perfino con la proverbiale nuvola piovosa loro dedicata in gite e vacanze. “Ogni impiegato ne ha una. Sono nuvole maligne che stanno celate dietro le montagne anche 12 mesi, ma quando s’avvedono che il loro uomo sta per andare in ferie gli piombano sulla testa scaricandogli in nuca un quadrato di grandine in un metro per un metro e lo accompagnano implacabili”. Per Marchesi c’erano le domeniche per ammalarsi, per Villaggio la nuvola del weekend è appiccicata all’individuo anche qualora si prendesse ferie infrasettimanali.

Le disgrazie esagerate del ragioniere, l’insormontabile difficoltà con i congiuntivi, la sua ossessione del potere e l’irrefrenabile pulsione al servilismo mettono a fuoco mistificazioni diffuse che un po’ tutti, attraverso la risata, finalmente esorcizzano: “«Allora, ragioniere, che fa? Batti?» «Ma… mi dà del tu?» «No, no. Dicevo: batti lei?» «Ah, congiuntivo»”. Ben prima che l’Italia rinunciasse a usare i congiuntivi sulla scorta dell’esempio televisivo commerciale, gli ultimi fantozziani, che sono ultimi proprio perché infilati nella categoria di mezzo tra la classe operaia e quella dirigente, mero strumento inconsapevole della burocrazia, si atteggiano a una cultura che non possiedono cercando comunque di declinare i verbi secondo tempi che non padroneggiano. Un congiuntivo sbagliato in Fantozzi è un aforisma sull’inadeguatezza di un intero ceto, quando non di una intera nazione. È la “volgarità” di Gogol’ individuata da Mirskij.

Muore il 3 luglio 2017 a 84 anni a causa di complicanze respiratorie dovute al diabete. Nel frattempo Fantozzi si accomoda non senza incomprensioni, cui peraltro è abituato, nell’ufficio di sottoscala vicino ad Arlecchino, Pulcinella, Brighella, Totò, Monsieur Hulot, Mister Bean e Charlot. La commedia che sopravvive alla sua epoca diventa poesia. Dopo il suo passaggio sulla Terra, La Corazzata Potëmkin non sarà mai più un capolavoro.

C’è un che di liberatorio nella vigliaccheria rappresentata dagli scatti subito puniti del ragioniere che si assoggetta per conformarsi, lamentandosene però in privato, c’è del sublime nel riflesso fedele che il suo personaggio offre alla miseria della mediocrità. Le tentate reazioni si riversano sui suoi simili: dirette in alto finiscono inevitabilmente per ricadere verso il basso aggravando ulteriormente il fardello dei famigliari, dei colleghi, degli uscieri, dei parcheggiatori in una sorta di ordinamento immutabile nel destino dei miserabili.

Ma sono gli impiegati, i diplomati ragioniere e geometra, i non laureati però neanche del tutto analfabeti il vero bersaglio del dileggio divino. Coloro che non hanno potuto o osato innalzarsi oltre una accettabile mediocrità sono puniti con il ridicolo che per la classe operaia invece si ribalta nella resistenza cinica del Cipputi di Altan. Nel caso di Fantozzi, inguardabile la moglie, primate la figlia, sottoscala l’ufficio, procacemente ributtante l’oggetto dell’inconsumabile desiderio: la signorina Silvani. In quel “signorina” brilla come uno specchietto per allodole tutta la libertà dello stato civile, sull’orlo della zitellaggine lustrata da una autostima comunque insufficiente: “Mi conquisti, mi seduchi. Ecco… mi colghi una stella alpina”. Nella guerra tra insignificanti non si risparmiano colpi bassi, si sprecano i rimasugli di dignità e si torna a casa con la coda tra le gambe, senza perdere però la speranza di uniformarsi l’indomani alle presunte fortune altrui imitandone le aspirazioni. Ai tre bulli che lo pestano nel corso della sua prima fallimentare uscita con la signorina Silvani, Fantozzi reagisce nel modo più civile nel tentativo di salvare la faccia irrimediabilmente spaccata, e a disastro già avvenuto osa un timido: “Badi a come parli”. La frase fatta che abitualmente dà il via agli alterchi, Villaggio la pone laddove ormai non c’è rimedio, quale estrema prova di debolezza nell’istante in cui il disgraziato vibra un sussulto di dignità per non sfigurare idealmente, essendo già fisicamente sfigurato, di fronte alla donna che desidera unicamente perché è meno rassegnata di sua moglie. Il “Lei non sa chi sono io” diventa un miraggio, giacché proprio questo spera Fantozzi, che non si sappia realmente chi è, che non se ne riconosca la pochezza. A tale scopo deve mostrarsi pari, se non superiore a quelli che, se andasse a guardare bene, nell’intimo sono spesso diversi da lui per una mera mancanza di scrupoli.

