Marco Ongaro – La spia che ti amava, ossia pericoli e peripezie dell’amare
di Fabio Antonelli
Anticipato a novembre dello scorso anno dall’uscita del bel videoclip “La spia che ti amava” e il giorno di San Valentino dal secondo videoclip “S.r.d.”, esce proprio oggi il nuovo disco del cantautore veronese Marco Ongaro, intitolato “La spia che ti amava” (2024 Long Digital Playing). Un disco decisamente rock, realizzato con le Cifre, un classico trio basso elettrico, chitarra elettrica e batteria che vede come interpreti Pepe Gasperini, Pietro Franzosi e Giovanni Franceschini, con l’aggiunta di due coriste Lucia Corona Piu e Jessica Grossule. Se l’impianto del disco è rock, la scrittura poetica e raffinata di Marco Ongaro la fa da padrona.
Come consuetudine, se sei d’accordo, partirei da copertina e titolo. Una foto in cui ti si vede camminare furtivo per strada nascosto quasi per intero da una siepe. Con gli occhiali scuri da sole sembri quasi un agente segreto in azione e, guardando bene per intero la foto, a sinistra si vede parzialmente qualcuno o forse meglio qualcuna che di nascosto ti fotografa. Il titolo sembrerebbe togliere ogni dubbio. Com’è nato il tutto?
In verità il braccio del fotografo che mi ritrae di nascosto in copertina è del videomaker Oscar Serio: lui sta girando il video del singolo La spia che ti amava che dà il titolo all’album mentre Stefania Tramarin scatta sul set la foto che con l’intervento dell’art director Tiziano Cristofoli sarebbe diventata lo scatto di copertina. Una mise en abyme casuale che, se l’avessimo pensata, non sarebbe venuta così bene. Cristofoli ha poi insistito mettendo un fotografo anche dietro la vetrata del locale da cui vari miei cloni si allontanano nell’immagine del libretto interno usata come copertina del video su YouTube. La privacy è violata dal principio, c’è sempre un paparazzo da qualche parte, ciascuno fotografa qualunque cosa in ogni momento, uno dei sensi della title track sta appunto nell’essere spie grazie allo strumento di spionaggio per eccellenza, la macchina fotografica di cui ormai ogni telefono è provvisto. Ma se “L’amore è un’informazione che sfida l’algoritmo dell’iPhone”, il resto delle manifestazioni della nostra esistenza ormai non si sottraggono alla sudditanza digitale, o almeno si crede sia così. Si cercano prove dell’amore dell’altro andando a spiare il suo cellulare mentre dorme, ma l’amore non lascia prove di sé se non effimere, ambigue, fraintendibili. E a poco serve cambiare la password “un giorno sì e un giorno no”, bisogna rassegnarsi all’irriproducibilità virtuale del sentimento, quindi al suo impossibile smascheramento. Una parola lasciata su una chat può essere mal compresa mille volte e celare così l’essenza del sentimento che l’ha suscitata. Le parole scritte, le stesse immagini, mentono il più delle volte a dispetto della voglia di rappresentarsi da cui scaturiscono. Allora i miei occhiali scuri, finti Cartier comprati al mercato delle pulci di Glignancourt, non nascondono solo il mio vero sguardo, ma anche la loro natura “tarocca”, e gli edifici da Miami Vice che Cristofoli ha messo in rilievo con la luce camuffano il complesso residenziale di Verona in cui una felce di qualche tipo suona come una pianta tropicale. Non c’è niente di vero nel mondo delle spie, tranne l’apparenza.
