LA VITA IN ROSA – Non solo Barbie
Articolo scritto da Marco Ongaro per la rivista Inchiostro
Se si tratta di individuare l’inno del ritorno alla vita nella Francia liberata dai nazisti e nel mondo liberato dalla guerra, non si può che parlare de La vie en rose.
Il testo è di Édith Piaf e, secondo la testimonianza di Norbert Glanzberg, anche la musica. «Quando mi ha chiesto di firmarla, ce l’aveva già tutta, la canzone è tutta sua, diceva “le cose” invece che “la vita”, ma il resto era già tutto fatto», dichiara il compositore. La melodia di sicuro, lui ne ha la prova perché la cantante gli ha chiesto di firmarla dopo avergliela fatta sentire, e lui non era il primo cui faceva una proposta del genere. Ha rifiutato per una questione di onestà. Come già aveva rifiutato il compositore e direttore d’orchestra Robert Chauvigny, con cui il Passerotto lavorava all’epoca. La storia dice che Chauvigny non ritenesse il testo alla sua altezza, in verità non riteneva tale la musica, già interamente concepita da Édith.
Marguerite Monnot, che da tempo collaborava e viveva a casa con lei, non ha accettato di firmarla perché trovava il ritornello troppo insignificante, troppo facile, troppo orecchiabile. È plausibile che vi abbia lavorato insieme a Édith, il passo del suo pianoforte s’intravede nella trama dei vari passaggi successivi. La sua riluttanza deve aver ispirato la scarsa fiducia in se stessa della cantante che, tornata di nuovo a mendicare sulla via dei musicisti, è andata cercando un autore che donasse dignità alla sua creatura, qualcuno che avallasse la musica da lei pensata per il suo testo. Ecco come nasce un capolavoro che segna un’epoca e diventa un sempreverde. Alla fine il pianista dell’orchestra accetterà, un artista destinato a passare alla storia per la celebrità di una firma posta su un’opera che non gli appartiene, buon per lui. Si chiama Louis Guglielmi, in arte Louiguy.
La canzone inizia con una quartina di preludio, la musica ne scandisce il carattere attendista con gli accordi al pianoforte, aperti, tratteggiati da corone frastagliate a sottolineare la funzione introduttiva dei primi versi, parole destinate unicamente a preparare la strada al poderoso ritornello che costituisce in effetti l’ossatura e l’essenza dell’intera canzone.
Occhi che fanno abbassare i miei / un riso che si perde nella sua bocca / ecco il ritratto senza ritocchi / dell’uomo cui appartengo.
L’uomo cui appartengo. Quanta forza e quanto abbandono in questa dichiarazione preventiva. È vero che Édith si rapporta così ai suoi uomini, anche se il suo è più un desiderio che una realtà. Un desiderio finora in parte frustrato. Non le è appartenuto fino in fondo nessuno degli uomini che ha amato, avevano altre donne, erano “belli indifferenti”, le facevano abbassare lo sguardo per l’emozione, certo, ma va anche detto che quando qualche uomo è stato assolutamente suo, come Raymond Asso, lei l’ha tenuto in disparte per cercarsi qualcuno che soddisfacesse con l’indifferenza e l’incostanza amorosa la sua sete di passionalità conturbata. Occhi negli occhi che lei non riesce a reggere, sguardo che deve abbassare e riso che si perde tra le labbra, ecco il ritratto schietto dell’uomo cui appartiene. Dopo la quartina d’introduzione, parte subito il largo ritornello, annunciato dalle note dell’orchestra accennate in un paio di battute a inizio brano, e il canto si stende semplice, in morbida discesa, di un’efficacia micidiale.