L’ambizione a migliorarsi o darsi un tono con sport, diete, escursioni, feste di Capodanno, raduni conviviali e gala non viene mai meno, e in essa ogni perdizione trova sfogo per l’insufficienza intrinseca del povero snob ricacciato nel recinto della sua inferiorità sociale, culturale, economica. La dieta ideale prevede: “Per dormire, mai letti morbidi. (…) Durante la giornata bere almeno settanta litri d’acqua tiepida. Uscire per una veloce passeggiata nel bosco di sei ore, brucando molta erba. (…) Non cenare mai con tori da combattimento spagnoli”. I suggerimenti non hanno solo l’esagerazione alla base della loro comicità, hanno anche un nonsenso qua e là che, reso accetto dall’autorevolezza della disciplina intrapresa per migliorare sé stessi, disorienta l’intera struttura di saggezza sociale contrabbandata come valida. “Uscite senza salutare nessuno e partite al galoppo verso l’ippodromo più vicino per una sgambata. Per non dare nell’occhio vi consiglio di nitrire ogni duecento metri”. L’idea salubre della locuzione “per una sgambata” offre un senso di gioiosa ragionevolezza a una prescrizione folle. Quella “sgambata” serve a unire in una promessa di allegria e benessere il malcapitato che cerca disperatamente, come spiega Villaggio, di conseguire la felicità attraverso la rubrica di spassi ed esercizi di salute offerti da una società assurda e aliena. Uscire senza salutare nessuno è come tuffarsi all’improvviso nell’agone, donarsi interamente all’avventura dimagrante, con fede cieca in totale competizione con il resto del genere umano. L’impulso all’imitazione, più che al miglioramento, che lo spinge nella morsa ferrea del dietologo gli suggerisce di imitare un animale, un cavallo, per poter tornare ad avere un normale peso umano.

Non ha pretese extraterritoriali Paolo Villaggio, i suoi miserandi personaggi sono decisamente italiani, come molti bersagli flaianei, grazie all’ibrido nazionale che già per lo scrittore pescarese costituiva un affettuoso crocevia di «vorrei ma non posso». “L’Italia è un Paese di sportivi sedentari, che guardano lo sport in televisione ma non lo praticano. Lo sport nazionale è la maldicenza, che viene, invece, praticato a tutto campo”, annota. E altrove: “Gli italiani quando sono in due si confidano segreti, tre fanno considerazioni filosofiche, quattro giocano a scopa, cinque a poker, sei parlano di calcio, sette fondano un partito del quale aspirano tutti segretamente alla presidenza, otto formano un coro di montagna”, scrive Villaggio, e il coro di montagna è la peggiore delle aggregazioni, con l’impulso a condividere e primeggiare che trascina un po’ tutti verso il baratro del “tragico”, aggettivo riscritto dal creatore di Fantozzi con significato opposto, a mostrarne spietatamente il lato umoristico, incapace di suscitare commozione, costantemente teso alla ferocia del risibile.

