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VIAGGIO A BREMA – La musica come arma

VIAGGIO A BREMA – La musica come arma

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Non è certo Il Pellegrinaggio in Oriente di Herman Hesse, uscito nel 1932, il primo esempio di apparente inconcludenza che un’esperienza di viaggio suscita in una narrazione. I protagonisti, che dopo aver percorso parte dell’Europa e del Medio Evo si incagliano in un contrattempo che li blocca a Bormio Inferiore, stimolano una visione mistico metaforica della natura iniziatica del viaggio. L’insegnamento viene dal progredire attraverso lo spazio e il tempo, non dal raggiungere una meta fittizia la cui prospettiva è utile più che altro a dare avvio all’avventura. Si fermeranno e si disperderanno a Bormio Inferiore ben prima di scoprire che quell’intoppo, la sparizione di un servitore insieme ad alcuni loro oggetti personali, era la vera prova da superare per raggiungere l’obiettivo spirituale. L’Oriente, come culla filosofica ma anche come semplice punto sorgente della luce del mattino, si trova ovunque la misera personalità del neofita abbia l’opportunità di temprarsi. Qualunque prova del pellegrinaggio ne è la meta nella misura in cui forgia lo spirito del viaggiatore. Come si diceva, non è certo questo gioiellino di mise en abyme e metaletteratura mistica il primo esemplare di incompiutezza nella narrazione di un viaggio. Basti pensare a Giovinezza, racconto autobiografico pubblicato da Joseph Conrad nel 1898, in cui il carico nella stiva di una nave che il secondo ufficiale deve contribuire a far giungere a Bangkok non arriverà mai, ma importa poco, perché le promesse che l’età ha in serbo per il giovanotto superano di gran lunga le vicissitudini e la mancata realizzazione della missione. Ancora una volta, la meta non è geografica ma esistenziale e lo scopo è connaturato alla stagione della vita che si sta attraversando. Il protagonista del Pellegrinaggio è ormai ben adulto e alla ricerca di una elevazione religiosa, quello di Giovinezza è talmente immerso nei suoi vent’anni da accogliere la meraviglia sotto qualunque forma gli si presenti, sia pure come traversia. Il viaggio è iniziazione in entrambi i casi, a dispetto dell’approdo in un luogo designato.
Grande anticipazione in tal senso si trova nella gustosa fiaba I musicanti di Brema, pubblicata dai fratelli Grimm nel 1819 ma risalente, come denuncia la scelta della città nel titolo, al periodo anseatico in cui essa si fregiava di diritti speciali di libertà. La Lega anseatica è un’alleanza tra alcune città che dal tardo Medioevo fino all’inizio dell’Era moderna hanno mantenuto il monopolio dei commerci su gran parte dell’Europa settentrionale e del Mar Baltico, favorendo l’emigrazione all’estero lungo il Weser via Brema. La sua fondazione viene fatta risalire al XII secolo, epoca a partire dalla quale Brema assume musicisti per la municipalità fino alla fine del XVIII secolo. Nella fiaba è naturale che diventi l’immagine di un luogo di nostalgia per gli animali che sono fuggiti dal loro paese per evitare di finire male, ciascuno a suo modo. Molte sono le chiavi di interpretazione di una storia così essenziale e stralunata. Un asino, un cane, un gatto e un gallo si incontrano sulla via di fuga dalle rispettive inospitali fattorie di provenienza e, dopo essersi narrati minacce e peripezie che li hanno spinti fino a lì, decidono di proseguire insieme per trovare lavoro a Brema come musicisti.
Qual è il loro strumento musicale? Il verso. Il ragliare dell’asino, il miagolio e pure il soffio del gatto, l’abbaiare e il guaire del cane, nonché la celebre onomatopea del gallo, unico ad aver diritto nel suo verso all’appellativo nobile di “canto”. Il primo piano metaforico è quello dell’orchestra, una realtà in cui le differenze si intrecciano per miracolo risultando in un’armonia che, proverbialmente, non sarebbe poi naturale tra bestie non affini come il cane e il gatto. I musicisti devono farsi andar bene lo scopo comune, la band è un crogiuolo che trasforma in accordo, grazie alle comuni disgrazie, ciascuna nota stridente tra i caratteri dei suonatori. Il livello simbolico si innalza così alla diversità delle specie, delle etnie eterogenee costrette a giungere a miti consigli e fare “lega” per l’obiettivo comune di sopravvivere.