Quando mi prende tra le braccia / e mi parla sottovoce / vedo la vita in rosa. Intelligente ispirazione alla fine della guerra, epoca faticosa di ricostruzione e stenti, dipingere di rosa ogni cosa grazie all’amore di un uomo. Il suggerimento dato al mondo è: ora che abbiamo finito di scannarci, amiamoci, e ogni cosa cambierà colore, tutto diventerà più dolce e il futuro, che per definizione è bello se è roseo, crescerà nella fiducia e nella serenità. La realtà è ancora tutta qui, presente, ma il potere taumaturgico dell’amore può stendere una cortina colorata su tutto ciò che non va. La dichiarazione fondamentale sta nel verbo vedere coniugato alla prima persona singolare. Vedo la vita in rosa non significa necessariamente che lo sia, anzi. Sono le braccia dell’amato, è il suo dolce mormorare a cambiare il colore alle cose, è la presenza amorevole dell’uomo cui la donna si abbandona a mutare la prospettiva dell’esistenza e a renderla non solo migliore, ma meravigliosa.
Mi dice parole d’amore / parole di tutti i giorni / e questo mi fa qualcosa. Nella seconda terzina del ritornello l’amore non fa rima con sempre. Non è la coppia amour/toujours a fare rima, bensì la coppia “amore e giorni”. E neanche dei giorni speciali, “tutti i giorni”. Le parole che lui le dice sono ordinarie, parole d’amore che ripete tutti i giorni senza inventiva eppure, proprio in virtù di questo, “le fanno qualcosa”. Sarà il tono della voce, così sussurrato, saranno le braccia che la stringono, l’idea di quotidianità penetra nella magia del sentimento a offrire due chance alla vita: una, quella che ogni giorno si parli d’amore, l’altra, che delle semplici parole di tutti i giorni bastino a rendere felice una donna. Le parole di tutti i giorni sanno parlare al cuore della protagonista senza alcuna pretesa di essere poetiche. È l’autenticità delle parole, non il loro essere scontate, a muoverle qualcosa dentro. Il realismo passa attraverso il romanticismo e ne esce rafforzato, depurando di ogni stucchevolezza il lirismo dell’emozione.
Ora il ritornello può aprirsi verso l’alto, conducendo le note, che erano in graduale discesa, verso un punto di svolta: È entrato nel mio cuore / Una parte di felicità di cui conosco la causa. L’uomo cui appartiene è entrato nel suo cuore e coincide con una sensazione di piacere, di fortuna, di benessere che sembrerebbe inspiegabile, perché inattesa, ma da cui lei, con la solita aria da cantante realista, indica di non essersi lasciata prendere alla sprovvista, indovinandone bene l’origine. Questa gioia insperata viene dall’uomo che le è entrato nel cuore e dalla certezza che ne deriva: È lui per me, io per lui, nella vita / Lui me l’ha detto l’ha giurato per la vita. Questa specie d’inciso all’interno dell’ampio ritornello rappresenta il nucleo del concetto, la rivelazione centrale, la spiegazione che dalle parole di tutti i giorni si espande al giuramento di eternità. La nota sulla ripetizione di “vita” viene allungata in sospensione, come se la protagonista volesse rassicurarsi in merito al giuramento dell’uomo. E che la vita di cui si parla sia lunga, più lunga delle altre, così come la nota che si apre verso l’alto e si ripiega in una curva sentimentale per riallacciarsi alla terzina conclusiva del lungo refrain.
E appena me ne rendo conto / allora sento in me / il mio cuore che batte. È allora che avverte in sé, forse tumultuoso, il simbolo del sentimento restituirle la conferma delle sue funzioni vitali. Tra sollievo ed emozione, la vita pulsa.