“C’è sempre in ogni agglomerato umano l’«organizzatore di sfide calcistiche». Mentre godono fama di organizzatori, questi elementi sono in realtà solo dei criminali pericolosi e la loro monomania porta periodicamente dei padri di famiglia sull’orlo della tomba”, è aforisma forse neanche tanto iperbolico. Le diete e il calcio, il ciclismo o la settimana bianca sono occasioni di emancipazione sociale e immancabili prove negative per l’hýbris del travet. È il loro trovarsi in una classe intermedia, di mezzo, a far sì che finiscano per essere “messi in mezzo” ogni volta che qualcuno cerca di salire o tener sotto gli altri. “Soprattutto dietro agli sportelli delle banche di periferia, consumano la loro vita i «lampadati». (…) Il loro sole sono i raggi UVA di un tragico parrucchiere sotto casa. (…) Quando escono il fetido parrucchiere, che prima faceva il fornaio, dice: «Sei splendido! Sembra proprio che tu abbia fatto una vacanza a Sharm el Sheik» (…) Sotto il rosso mogano della fronte, spicca il naso rosso fuoco dei nani da circo”.

Il Duca Conte Barambani e la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare sono espressioni della superiorità fintamente democratica costretta all’ecumenismo dalla necessità di sfruttare a dovere i nuovi sudditi. La facciata civile richiede una certa ipocrisia. L’impiegato ragioniere, che nutre un’ammirazione perfida e invidiosa per chiunque gli stia al di sopra, si piega al servilismo più abietto perseguendo una mimesi impossibile con chi, essendo nato nobile, non ha bisogno di mostrarsi più di quello che è, cioè crudelmente volgare e insensibile.

“Dopo quella diamantata pazzesca la contessina Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare gli fece conoscere alcuni amici e gli presentò nell’ordine: la signora Bolla, i coniugi Bertani, la contessa Ruffino, i fratelli Gancia, Donna Folonari, il barone Ricasoli, il marchese Antinori, i Serristori Branca e i Moretti, quelli della birra. A metà di quel giro di presentazioni Fantozzi era già completamente ubriaco”.

Queste figure nobili si trasferiscono agilmente dall’aristocrazia all’elevatezza culturale senza reali differenze. Come i cittadini di Capalbio, secondo Villaggio divisi distintamente tra contadini e intellettuali: “I contadini leggono, a fatica, «Il Tirreno»; gli intellettuali, uomini e donne, vestiti rigorosamente di lino bianco e con dei candidi golfini di cachemire annodati in vita, scorrazzano con «il manifesto» o «l’Unità» sotto il braccio, che i locali credono siano scritti in turco”. Lo spettro del Bar Casablanca di Gaber/Luporini si aggira tra queste righe la cui stilizzazione è estremamente precisa. “Ogni tribù veste i costumi nazionali, gli indiani da indiani, i Masai da Masai, i capalbiesi di lino bianco”. Il sospetto che questa suddivisione non solo sia etnica ma naturale, divinamente disposta, è più reale di quanto si creda.

Perciò il Megadirettore Galattico ha sembianze e poteri ultraterreni. L’ingiustizia sociale, nell’ateo pessimismo di Paolo Villaggio, si manifesta come il risultato di un volere celeste: “C’erano due bambini molto belli, biondi, figli di ricchi; tutti i figli dei ricchi sono biondi e eguali, i figli dei braccianti calabresi sono scuri e diseguali”. Qui spira l’influenza della cultura dell’epoca, con echi gaberiani di Signor G. Ovviamente l’insinuazione che Dio abbia voluto le diseguaglianze che portano all’oppressione è una critica a chi sfrutta la fede per mantenere lo statu quo, secondo una tecnica satirica di grande tradizione. “Temo che il Papa non creda in Dio” è invece la dichiarazione più potente contro tale fede. Ma le differenze sono le benvenute e proprio Fantozzi ne ha espresso, immolandosi, la ragion d’essere. “Perché ha avuto quella fortuna enorme?”, dice Villaggio. “Perché finalmente criticava questa imposizione: doversi travestire da tutti”. E lo Zelig di Woody Allen, il “camaleonte umano” uscito nel 1983, pur nella sua rarefatta sofisticatezza, non può dirsi del tutto innocente quanto a ispirazione.