Ecco, diciamo che così mi hai già parlato anche della title track che apre con una grande grinta rock il disco, per cui passerei alla seconda traccia Il gelsomino, un brano dolcissimo in cui un fugace incontro tra due amanti si fa pura poesia, che belli i versi in cui descrivi lei nell’amplesso “E la schiena si mostrava nel suo volo / era l’esile sua tempra / solo per chi l’amava / candida su un bianco stelo / potente come la sua fiamma / ardente tra la tragedia e il dramma”. L’atmosfera ha un qualcosa di francese, di Nouvelle Vague, ma magari è solo una mia impressione…
Come contraddire una tale affermazione? Quando si parla d’amore la Nouvelle Vague occhieggia felice. Direi più Truffaut che Godard, più Rohmer che Chabrol. Poi l’evocazione è soggettiva, la pennellata dell’autore tende a sollevare nell’animo di chi legge o ascolta echi delle rispettive esperienze. Per me, ad esempio, si sovrappone all’immagine di un airone che vidi una mattina di giugno “nella pioggia rada”, e rara visto il luogo e la stagione, su una spiaggia di Sifnos nelle Cicladi. Non sai mai cosa ti fa venire in mente un’immagine. Così come un profumo. Il gelsomino del titolo è la parte per il tutto, ciò che accoglie all’arrivo e ciò che lascia alla fine, una sorta di saluto, un profumo che incornicia il ricordo con la sua struggente intensità. L’uso dell’imperfetto poi: la canzone è tutta all’imperfetto, un tempo verbale di per sé elegiaco. Il ritornello di El portava i scarp del tennis, oltre alla potenza delle parole di Jannacci, riesce a rendere mitica e gloriosa la semplice figura di un barbone in virtù dell’imperfetto, questo tempo così meditativo, inconcluso, continuativo. Usato nelle strofe di Gianna da Rino Gaetano rende epica la pur stramba figura della ragazza prima di sdrammatizzarla nel presente del ritornello che si stempera poi nel futuro proverbiale di “chi vivrà vedrà”. La scelta di narrare all’imperfetto è la scelta di immortalare, molto più che con il passato remoto. Se si deve fare una statua commemorativa in poesia, niente di più potente dell’imperfetto. A volte scrivere di un ricordo aiuta a custodirlo.
S.r.d. con il suo potente riff iniziale ed un ritmo rock molto teso ma allo stesso tempo gioioso, ci porta ad affrontare un altro capitolo dei rapporti di coppia. Se in economia i rapporti societari si muovono tra S.p.A., S.a.s. o S.r.l. l’amore sembra regolato da una S.r.d., cioè una Società a responsabilità disperata, in cui i rapporti tra i due sono “una sfida al ribasso tra due libertà”. Il tema è svolto in tono quasi scherzoso, incomincia con un “Tu amavi me / io amavo te / ma tu temevi che / tra te e me / il primo sarei stato io / a dire addio” per passare a “Tu ami me / io amo te / ma tu sospetti che / tra te e me / il primo sarò io / a dire addio” e finire con “Io credo a te / tu credi a me / Però non credi che / tra te e me / l’ultimo sarò io / a dire addio”. Sembra quasi un L’hai voluto tu (Eptalogia delle colpe e del perdono – Archivio Postumia) 2.0, o sbaglio?
In effetti tendo a sdrammatizzare e il rock ‘n’ roll aiuta molto. Sto fatto che si tratti di “dondolare e rotolare” in fondo non rende mai del tutto serio ciò che si racconta. Era mia intenzione ridere di questa abitudine, di quando si è innamorati, a rendere prossimo il distacco, a scongiurarlo attirandolo in una serie di profezie che si autoavverano culminanti nella dichiarazione “Mi lascerai”, cui si risponde naturalmente “No, sarai tu a lasciarmi”. È un gioco che si fa quando si è cotti persi e non si ha in fondo molto altro da dirsi tra un abbraccio e l’altro. E hai ragione! Sei andato a pescare una canzone in Archivio Postumia che finiva mettendo a braccetto Luigi Tenco e Piero Ciampi: “Mi lascerai, non ti lascerò. Io sì io sì. Tu no tu no”. Me n’ero dimenticato e questo la dice lunga su quanto possano essere utili agli autori dei recensori preparati. In effetti questo giochino che ho intitolato Società a responsabilità disperata riprende il discorso dalle recriminazioni amorose di L’hai voluto tu e lo porta avanti in modo meno adulto, lo infantilizza così come ci si infantilizza nell’innamoramento. Non si crede che l’amore dell’altro resista più del proprio, mentre dentro di sé si spera che avvenga proprio questo, perché il primo a disamorarsi sarà quello che poi starà meno male, se togliamo il senso di colpa di essersi disamorati che comunque non è dolore vero e proprio. Ma finché si fa il giochino nessuno ancora sta male, si cerca solo di prefigurarsi l’inevitabile, un po’ per esorcizzarlo e un po’ per quel masochismo da cinema horror per cui si prova un brivido standosene però ancora bene al sicuro. Per questo l’arrangiamento del brano è di per sé “poco serio”, inanellando rock anni Cinquanta e Sessanta a momenti punk e visioni elettriche un po’ buffe come le sa fare Vasco Rossi. Lo stile è frammentario e concitato, a volte ripetitivo come i discorsi che si continuano a fare con piccolissime variazioni all’unico scopo di tenere il contatto in amore. Ho voluto farci un video giocoso proprio per questo, quasi irriverente dal punto di vista del rocker. Niente cuori straziati, solo immaginazione reiterata su modelli coattivi. Gli stessi discorsi in vari posti diversi. Di cosa parliamo quando si parla d’amore? Ma di lasciarci, è ovvio!