La canzone che ne ha tratto Vinicio Capossela nel 2019 si ferma al di sotto di questo livello limitandosi a interpretare in dettaglio le ragioni che hanno spinto i poveri animali a scappare dalle loro case e il miraggio che Brema li accolga nell’orchestra cittadina. La speranza di salvarsi insieme è sorretta da un’Utopia che la canzone giustamente non si cura di mostrare raggiunta mentre la fiaba, pur non narrandone a sua volta la realizzazione, affina la tavolozza delle corrispondenze a un livello superiore con morali della favola avvitate a spirale e potenziate. E qui il prodigio del canto, del verso, del fraintendimento diventa il vero tema in un mondo che si affida alla comunicazione tra umani.
Durante il viaggio i quattro migranti si trovano a passare per un bosco di notte e, affamati, decidono di trovare rifugio in una casa abitata da briganti che stanno apprestandosi a mangiare ogni ben di Dio. I quattro animali allora si pongono l’uno sopra l’altro e tengono il loro primo concerto, denunciando la consapevolezza di quanto la loro arte sappia essere molesta. Il fracasso è tale da far scappare a gambe levate i ribaldi, convinti che il frastuono sia conseguenza di un maleficio di fantasmi. Non c’è niente di più spaventoso di ciò che non si capisce: questa potrebbe essere una morale del racconto, giacché i bruti temono l’ultraterreno e sono portati a credere alla sua esistenza. Una seconda morale, che la musica può essere celestiale ma anche infernale a seconda della volontà dei suonatori, e qui è evidente che l’intento del gruppo era di spaventare, non senza svelare la loro malafede di aspiranti strumentisti. Il loro progetto di suonare per la municipalità di Brema, per quanto città illuminata dagli accordi anseatici, non avrebbe forse avuto buon fine. Ne sono coscienti, non per niente usano la loro musica come arma.
Ma l’intrico dei segni malintesi non si ferma a questo punto del racconto. Nella notte uno dei briganti, forse il più furbo o il più affamato, torna alla casa per sincerarsi di poter riprenderne possesso. I presunti musicanti stanno dormendo, la casa è immersa nel buio e ciò favorisce l’ispessimento semiotico della fiaba: entrando al buio il poveretto va in cucina per trovare una candela e vede brillare nell’oscurità gli occhi del gatto. Li prende per carboni ardenti e avvicinando lo stoppino stimola la reazione violenta del felino che gli salta in faccia e lo graffia. Qualche passo indietro e il cane gli addenta una gamba. Uscendo una zoccolata d’asino lo prende in pieno mentre il gallo dal tetto emette uno dei suoi versi più lugubri e acuti. Di nuovo in fuga ma stavolta per minacce ben più concrete della cacofonia di un concerto animalesco, il malcapitato torna dai compari e fa il suo resoconto dell’accaduto. Leggiamolo nella preziosa traduzione di Antonio Gramsci:
“Il brigante corse come meglio poté dal suo capo e disse: «Ahimè, nella casa si è stabilita una orrenda strega, che mi ha soffiato in faccia e con le sue lunghe dita mi ha graffiato; dinanzi alla porta stava un uomo con un coltello che mi ha pugnalato la gamba e nel cortile era sdraiato un mostro nero che mi ha bastonato con una mazza, e sopra il tetto c’era il giudice che gridava: – Consegnatemi quel briccone! – Sono riuscito a stento a scappare».
Il travisamento è degno delle migliori interpretazioni psicoanalitiche in merito alle personali fobie. Ciò che non si vede lo si immagina, si riveste qualcosa di ignoto con ciò che è noto anche se del tutto infondato, il buio favorisce fantasie sperticate, l’oscurità della ragione offre sempre spiegazioni la cui plausibilità risiede nei fantasmi della mente di chi ignora. Alla ridda di morali assommate nello squisito finale si aggiunge l’equivoco del verso del gallo scambiato per un discorso compiuto: “Consegnatemi quel briccone!” Quanta paura ci vuole per trasformare l’ululato di un capo-pollaio nelle parole di un magistrato? E quanto il giudice temuto assomiglia in verità a un galletto allarmato?
Il trucco narrativo che dovrebbe insegnare ai bambini a non fidarsi delle apparenze chiude la storia: i velleitari musicisti in cambio di una casa tutta loro, il sogno del migrante, rimangono nel frutto del loro esproprio proletario e rinunciano a raggiungere Brema. Rubare una casa a dei briganti non è reato. Le illusioni artistiche scemano non appena il loro obiettivo utilitaristico viene a decadere. In fondo non erano musicisti nell’anima, volevano solo sbarcare il lunario e avere salva la vita. Ora che la sopravvivenza è assicurata, chissenefrega della musica e della municipalità.
Accade questo con i viaggi della speranza, hanno una destinazione cangiante, autoriducibile a seconda delle circostanze. E tutti i viaggi, sotto sotto, lo sono.