Il ritornello è finito e riprende l’interludio, il secondo e ultimo che prepari nuovamente il balzo all’accattivante ritornello. Una quartina ancora che, come la prima, serve soprattutto a preparare, separare, annunciare il vero spazio della canzone. Notti d’amore a non finire / Una grande felicità che prende il suo posto / le noie, i dispiaceri si cancellano / Felice, felice da morirne. E riparte il ritornello, come una danza lenta, placida, che trasmette sicurezza. Non c’è alcuna maniacalità nell’asserire tanta gioia. La soggettività non ne sminuisce il valore. È lei che vede la vita in rosa, non è la vita a esserlo, eppure la cosa è vera e palpabile come il cuore che le batte in petto, e lo è perché lui le ha giurato che sarà per sempre e questo le basta ogni volta che se ne accorge. È come fosse stata perduta nei dispiaceri del passato e potesse tornare a immergervisi da un momento all’altro, non appena lui mollasse la presa e l’abbraccio sparisse, perché le parole sono di tutti i giorni, e non sono il vuoto “sempre” che fa banalmente rima con amore. Per lo stesso motivo non accadrà, non sprofonderà di nuovo nella tristezza che la circonda se osserva il mondo fuori da quell’abbraccio, perché quelle parole di tutti i giorni garantiscono che la promessa è autentica come la quotidianità in cui viene espressa. È questo a rassicurare la donna sull’amore e sulla sua durata. Forse una volta sciolto l’abbraccio torneranno noie, paure e dispiaceri, perché i tempi sono duri, ma lei gli crede e lui ha giurato, quindi in questo momento, mentre lui la prende tra le braccia e sussurra, la vita è rosa come lei la vede. E continuerà a esserlo, forse. Cosa conta? L’importante è l’adesso dell’abbraccio, questo “quando” che apre il ritornello. Perciò l’andamento è così placido, concedendosi la calma della solennità, quasi una berceuse, una danza che culla, una ninnananna regale che Édith canta a se stessa per convincersi che i tempi buoni sono finalmente arrivati. È struggente il fatto che lei ce lo racconti in prima persona. Una donna che insiste a narrarci la sua felicità per persuadersene, affinché noi ascoltatori le crediamo e, facendolo, confermiamo la promessa che lui le ha fatto. «Guardatelo il mio uomo», sembra dire. «Questo è il suo ritratto senza ritocchi, tale e quale. Guardatelo e ditemi voi che è tutto vero». Nel dubbio, ce lo ripete due lunghe volte, cercando di essere tranquilla e sognante il più possibile. In una versione successiva, interviene una variante nella ripetizione del ritornello: laddove s’innesta l’inciso, passa al “tu”, scivola nel discorso diretto, facendo aderire appieno forma e contenuto. Sei tu per me e io per te, amica mia / lui me l’ha detto, l’ha giurato per la vita. La donna ha interrotto la narrazione delle azioni di lui in terza persona e del proprio, roseo, punto di vista, e cerca di convincere l’uditorio con una scena mimata, un discorso diretto che spieghi ancora meglio che è tutto vero, lui ha detto proprio così: “tu per me e io per te, amica mia”. L’ha giurato, lo ricorda come se fosse qui in questo momento a ripeterlo, ci prega di crederci.
E noi le crediamo, perché lo vogliamo per lei e perché lo vogliamo per noi.
Non poteva che diventare l’inno della fine della guerra, l’invito all’ottimismo della Ricostruzione. La cantante rende il pubblico talmente partecipe della sua felicità da costringerlo a trepidare per lei come per sé. Se lei non si sbaglia, nemmeno gli ascoltatori si sbaglieranno nelle proprie rispettive esistenze. Il pubblico spera che la speranza di questa piccola donna vestita di nero sia fondata. La vie en rose unisce i cuori sotto un’unica, medesima aspettativa, per questo è un inno.
Nel 1946 unisce la Francia e si prepara a spopolare negli Stati Uniti, dove sarà cantata da Louis Armstrong, nel 1950, tradotta in inglese, mantenendo l’espressione francese del titolo anche nel ritornello anglofono e ripetendone l’enorme successo. Édith Piaf e Louis Armstrong, due figure artistiche e umane di levatura paragonabile.
La vie en rose è ormai un modo di dire, un proverbio, una poesia popolare, non è solo una canzone, non solo una donna e la sua visione del mondo tra le braccia dell’uomo che ama: è un prodigio esploso nel momento giusto, il ritorno alla vita in un mondo squassato dalla più orribile delle guerre. È il simbolo dell’arte che vince sulla crudeltà, della speranza che vince sulla morte. E tutto grazie a una concreta illusione d’amore.
Più tardi, nel nuovo millennio, il rosa diventerà simbolo di una bambola incarnata in un film di successo.