La compagine soprannaturale fissa lo stato delle cose in forma inamovibile, dunque Paolo Villaggio è portato a ricercarne il comune denominatore in un’animalità primordiale, una condizione ancestrale che designa la raffinatezza voluta e non accessibile ai Fantozzi come un’illusione dell’Homo sapiens sapiens incapace di staccarsi dalle sue origini bestiali. L’unica verità che si staglia a distinzione degli esseri umani, italiani a paradigma del cosmo, è l’ammissione della loro sordida animalità. In questo effetto comico, da alcuni considerato facile per la sua volgarità, si trova invece la massima critica e comprensione dell’umano costretto a fingersi evoluto in un mondo mai emancipatosi dalla giungla. “Non ho paura degli attentati ma degli aliti terrificanti e indescrivibili che hanno gli Italiani di tutte le estrazioni sociali” orienta l’obiettivo in alto. Ma non tarda ad abbassarsi poi verso altre espressioni dell’infelicità dei corpi: “I mammiferi esperti di calcio che si fanno trasportare dai mezzi pubblici ne approfittano ignobilmente per scoreggiare come elefanti africani. Non sono scoregge rumorose perché hanno messo a punto una tecnica raffinata: il terrificante soffione con effetti devastanti. Ho visto due anziane signore di Liverpool piangere in silenzio, poi chiedere aiuto e infine buttarsi dai finestrini in corsa”. Siamo sicuri che gli hooligans siano avulsi da tali abitudini? Un sotteso lascito rabelaisiano attraversa gli scritti meno concessivi di Paolo Villaggio, un monito che trova il coraggio di allertare l’intera umanità sulla sua scarsa evoluzione: “Non fate mai l’errore madornale di fare i vostri bisogni negli insidiosissimi cessi detti “alla turca”, nei quali vengono risucchiati ogni anno una cinquantina di giovani”.

Nell’identificare Paolo Villaggio con la sua creatura più famosa non si usa alcuna delle iperboli che della sua neolingua sono l’ossatura: i “mostruoso”, i “tragico” e i “pazzesco” entrati grazie a lui nel lessico comune come elementi pertinenti al buffo, al burlesco, al sarcastico. È l’aggettivo “fantozziano”, entrato come sinonimo di grottesco e tragicomico nel dizionario nazionale, a designarsi quale evoluzione tutta italiana e novecentesca di “kafkiano”. Eredità indubbia del suo celebre precursore.

CUORI GENITALI – Stefania Tramarin in love

In un’epoca in cui il cuore diviene l’immagine più diffusa al mondo, un emoji da scambiarsi via social, un quadro devozionale sui muri della Casa di Giulietta a Verona, un fregio per magliette, borse, cravatte, abiti e accessori vari, nel momento in cui la sua stilizzazione pre e post pop, da Mirò a Frida Khalo passando per Chagall, tra Peynet, Keith Haring e Niki de Saint Phalle, dal Cuore Sacro di Jack Kerouac ai cuori iperkitsch di Jeff Koons, affrontare il tema nelle arti plastiche costituisce a priori una sfida. Dove il tipo viene abusato, lo stereotipo si solidifica rendendo concreto per l’artista il rischio di finire nel pozzo del già visto, già consumato, prossimo alla nausea. Per quanto le variazioni sul tema siano moltiplicabili all’infinito, la riconoscibilità dell’immagine brucia ogni sorpresa e categorizza in modo sommario l’operazione relegandola tra le rappresentazioni non interessanti per l’eccessiva celebrità del modello. Questo perché quel tanto di dolciastro sopravvissuto quale residuo deleterio del Movimento Romantico pare essersi condensato nella rappresentazione semplificata di un organo da sempre trasferito metaforicamente dalla sfera anatomica a quella dei sentimenti.

In un’epoca in cui il cuore diviene l’immagine più diffusa al mondo, Stefania Tramarin decide di affrontare l’argomento dedicandogli un’opera monumentale quanto a serialità, tanto impegnativa da fissarsi nell’obiettivo ambizioso di un disegno al giorno per 365 giorni. Un anno ipotecato nell’attività che Baudelaire definisce sorella dell’ispirazione, il lavoro giornaliero, un’impresa entusiasmante da ideare ma non facile da realizzare.