Tutto il folle amore di Pier Paolo Pasolini – Da Velásquez a Modugno

TUTTO IL FOLLE AMORE DI PIER PAOLO PASOLINI
Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Che cosa sono le nuvole?, il titolo dell’episodio firmato Pier Paolo Pasolini nel film collettivo Capriccio all’italiana, in cui il poeta compare come regista insieme a Monicelli, Steno, Bolognini, Pino Zac e Franco Rossi, si staglia all’inizio su una fascetta da annuncio cinematografico posta su un manifesto che riproduce Las meninas di Diego Velásquez. Perché scegliere a emblema del cortometraggio il quadro del 1656, chiamato in italiano Le damigelle d’onore? Forse perché il dipinto al Museo del Prado di Madrid instaura un gioco di specchi che confonde lo spettatore, posto in una stanza in cui davanti all’immagine si trova a sua volta uno specchio. L’autoritratto del pittore lo mostra mentre dipinge l’Infanta e le damigelle fissando un grande specchio dove in verità si trova l’osservatore, lastra d’argento che ritrae uno specchio più piccolo sullo sfondo dove i regnanti ammirano non visti la scena. O sono esattamente loro l’oggetto del ritratto? In tal caso non avrebbe senso la posa in cui le bambine sembrano immortalate in uno dei quadri prospetticamente più ingannevoli della storia dell’arte. Giù in fondo, un uomo segue la scena da una porta spalancata che getta la luce del giorno sull’intera opulenta visione di un ritratto che si ritrae da sé. Pier Paolo Pasolini ha scelto questa festa di mise en abyme per rappresentare la sua storia, somma circonvoluzione di una profondissima eco figurativa, un effetto all’infinito di teatro nel teatro, nella fattispecie di marionette, in cui la recita narra la contraddittoria avventura del vivere, dal suo inizio all’attimo estremo attraverso un copione scespiriano omogeneizzato per il popolo.
Il testo della canzone che accompagna e contrappunta il breve film è scritto da Pier Paolo Pasolini e musicato e cantato da Domenico Modugno, che interpreta un “mondezzaro” in diretto rapporto tra il teatro dei pupi e una discarica a cielo aperto, becchino di basso rango, Caronte munito di camioncino raccogli rifiuti. La pellicola, girata nella primavera del 1967 e diffusa al cinema nel 1968, con Ninetto Davoli, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Laura Betti, Adriana Asti e Carlo Pisacane, l’indimenticato Capannelle de I soliti ignoti, è l’ultima interpretata da Totò, che morirà prima della sua uscita. Tutte maschere attoriali che impersonano altrettante marionette nella sarabanda metaforica dell’esistenza, in cui si viene al mondo e si muore agendo a dispetto della propria volontà, mossi da fili invisibili che obbligano a scelte indesiderate. La rappresentazione della vita e delle sue tragedie comprende e si focalizza in piccolo nell’Otello di William Shakespeare, una riproposizione popolare che include l’epilogo tipico della sceneggiata napoletana in cui il pubblico di bassissimo ceto interagisce linciando i cattivi, Iago e Otello, e portando in trionfo il buon Cassio.
Il dentro e fuori dalla “tragedia umana” è esemplificato nei dialoghi dietro le quinte, quando i personaggi non agiti dal burattinaio liberamente filosofano sulla verità, sulla vita, sull’amore, sulla cattiveria, senza che tale consapevolezza intervenga poi sulla scena a influenzare il modello prefissato del loro agire. Shakespeare è citato da Totò/Iago, «Siamo un sogno dentro a un sogno», per spiegare a Ninetto Davoli/Otello l’insensatezza delle loro azioni sulla ribalta. L’effimera libertà permette loro una comprensione che priva Totò della malvagità e permette a Ninetto Davoli interrogativi fuori copione. E perfino il burattinaio, vice-demiurgo vestito da commesso, insinua spiegazioni rozzamente psicoanalitiche, «Forse perché Otello vuole uccidere Desdemona… forse perché Desdemona vuole essere ammazzata», insistendo però sul “forse”. Pur tirando i fili, nemmeno lui ha una cognizione autentica del mistero dell’esistere.
Quando si torna in scena, il testo va seguito inesorabile e Laura Betti/Desdemona deve morire anche se innocente, uccisa da un Otello riluttante eppure condannato alle reazioni passionali che dietro le quinte non riconosce valide. L’abisso allestito da Pasolini è senza fondo. A muovere le marionette potrebbero essere gli dei – come dice Jean Cocteau «Gli dei esistono, sono il diavolo» – o il diavolo stesso nella sua emanazione deleteria chiamata passioni umane, gelosia, invidia, omicidio o, segnatamente, femminicidio.
Oltre alla grandezza poetica dell’operazione in sé, oltre alla significazione vertiginosa di vedere maschere pubbliche come Franco, Ciccio, Capannelle e Totò interpretare maschere scespiriane in forma di marionetta, oltre a una scelta di colori e costumi di rara bellezza filmica – Totò/Iago è letteralmente verde di invidia – oltre a una vicinanza estrema al pensiero del regista e dei suoi personaggi attraverso l’escamotage del dentro e fuori scena, con l’osceno che appare saggio e il rappresentato che risulta assurdo, il miracolo di questo capolavoro allarga la vorticosa voragine in una esterrefatta riflessione sull’esistenza, semplificata come un dialogo platonico riscritto per gente di periferia. Se Pier Paolo Pasolini voleva essere vicino agli ultimi e condividere con loro la genuinità della sua immensa cultura, niente avrebbe potuto ottenere un risultato migliore, apparentabile forse, pur nella minore umiltà, all’episodio La ricotta censurato dal film Ro.Go.Pa.G. del 1963.
Nell’operazione di avvicinamento ecumenico ai più sprovveduti spettatori del mondo s’inserisce l’elemento canzone, forma d’arte minore, modesta per sua natura, interpretata da Mister Volare, eclatante maschera dell’universo canoro internazionale non estranea al mondo dei pupi siciliani in quanto glorioso interprete del Rinaldo in campo di Garinei e Giovannini nel 1961. Dal casting alla canzone-collante dell’episodio, nulla è stato lasciato al caso. Il brano musicato da Modugno con il suo magnifico afflato dona al folle amore perduto uno struggimento lirico irresistibile.