La successiva Lo sfondo è di una dolcezza incredibile, si apre con questi magnifici versi “Tutto è sfondo dove non sei tu / tutto è scenografia / tutto è sfondo quando sei via / tutto è retroscena / chi camminava si ferma / chi discorreva sta zitto / e la proprietà del mondo / in fondo è un affitto” e ci racconta di una storia d’amore mancata e della perdita di senso di tutto il resto, che alla fine diviene solo sfondo. Personalmente è forse il brano che più mi ha colpito e quel verso “Tutto è sfondo dove non sei tu” è così bello da avermi fatto venire in mente il verso “Se dovessi reinventarti ti farei dal vero” di Pierangelo Bertoli.
E tu mi citi Bertoli che con il mio discografico attuale, Luca Bonaffini, ci ha scritto canzoni. Lo sfondo vuole rendere l’idea di un egotismo traslato. Se per l’egotista il mondo è tutto filtrato dalla sua sensibilità ed esiste in quanto pura autopercezione, nel caso dell’egotista innamorato il mondo appare totalmente filtrato dalla sensibilità della persona amata. Se lei non c’è, l’ambiente diventa uno sfondo inane, una specie di programma di videogame per un gioco di ruolo in cui le interazioni non si innescano, i personaggi che lo abitano non agiscono e i suoni e le immagini si mostrano nella loro insensatezza di circuiti immotivati. Mi piace fare poesia citando i videogame, i pixel e l’elettronica, un po’ cyberpunk. In verità non è detto che la storia d’amore della canzone sia mancata, il testo tratta dell’ipotesi di tale fallimento. “Se dall’aereo tu non scendi / o il bagaglio non esce mai”, o ancora “Se tu riparti prima del tempo / o ti sistemi in qualche hotel”. È il gioco letterario del “e se…”, un altro modo di dichiarare l’amore, facendo capire quanto la persona mancherebbe qualora mancasse. Accidenti, fino a qua è proprio un disco sull’amore!
Scusa Marco, te lo cito nuovamente, perché se Bertoli in Poeti cantava “I poeti son poeti perché scrivono poesie / Fanno a gara nei concorsi dove vincono bugie / quei concorsi col salame, con la medaglietta d’oro / hanno il vizio di spiegarti che i poeti sono loro” qui, in Concorsi di poesia senza poeti, abbiamo uno scenario forse ancor più sconsolante “Complottavano nei portici come profeti / forti di qualche ingenua che li aveva condivisi in un post / sognando concorsi di poesia senza poeti / dove spadroneggiare grazie alla Gazzetta dello Sport”, sognando di far parlare di sé fosse anche solo per un giorno “In concorsi di poesia senza poeti / a far parlare oggi e domani si vedrà”, ma forse non sono tanto le vittime a destare la tua compassione quanto chi, cosciente della loro mediocrità li adula innalzandoli come massimi poeti “Tra catering kermesse prego astenersi / da faccine selfie e altre forme di pornografia”. Potrebbe, in qualche modo, essere considerata un seguito di Ciascuno ha il proprio festival?