Nel farlo, il pensiero dell’artista si espande e dalla semplice stilizzazione del cuore, organo sentimentale privo di sesso, l’idea si accresce del contrappunto periodico di altre due stilizzazioni, corrispondenti agli organi sessuali dei due sessi. Quello femminile in verità gode di due differenti visualizzazioni: l’una piana, emblematica, che dell’evocazione “botanica” ritiene la genuina rappresentazione un tempo mimata nelle manifestazioni femministe unendo le due mani in un bacio verticale, l’altra tratteggiata nel vuoto tra le due cosce nude della donna, inquadrate di fronte, sarcastico trompe-l’oeil di un predicatore a braccia spalancate verso un cielo corporeo. Così il misticismo intorno alla fertilità, da cui prende significato l’etimologia di “felice”, quadra il cerchio di una ricerca formale felicemente indovinata. Le tre figure, che sono quattro, s’incontrano tra loro di tanto in tanto a mo’ di riassunto e puntualizzazione delle molte, differenti fasi del discorso. I cuori si inanellano l’uno nell’altro citando stili e movimenti artistici, tematiche concettuali e superficiali profondità, alternandosi di tanto in tanto a falli perfettamente identificabili, pur trasfigurati in figure stranianti di cactus o motociclisti appiedati, e a vulve prese di piatto o di fronte, inglobate nell’insieme di una vitalità sentimentale che non nega alla carne la stretta connessione con lo spirito.

Il cuore diventa così il terzo e onnicomprensivo organo genitale, quello che li contiene entrambi e ne combina i generi con sorprendente fluidità. Uno dei due organi femminili riproduce di tanto in tanto un cuore nel suo centro del piacere, mentre i cuori chiamano a raccolta i due organi femminili e quello maschile in una sorta di sinergia riassuntiva prima di riprendere il loro viaggio nelle diverse tappe che dagli spettri ai castelli, dalle nuvole alle lacerazioni conducono lo spettatore lungo un anno d’amore che ne concentra forse una sessantina, tale è l’età anagrafica dell’artista messasi in gioco.

Perché di gioco si tratta, lo si evince dal tocco di umorismo che emana da alcune opere e da alcune serie d’immagini sconfinanti dal lirico nel drammatico, quando non nell’horror, in un’andata e ritorno senza frontiere evidenti. Dal puzzle scomposto e riunito alle manipolazioni bioniche, dalla serie chirurgica all’animalier, dal pop di Lichtenstein squisitamente citato in una vertigine abissale all’assurdo di Escher, dal fumetto a Halloween, dal surrealismo magrittiano all’autoritratto cubista, dal grandguignol al minimalismo, dall’incompiuto al sovrabbondante, dal barocco al classicheggiante, e ancora, di tecnica in tecnica, dal disegno a china al pennarello, dall’acquarello alla tempera, dalla matita all’acrilico: tutto testimonia la potenza dell’immaginazione applicata alla quotidianità in una dissertazione inevitabilmente filosofica a proposito dell’amore e del sesso. I castelli di carte crollano, i gironi infernali sembrano macine di mulino, i sonetti scespiriani si raccolgono in immagine, schiere di alfabeti e grafemi affluiscono come sangue a cuori e falli e defluiscono in vulve generose e austere, i mostri dell’inconscio ghignano mentre i genitali fanno bella mostra di sé diventando altro da sé in dimensioni cardiache inesplorate tra la satira e la beffa del sistema sentimentale globale.

Ci eravamo tanto amati ma come? Con quali organi esattamente e preposti a cosa? Era il cuore a pompare sangue nelle cavità cavernose del membro virile o era la vulva ad agitare gli ormoni dell’amore? Quale ossitocina circola in quale organo per assecondare i desideri e i ricordi di quali desideri? Se per Andy Warhol il sesso non è che la nostalgia del sesso, per Stefania Tramarin non è che irrisione dei suoi trascorsi prefigurati con la Caduta in un avvenire quotidiano già spersonalizzato, il gioco di bimba di una donna troppo consapevole per cascarci ancora senza averlo profondamente deciso.