Cosa sono le nuvole?

Che io possa esser dannato
se non ti amo
e se così non fosse
non capirei più niente.
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.

Ah, ma l’erba soavemente delicata
di un profumo che dà gli spasimi!
Ah, ah, tu non fossi mai nata!
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.

Il derubato che sorride
ruba qualcosa al ladro
ma il derubato che piange
ruba qualcosa a se stesso.
Perciò io vi dico
finché sorriderò
tu non sarai perduta.

Ma queste son parole
e non ho mai sentito
che un cuore, un cuore affranto
si cura con l’udito.
E tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.

Il protagonista della canzone soffre per amore ma rammenta che, se il derubato deve ridere del furto subìto per sentirsi meno derubato, l’innamorato abbandonato sorridendo del proprio destino avvertirà meno la perdita dell’amata. Una semplice strategia sconfessata dallo stesso poeta nel riconoscere al canto elegiaco scarsa efficacia: «Non ho mai sentito che un cuore, un cuore affranto si cura con l’udito».
Però che cosa sono le nuvole? Come quelle dei fumetti, sono i veicoli dei versi e del folle amore soffiato via dal cielo, presente nelle mille sue forme cangianti, nella straordinarietà di contenitori di lacrime celesti riavvolte in affascinanti pareidolie. L’esclamazione messa in bocca alla marionetta Totò nel finale, quando i due cadaveri non morti trasfigurano il terrore del trapasso nell’esperienza estetica ammirando le nuvole, «Ah straziante meravigliosa bellezza del creato», è la diretta asserzione del regista intento a sopire la tragedia esistenziale con una attenuazione tutta greca dell’orrore trascolorato nella bellezza. Il poeta, anche se sa che le parole non curano, non esita a usarle per attutire il brivido tra vita e morte. Lo stesso fa nella canzone lasciandosi andare all’estasi dell’erba «soavemente delicata di un profumo che dà gli spasimi».
Come Piero Ciampi ne Il vino, tre anni più tardi, caduto ubriaco in un fosso canta «e in mezzo all’acqua sporca mi godo queste stelle», o come la favoletta zen narra del disperato che tra il dirupo e le minacciose tigri sopra e sotto, abbarbicato a una vite rosicchiata dai topi riesce ad assaporare la squisitezza di una fragola sul ciglio del burrone, così le marionette morte eppure vive, abbandonate dal “mondezzaro” innamorato a fissare la meraviglia da una discarica affacciata sul cielo, apprezzano il prodigio incommensurabile delle nuvole, foriere di nuance, imprendibili creatrici di immagini fantasiose celebrate poi nel 1990 da una anziana voce femminile ne Le nuvole di Fabrizio De André. L’addomesticamento artistico dell’orrore teorizzato da Friedrich Nietzsche è offerto al pubblico nella sua prospettiva più ordinaria. Nel travaglio costante tra alto e basso, tra cielo e discarica, tra passioni umane e stupefazione estetica, sta la sintesi sublime di un grande drammaturgo classico moderno di nome Pier Paolo Pasolini.