Lo è senz’altro. Entrambe sono invettive sui carrozzoni. Prosegue sul solco dell’indagine sulle motivazioni profonde di chi organizza tali concorsi, spesso un’aspirazione inconfessata alla poesia. Taluni operatori culturali che sotto sotto, se vai a grattare bene, scopri che nascondono le loro “poesie nel cassetto”. Taluni radunatori di cantautori che scopri essere loro stessi cantautori, sebbene non apertamente dichiarati, poeti mancati che puntano sull’altrui mediocrità o sulla vicinanza a qualcuno di effettivo valore per risaltare in società, se non altro per emergere o parificarsi. Il problema con un’invettiva è come risolverla infine, dove mandarla a parare. Mentre in Ciascuno ha il proprio festival il protagonista punta al mercimonio come risarcimento per l’altrui presunta incomprensione, qui ho voluto porre il ritornello in un territorio lontano, un canto senza autore o di autore ormai ignoto, che molti di noi cantavamo andando in montagna o nelle passeggiate da bambini e che nessuno riconosce più, in base al mio esperimento. Incerti pure sul titolo (Lassù sul monte nero o anche Caramba) in internet lo definiscono “canto scout” come pure “canto di pace” o “canto contro la guerra”, ed è una specie di Spigolatrice di Sapri che muore con tanto di mitragliata nemica nella strofa più drammatica che però da bambino non mi facevano cantare mai. La fermavano prima. Mi è bastato prendere una strofa di questa, cambiare i “dodici briganti” in “tredici invitati” e il détournement era servito. Chi è l’invitato che non beve? Come diceva Thomas S. Eliot, ne La terra desolata: “Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?” È l’eterno mistero dell’autenticità.
Foto di Stefania Tramarin |
Un’altra chitarra elettrica dal suono teso e un coro a far da contraltare con i versi “Tieni le distanze / poche confidenze / Tieni le distanze / poche confidenze” apre Una via di fuga. Lo scenario mi sembra essere la pandemia ma, sembra che il tenere le distanze più che una regola dettata dall’emergenza sanitaria sia più un’imposizione amorosa, un altolà all’approccio amoroso, almeno mi sembra di intendere dai successivi giustificativi versi “Vuoi trovare una nuova persona / che ragioni a mente fredda / che abbia una vita sana ed un’anima assai buona senza essere per forza un Buddha / ma nessuno è senza macchia / senza un Fracchia nell’armadio”. Trovo che i versi “Al mattino una rugiada alla sera una candela alla notte una via di fuga” siano una perfetta sintesi della situazione descritta dalla canzone o mi sbaglio?
La pandemia come esperienza di isolamento e di divieti, certo, che sinteticamente trasforma un ipotetico refrain alla “twist and shout” nei versi del coro, che sono esortazione e figure da ballo collettivo: invece di “butta in aria le mani / e poi falle girar” ci troviamo ora con “tieni le distanze / poche confidenze” a compendiare il cambio di epoca. Così come la figura retorica della personificazione viene a ripopolare nel ritornello le spiagge e i paesaggi disertati dagli umani, e per fortuna che il linguaggio almeno ci soccorre ancora. Va da sé che l’isolamento e lo spopolamento di umani dal mondo, ripopolato invece a dismisura nei siti virtuali, comportino pure difficoltà d’incontro amoroso in senso concreto. Esplosioni di chat mentre il coprifuoco impazza. Nei versi che citi mi è molto piaciuto traslare il solito scheletro nell’armadio nella maschera di Fracchia che tutti conserviamo nell’intimo, antonomasia sconosciuta ai giovani che forse riconoscono per sentito dire Fantozzi. Giovani che dovrebbero studiarsi il nostro Gogol, il nostro Melville, il nostro Kafka: l’incredibile Paolo Villaggio grande fustigatore di debolezze nazionali per nulla superate. I versi che citi nel finale della tua domanda, è vero, raccolgono l’emozione di quei tempi in cui si era bloccati per disposizioni governative, costretti a una frugalità umana dalla quale chissà se ci siamo ripresi.