Le zip si aprono e chiudono su amori arcobaleno in borsette zebrate sinuose fino alla civetteria. Membri rigorosi e affermativi fanno la figura dei gemelli che li sostengono, proverbialmente di scarsa intelligenza, vulve devote a sacerdoti ascetici si confrontano con la geometria sensuale dell’origine del mondo. Tutto ciò che ne esce entra nel cuore che circolarmente s’intreccia al suo itifallo da esposizione senza che alcuna pornografia intervenga nel più remoto pensiero dell’artista né dello spettatore. Il turbamento iniziale di vedere simboli destinati ai muri delle latrine pubbliche accostati all’icona più glicemica del millennio sfuma presto nella complessità poetica di una mescolanza mai osata prima, e tanto ripetuta da rendersi finalmente credibile.

Si tentenna allora, e si esita ad ammettere che il più delle volte in cui si pensava di porre il cuore in primo piano era qualcos’altro a trasparire o a muovere gli intenti. Dall’altra parte si comprende come ciò che spesso governava incontrollatamente gli impulsi genitali non fosse che il travestimento di sentimenti tanto profondi da risultare inconfessabili. E tutto questo senso esplode non da una singola opera o da una raccolta di poche decine di disegni, ma dal lavoro assiduo di un anno, accumulo e sommatoria di esperienze vissute, sognate, ricordate, immaginate da una donna che nell’arte ha saputo porre un ragionamento universale, nato non dalla visceralità espressiva propria dell’artista ma dalla sua genitalità concentrata e allargata a infrangere l’utilizzo fasullo e convenzionale del cuore umano. Come un motteggio sensuale di Marilyn Monroe denuda in sé l’esuberanza femminile che si appella alla maschia irrazionalità, così la raccolta dei Cuori Genitali di Stefania Tramarin smaschera la menzogna sdolcinata dell’amore avulso dal sesso per ricondurre la verità nella sfera complessiva di due dimensioni inseparabili, irrimediabilmente compromesse. Allora il cuore smette di essere icona abusata alla festa di San Valentino e riacquista la povera dignità umana di Eva e Adamo davanti all’Albero, più genitale che genealogico, da cui tutti si discende.

Stefania Tramarin – Cuori genitali 2021

SERGE GAINSBOURG – Il terrore di non essere frainteso

SERGE GAINSBOURG – Il terrore di non essere frainteso

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Nel 2021 scade il trentesimo anniversario della morte di Serge Gainsbourg. Nel 1961, trent’anni prima della sua morte, esce il suo terzo album, L’étonnant Serge Gainsbourg. I numeri contano ma non significano quanto vorrebbero. Il brano che ne viene estratto, La chanson de Prévert, offre all’autore-interprete un successo duraturo dopo la sicura qualità degli album precedenti, Du chant à la une! del 1958 e Serge Gainsbourg N°2 del 1959, apprezzati dalla critica e dal pubblico “rive gauche” ma non ripagati da altrettanta fama. Nel 1960 il singolo L’Eau à la bouche, L’acquolina in bocca, appartenente alla colonna sonora dell’omonimo film di Jacques Doniol-Valcroze ha raggiunto le centomila copie vendute, buon risultato ma cifra non immensa per le vendite dell’epoca.

La Chanson de Prévert è scritta in origine per la cantante Michèle Arnaud che la registra in studio nel novembre del 1960 e la canta in tivù il mese successivo in una trasmissione televisiva di dieci minuti a lei dedicati. Depositato alla società degli autori solo nel gennaio 1961, diventa uno dei successi più celebri cantati poi dal suo autore. Ma di quale canzone parla questa canzone che ne include un’altra nel titolo? Del celebre brano Les Feuilles mortes, Le foglie morte, portato al successo da Yves Montand, scritto e composto da Jacques Prévert e Joseph Kosma per il film Les Portes de la nuit, Mentre Parigi dorme, di Marcel Carné del 1946. Nel film lo stesso Montand, che debutta sul grande schermo nel ruolo di Diego, canticchia il brano che poi raggiungerà notorietà internazionale, ripreso da Juliette Gréco nel 1951, quindi da Édith Piaf, Françoise Hardy, Dalida e, in inglese come Autumn Leaves, da Frank Sinatra e Nat King Cole. Già Le foglie morte nel suo testo parla di una canzone, rendendo l’effetto “all’infinito”, la mise en abyme celebrata da André Gide, un gioco vorticoso di rimandi meta-canori. Basti pensare che la stessa Juliette Gréco canterà in un album nel 2006 La chanson de Prévert, ma non l’aveva già cantata?