Un poeta può nasconderne un altro: Serge Gainsbourg

UN POETA PUÒ NASCONDERNE UN ALTRO: SERGE GAINSBOURG
Introduzione al libro di Marco Ongaro Un poeta può nasconderne un altro – Il senso per la parola di Serge Gainsbourg (Caissa Italia Editore)

Viaggiando in auto in Francia, ai passaggi a livello capita di leggere l’avvertenza: «Un train peut en cacher un autre», che significa «Un treno può nasconderne un altro». È un cartello posto all’attenzione di chi si trova a trepidare sull’orlo dei binari affinché sappia che un treno ben visibile potrebbe non essere l’unico pericolo in caso di attraversamento. L’impazienza potrebbe condurre sotto le ruote di un convoglio celato alla vista da un suo simile. È un avviso che non figura in corrispondenza delle croci di Sant’Andrea in altre nazioni, una premura cautelativa che le ferrovie francesi, SNCF, hanno ritenuto di apporre in conseguenza di alcuni incidenti o forse allo scopo di evitarli.
Il gusto cronico di Serge Gainsbourg per il calembour, la sua sensibilità  per le parole,  per le frasi fatte da ribaltare, la sua passionalità legata alle vibrazioni alfabetiche non l’hanno lasciato indifferente di fronte a un’occasione così ghiotta. Un parere bell’e pronto per essere vampirizzato e modificato come strumento di lancio di un altro concetto, meno concreto e proprio per questo molto più esteso. «Un amour peut en cacher un autre», «Un amore può nasconderne un altro», amplia l’orizzonte dalle rotaie francesi alla sfera sentimentale di chiunque a qualsiasi latitudine. La parola amore, trattandosi ora di poesia e non più di un cartello segnaletico, esplode in miriadi di altri significati, dal desiderio alla passione, dal sentimento alla persona che ne è oggetto, dal soggetto di un’avventura alla tensione di chi vi riversa le proprie aspettative, dall’egoismo del piacere alla diffusione di un altruismo totalitario. Un amore salta di qua e di là dalla carreggiata del senso zigzagando tra le accezioni e le sfumature più o meno evocative. Anche un treno, fosse stato messo in fila dal poeta Gainsbourg assumerebbe infinite sfumature di significato, figurarsi un amore. Un amore può nasconderne un altro: attenzione. Nella forma sintattica dell’avvertenza si cela già una confessione. Chi è sotto i suoi occhi non sa più che cosa ami di lei o se sia proprio lei l’amata. Non sa se non siano piuttosto la madre, la sorella gemella, la prima moglie, una nipote di Tolstoj, una delusione adolescenziale, un’immagine femminile su un poster, una bambina o chissà chi altro a richiamare un bisogno di sostituzione duro da ammettere. Dietro a una sostituzione rimossa balena la scintilla di una frustrazione.
Il poeta Gainsbourg, già pittore, cantautore e autore di successi dell’estate, attore, romanziere, regista cinematografico e pubblicitario, provocatore dandy e icona dell’autodistruzione dichiara «Le parole veicolanti le idee, e non le idee veicolanti le parole. Primordiale. Niente parole niente idee». E ancora: «Non ho delle idee, ho delle associazioni di parole, come i surrealisti: carenza di idee. Questo nasconde un vuoto assoluto, sono sottovuoto». Il calembour è sempre in agguato, come quando afferma: «Fino alla decomposizione, io comporrò». Se un treno può nasconderne un altro e un amore può nasconderne un altro, si può essere più basilari e azzardare che una parola possa nasconderne un’altra: l’anima del gioco di parole sta tutta lì.
Come pure una vita può nasconderne un’altra.