Con Ritratto di donna scomparsa, c’è un cambio di scena totale, si può dire che cambi completamente anche lo stile di scrittura che si fa più descrittivo, andando a cogliere i particolari di un’assenza “di una casa di una stanza / negli scaffali in ordine / di un armadio a scomparsa / cucina senza intingoli / parete con credenza” aggiungendo però con quel “averne avuto già / più che abbastanza /sapere di mancare un giorno / magra soddisfazione” segno inequivocabile di precedente insoddisfazione. Più enigmatico il finale “Il quadro si è piegato / eppure non lo era / dev’essere passato / qualcuno a qualche ora /forse un colpo di vento”, quasi una presenza “in casa tutto è spento / però c’è luce ancora”… C’è bisogno che ci illumini. Splendido l’assolo finale di chitarra elettrica, mi ricorda Santana…
Mi assicurano che il chitarrista Pietro Franzosi stesse pensando a John Mayer, ma effettivamente può ricordare Carlos Santana. Di certo hai ragione a definirlo splendido. Pennellate misurate, distorsione q.b., gusto dell’attesa e dell’affondo, finale in vorticosa ascesa. Il titolo della canzone è come capita a volte il verso mancante. È Lo sfondo che dalla quarta canzone viene in rilievo nella settima. Se prima era onnipresente ma insignificante, insufficiente nell’ipotesi di assenza della persona amata, ora acquista tutto il senso che si cerca non trovandola più davvero. Gli oggetti diventano indizi in un’indagine, elementi di un identikit, immagini solitarie tra Hopper e Morandi. Se prima tutto era niente, ora il niente diventa tutto e sembra parlarci di lei, di com’era quando c’era, di perché se ne sia andata. Si compone così un ritratto che, come ogni ritratto, è la rappresentazione dell’assenza sostanziale della persona, la descrizione della sua mancanza. Come la stanza in cui Salvador Dalì nella sua casa di Figueras raffigura il volto della procace Mae West mettendo una tenda bionda per i capelli, un rosso divano per la bocca e due quadri di gente in piazza per gli occhi, qui ogni dettaglio della mobilia descrive la donna scomparsa del titolo. E una cornice fuor di sesto per chissà quale ragione offre all’osservatore non certo disinteressato il sospetto, l’illusione, forse la speranza che lei sia ancora lì da qualche parte, scampata grazie a qualche momento di disattenzione. La casa è al buio, eppure c’è o s’intravvede della luce, vorrà dire qualcosa. In verità non c’è rassegnazione, né nella donna scomparsa forse proprio per questo né in chi ancora la cerca dove un tempo fu.
Ed arriviamo a Ma tu sorridi, canzone lenta, accompagnata per tutto lo svolgimento dal clarinetto suadente di Marco Pasetto. L’atmosfera del brano mi riporta un po’ ad Anni ruggenti, in più sento molta nostalgia in questa canzone che parte da un presente, un dato di fatto, “Si vuole il corpo e si vuole la mente / ognuno cerca un cuore gentile / per questo lascio il ricordo indulgente / vagare all’ombra del vecchio cortile” per passare a dei versi all’imperfetto che emergono dai ricordi “C’erano pietre brillanti di sole / ed incantesimi di naftalina / sotto il sospiro del vento la gonna / già troppo adulta per una bambina” e poi si torna ancora al presente “Ma tu sorridi se scatta la foto / guardalo in faccia quando ti parla / abbassa gli occhi quando è arrabbiato / apri le orecchie orecchino di perla”. Chissà che diranno le donne qui … Fino agli amari versi finali “Ciò che è passato lo chiamano vita / E non esiste il presente davvero”. Che mi racconti?