Il brano interpretato da Montand si apre con lo stesso verso che Gainsbourg riprenderà nell’incipit del suo: Oh je voudrais tant que tu te souviennes, Oh, vorrei tanto che ti ricordassi, inaugurando dal principio una spirale vertiginosa di reminiscenze a incastro. Cosa dovrebbe ricordare la donna cui si rivolge il protagonista? Le foglie autunnali che si accatastano e vengono spalate via come i ricordi e le tracce degli amori disuniti cancellate sulla spiaggia, l’autunno come stagione che si rispecchia nell’autunno della vita, tempo della perdita e dei rimpianti, delle occasioni passionali sfiorite, dei raggi di sole ormai assorbiti dal grigiore che annuncia la sterilità invernale. E insieme a questa nostalgia di una nostalgia, dovrebbe rammentarsi una canzone che lei cantava.

È una canzone
Che ci somiglia
Tu mi amavi
E io ti amavo

La canzone stessa nel testo di Prévert rinvia a una rassomiglianza, non fosse bastato il gioco di specchi allestito dal poeta, dunque una canzone nella canzone e una canzone che somiglia a chi la cantava e all’amore da lei condiviso con chi gliela vuol fare ricordare. Occasione ghiotta per il magico manipolatore di linguaggio che una mattina di autunno alle 10 si presenta a casa di Jacques Prévert per chiedergli il permesso di citarlo nel titolo e nel testo della propria composizione. Gainsbourg sa da quando ha lasciato la pittura per la musica che la canzone è la forma più popolare di messinscena emotiva, il palcoscenico sentimentale per eccellenza, e con il suo dirompente cinismo anti-kitsch lavora già da tempo al sabotaggio del mezzo con l’arguzia di un Odisseo che concepisce il Cavallo di Troia. Prévert lo accoglie con champagne mattutino, accompagnando con sigari aromatici le proverbiali Gitanes del giovanotto. Gainsbourg se ne esce con la liberatoria e la libertà di creare un cioccolatino avvelenato che la gente adorerà, come sarà tradizione nella sua opera e come già lo fu in quella del suo amato Oscar Wilde, senza veramente comprendere tutto ciò che vi è celato. “Vivo nel terrore di non essere frainteso”, aveva scritto l’autore irlandese, e se Serge Gainsbourg non prova terrore, certo nutre la speranza che non tutto ciò che compie, o perpetra, venga colto subito fino in fondo.

Serge Gainsbourg-L'étonnant

La canzone arrangiata da Alain Goraguer s’intrufola nel testo di Prévert apparentemente omaggiandolo, per poi smontarlo attraverso la propria sensibilità corrosiva.

Oh, vorrei tanto che ti ricordassi
Questa canzone era la tua
Era la tua preferita, credo
Sia di Prévert e Kosma
 
E ogni volta le foglie morte
Ti riportano al mio ricordo
Giorno dopo giorno gli amori morti
Non la finiscono di morire
 
Con altre è ovvio mi abbandono
Ma la loro canzone è monotona
E poco a poco mi viene l’indifferenza
A questo non ci si può fare niente
 
Perché ogni volta, le foglie morte
Ti richiamano al mio ricordo
Giorno dopo giorno gli amori morti
Non la finiscono di morire
 
Si può mai sapere dove comincia
E quando finisce l’indifferenza?
Passi l’autunno e venga l’inverno
E che la canzone di Prévert
 