Se vogliamo lasciare “il ricordo indulgente vagare all’ombra del vecchio cortile”, per forza di cose si va nel passato. E, come sottolinei tu, ci si va a passo alternato. Il cortile è un po’ un Giardino dell’Eden e l’infanzia di ogni bambina, questa in particolare, è normalmente vissuta nell’innocenza di un paradiso terrestre destinato a guastarsi. Nella canzone in modo sotteso c’è questa atmosfera di perfezione corrotta, perché laddove si tratta di corpo e di mente, e torniamo all’amore ma anche strettamente all’eros, la presunta purezza infantile non può che tramutarsi in qualche shock che prepara la vita adulta. Non è chiaro nel brano, volutamente, di che natura sia lo shock. C’è un uomo, autorevole o autoritario, certo, potrebbe essere un padre come pure uno sconosciuto, come l’uomo con cui la donna vive adesso. Ciò che conta nel presente inesistente della protagonista è che il passato non è mai trascorso davvero, è una reminiscenza che occupa l’attimo che lei vive riempiendolo di determinati attimi che visse un tempo. Lei e la sua vita sono il risultato di qualcosa accaduto nel suo passato, in quel cortile, qualcosa di pregnante, non per forza riconoscibile in una categoria estetica di bello o brutto, ma talmente significativo da essere ancora qui, con lei, adesso. Allora il presente dei versi che tu hai citato non è che il passato che mai la lascia. Non sappiamo più se quel padre o quello sconosciuto sono davanti a lei in questo momento o se ne sono semplici rappresentazioni rimesse in circolo da altre persone o da fantasmi. L’identificazione tra passato e presente è assoluta, forse per un trauma, forse per una felicità tenuta stretta. Marco Pasetto e il suo clarinetto, certo, ma Anni Ruggenti proprio no. L’arrangiamento imbastito da Pepe Gasparini poggia sul suo basso intrecciato alla batteria di Giovanni Franceschini e alla chitarra di Franzosi in un modo talmente sofisticato da essere lontano anni luce dal dixieland di quel disco birbante. Per non dire delle voci di Lucia Corona Piu e Jessica Grossule, sirene morbide a unire il ricordo alla neutralità dell’attuale.
Il dixieland scoppiettante di Anni Ruggenti è indubbiamente distante dalle sonorità di questo lavoro, ma il clarinetto di Pasetto, sempre morbido e rotondo, lo trovo inconfondibile, intendevo questa assonanza ma passiamo, invece, ad Aveva un uomo in cui c’è ancora uno stupendo sottile gioco di parole nei versi “Ce n’era stato uno prima / forse più di uno / ma chi c’era stato non c’era / proprio quando c’era / era sì il suo uomo / ma poi non ci credeva / e lui non lo sapeva / com’è che un uomo è uomo / di una donna vera / una donna che invece c’era / c’era”. Trovo il tutto sublime anche quando un tema serio come quello della presenza-assenza di un uomo accanto a una donna è sapientemente stemperato da un “abracadabra la vita ha deciso / tra un Lalaland e un Tralalà”, ove “Ogni sospiro un motivo ce l’ha”…
Lalaland è un film musicale, e lo stesso vale per Tralala, molto meno noto, che ho avuto la ventura di vedere un paio di volte al cinema a Parigi. In Italia credo non si sia nemmeno affacciato. Sono due musical, insomma, utili a descrivere l’universo della protagonista, una rappresentazione tra oroscopi e Tarocchi dove ci si aspetta che qualcuno a un certo punto si metta a cantare o faccia qualche passo di danza, una vita poco seria trascorsa non tra incudine e martello ma tra un uomo che non c’era più da subito e uno che deve sempre ancora arrivare. Il gioco tra passato e presente della canzone precedente qui si sospende nell’area dell’attesa, durante la quale la vita effettivamente scorre. E tra le magie delle fiabe e i sogni del musical non passa neanche poi male. Un brano che sottolinea quanto una donna sappia meritare molto più di quello che alla fine le capita di avere, circondata da uomini insufficienti, incapaci di esserci pure quando ci sono. La suggestione musicale del testo è avvalorata nell’arrangiamento da evocazioni di Kurt Weill eseguite però dalla chitarra distorta dei Black Sabbath e contrappuntate da un tema vocale femminile alla Ennio Morricone. Un miscuglio fortunatissimo, un equilibrismo che unisce il teatro di Brecht al reality di Ozzy Osborne, un guazzabuglio miracolosamente riuscito che ben rappresenta l’esistenza e lo spessore della protagonista.
Foto di Stefania Tramarin |
La traccia numero 10, intitolata Pascoli Verdi, è come ormai consuetudine nei tuoi ultimi dischi, una traduzione in italiano di una canzone straniera. La scelta questa volta è caduta su Pastures of plenty di Woody Gutrie e, quello che originariamente era un pezzo country folk, qui è diventata una ballata rock più conforme all’intero spirito dell’album. Come è nata questa scelta e quali le eventuali difficoltà nell’adattamento se ci sono state?
Nel luglio 2012 a Modena Maurizio Bettelli, cantautore, operatore culturale e massimo esperto italiano di Guthrie, organizzò un Tributo a Woody Guthrie per il Centenario della nascita e mi invitò. Mi assegnò anche la canzone che avrei dovuto cantare, Pasturses of Plenty appunto, i pascoli dell’abbondanza, che per l’occasione tradussi in Pascoli verdi. Il primo imbarazzo all’epoca era quello di andare lì e cantare in inglese, cosa che avevo fatto negli anni 80 quando indossavo il costume del canadese O’Gar per contrabbandare della Italo Dance di cui scrivevo i testi in lingua straniera. Dopo aver smesso nel 1986, mi ero ripromesso di guardare in faccia il pubblico da lì in poi cantando solo in una lingua che potesse capire. Per quanto millantassero, gli italiani non hanno mai capito un’acca di inglese cantato, men che meno cantato da me. Dunque, mi parve naturale tradurre il brano per cantare quello che dice Guthrie a un pubblico che potesse afferrarlo. Prima sentii la sua versione, poi ascoltai un bootleg in cui Bob Dylan maltrattava il brano abbastanza da rendere facile impossessarmene. Forgiai su Dylan la traduzione cantata. Per questo sul disco dichiaro che l’ho tradotta “per colpa di Maurizio Bettelli”: non mi avesse invitato non mi sarei mai cimentato in un’impresa tanto azzardata perché, se il testo è parecchio fedele com’è mia abitudine, la musica è proprio liberamente interpretata. Il tutto ovviamente si confà senza problemi allo spirito dei folksinger di allora che si passavano le canzoni e le riarrangiavano da uno Stato all’altro facendone qualcosa di proprio. In questo caso il chitarrista Franzosi ci ha messo pure del suo, creando un’intro alla Hendrix non distorto che conferisce una particolare tensione alla ballata. Il testo è tra i più letterari di Guthrie, tratta della tematica delle migrazioni americane in seguito alle tempeste di polvere di cui John Steinbeck narrò nel romanzo Furore. C’è epopea da vendere, insomma.
Eccoci così arrivati al brano che chiude il disco Quello che accadrà, dedicato a Vittorio De Scalzi, con quei versi toccanti del ritornello “Was ist loss mit dir / la clessidra vuota / was ist loss mit dir / la sua sabbia idiota / nudo il buio sembra quasi blu / c’era un’ombra forse tu” sorretti da una struggente melodia, cui alla fine si aggiunge il verso “Quello che accadrà sarà un po’ niente” che chiude la traccia con la musica improvvisamente interrotta. Mi dici qualcosa del rapporto che ti univa a Vittorio, che credo andasse oltre l’attività strettamente professionale?
Con Vittorio De Scalzi era facile essere amici, tale era la squisitezza della sua persona. Ci si divertiva e si giocava, il suo particolare calore umano non veniva mai meno nella comunicazione, di una qualità eccellente. Insieme abbiamo lavorato a Gli occhi del mondo, dalle poesie di Riccardo Mannerini, su suggerimento di Enrico de Angelis che mi aveva proposto come sostituto di De André in quello che avrebbe dovuto essere il seguito ideale di Senza orario e senza bandiera, ma il lavoro era andato oltre quella collaborazione, diventando subito complicità. In compagnia di Marco Spiccio, Max Manfredi, Cristiano Angelini e la moglie Mara abbiamo passato bellissime giornate e serate genovesi tra canzoni e prosecco. Quello lo portavo io. Lui mi ha aiutato a rifinire le canzoni del mio spettacolo teatrale sulla Costituzione nel 2009, di cui siamo coautori, e io per lui ho scritto i testi di un intero concept album sul Graal, di cui solo una canzone finora è stata pubblicata. Funziona così tra autori e musicisti: l’amicizia è fatta di ciò che si fa insieme, quello che si è creato in combutta continua a tenerci uniti per sempre, a prescindere dalle sorti seguite poi da ciascuno. È stato un privilegio lavorare con lui significa: è stato un privilegio essere stati amici. E un grande piacere. Per questo gli ho dedicato l’ultima canzone del disco. Ora che lui manca fisicamente in questo mondo sarà difficile che ci accada qualcosa ancora. Tutto qui. La falla spaziotemporale si è richiusa, per il momento.