Questa canzone, Le foglie morte
Si cancelli dalla mia memoria
E quel giorno i miei amori morti
Avranno finito di morire

Dopo la citazione iniziale con cui prende il testimone dal poeta Prévert, il poeta Gainsbourg gli si sovrappone oscurandone i lati più patetici con un’ironia spietata. Quando dichiara perplesso il nome degli autori, “credo sia di…”, affetta l’indifferenza che si annuncia come vero tema del suo brano. La donna cui si rivolge potrebbe essere la stessa cui parla il primo poeta o riflettere una nostalgia personale – un poeta può nasconderne un altro e una donna può nasconderne un’altra – se non fosse che a causa di questa donna, di questa ex che gli riporta alla mente la fine di un amore, Le foglie morte è una canzone tossica, un brano che con la sua lamentevole malinconia aggravata dalla bellezza melodica insiste a rigenerare in lui la morte degli amori senza permettere loro di essere sepolti. In questo testo risuonano con dandistica nonchalance i versi potenti di Giuseppe Ungaretti che in Non gridate più del 1947 chiede, ordina, forse supplica:

Cessate d’uccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
 
Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo.

L’adynaton del primo verso, figura retorica che esprime un’impossibilità, torna nei ritornelli di Gainsbourg che trasformano il sentimentalismo nostalgico prevertiano in una sorta di creazione di zombie emozionali ogni volta rimessi in circolazione dalla canzone che evoca una canzone che evoca una canzone su un rimpianto che evoca un rimpianto che evoca un rimpianto. Sembra che l’autore sbotti: “Finitela con queste foglie morte, o moriremo tutti di nostalgia”. Nessuno potrà più amare perché ogni altro amore è sotto l’influsso di questo patetismo che istiga per reazione all’indifferenza.

Si può mai sapere dove comincia e quando finisce l’indifferenza?/Passi l’autunno e venga l’inverno… sembra quasi il lamento di Thomas S. Eliot ne La terra desolata: Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo /Con un po’ di pazienza. Ci deve essere la morte prima della rinascita, se si continua a rammaricarsi per la morte di qualcosa, quella cosa continuerà a morire. Come Gainsbourg sperava, anche grazie alla felice orchestrazione che nei ricami di chitarra ispira l’orecchiabilità avvolgente del sirtaki, quasi nessuno ha pensato a quanto in verità stesse smontando il successo universale de Le foglie morte augurandosi che finissero le mille riprese dei mille interpreti, così da concedergli di innamorarsi ancora, di cantare vivaddio una nuova canzone. Ancora mise en abyme: la nuova canzone è giusto La chanson de Prévert che stiamo ascoltando.

Gainsbourg dev’essersi leccato i baffi per il perfetto fraintendimento ottenuto, un’intima presa in giro di un’arte minore attraverso un suo esemplare ben riuscito. Se a questo si aggiunge il senso supremo celato in tutta l’operazione, quello squisitamente linguistico che al creatore di calembour non può certo essere sfuggito, il capolavoro si manifesta in tutto il suo splendore: Prévert in francese significa “prato verde”. Con questa grandiosa truffa di successo, Gainsbourg si prende il lusso di fare giustizia di un cognome rispetto alla sua propensione lirica, togliendo il “prato verde” dalla stagione autunnale e cancellandone la visione da una memoria sintonizzata su una stantia immagine nostalgica. Quando La canzone del prato verde si sarà cancellata dai suoi ricordi, finalmente gli amori morti di Gainsbourg la finiranno di morire e, come diceva più o meno Ungaretti, l’erba potrà tornare lieta dove non passa quel frignone di un uomo.

La Chanson de Prévert non è semplicemente la Canzone di Prévert, ma è la critica ai sentimenti autunnali in essa riposti, un passo verso la liberazione di tutti gli amori morti ramazzati con la pala dai parchi e tracciati nei passi degli amori disuniti sulla spiaggia, la rivendicazione di una primavera d’amore che preluda a un’estate erotica senza precedenti, che sappiamo Gainsbourg inaugurerà nel ’69 con Je t’aime… moi non plus.