La propria non corrisponde ai desideri, mai del tutto, anche la più fortunata. L’uomo è un assemblaggio di insoddisfazioni tenute insieme dall’alternanza di successi e sconfitte. Chi ha tutto ciò che vuole sull’ottovolante della quotidianità dovrebbe esserne sazio invece di frantumarsi il cuore con fumo e alcol anticipando l’oblio della morte a ogni sbornia. A meno che non sia un poeta, quella particolare creatura che vive a metà tra l’aldilà e ciò che è definito reale, l’individuo sacro suo malgrado che porta il fardello consapevole della tragedia umana. Per quanto nichilista, aqualescopista, epicureo scopatore e consumatore accanito di bellezza, il poeta è scorticato vivo, come dicono i francesi, senza pelle, una sigaretta che brucia ai due lati, l’incaricato della sopportazione universale da parte di un Dio cui neanche crede. Non può essere felice neanche quando lo è. Jean Cocteau lo definisce «Un essere indispensabile, non si sa a cosa». Ma può sembrare qualcos’altro da sé, può mostrarsi aedo di altri mondi a un mondo che lo capirà, forse, solo dopo la sua morte. L’esistenza sotto i riflettori sembra invidiabile e lo è, ma può nascondere un’altra esistenza: il peggiore sguardo diretto sulla metafisica. Non c’è abbastanza ingegno in giro per comprendere ciò che sta facendo, eppure continua a farlo. Instancabile, sempre in bilico tra i due regni. È scampato all’aborto, alla deportazione e alla Shoah, non solo la vita ma la sua stessa morte può nasconderne molte altre.
Chi è il poeta in questione e di quale poesia va cianciando? È il giustiziere venuto a rimettere in ordine le tristezze degli anni Quaranta portandole attraverso lo swing cinico dei Cinquanta fino all’esplosione shock dei Sessanta festanti sulle aiuole delle fanciulle in fiore? L’eroe dei Settanta psichedelici e degli Ottanta per legionari gay rockeggianti intorno al bunker nazi di una discoteca rasta? Questo poeta si nasconde dietro un altro poeta che prima di tutto è un artista. Il pittore ha scelto «un’arte minore che piace ai minori», quella della canzonetta estiva, dopo aver duettato a distanza con la canzone maiuscola e irridente di Boris Vian, con l’esistenzialismo scabro di Juliette Gréco, e si appresta a épater les bourgeois come a loro piace con il vezzo delicato di scarti di vocale e sciarade che apparentemente non significano granché. Tutto è superficiale se lo si guarda in superficie.
Il poeta stupisce sì, ma con innocenza. A volte giocando con le parole sporche come i bambini. Mostra l’intelligenza come un bene casuale, con timidezza sufficiente a mascherare il dispetto per un aspetto fisico indesiderato che dovrà pur diventare un punto di forza. Come il Riccardo III shakespeariano si sfida a conquistare la mano della bellissima Anna che sta seppellendo il marito da lui ucciso, così il poeta Gainsbourg riveste di attrazione la propria “deformità” e si circonda delle donne più avvenenti insinuando nel gusto generale il relativismo di un’estetica in continua discussione. Ora l’inverno del suo scontento è mutato in estate gloriosa grazie al sole di Brigitte Bardot. La Bestia attira la Bella e la espone come trofeo, massimo atto poetico che scardina la stolida solidità del pensiero in esilio nel luogo comune. È bello ciò che piace, la bellezza contamina il suo opposto rivelando il Principe nascosto nel rospo. La favola bella li vedrebbe vivere felici e contenti, ma il poeta è un harakiri ambulante e si decompone componendo, corre su un Orient Express che nasconde una Transiberiana e ciò che lascia è la sua unica meta: la poesia.

La poesia, dal greco ποίησις, poiesis, con il significato di “creazione”, non è la semplice messa in fila di parole su una riga che va a capo prima della fine, non è neanche il puro accostamento di termini in una comunicazione fallita che richiede una decodifica, e non è l’accostamento di note musicali a testi di alta o bassa pretesa. La poesia nel suo senso etimologico, nella lingua in cui Aristotele la menzionava, è creazione. Tutto vi si presta: parole, musica, colori, forme, azioni, imitazioni di azioni, narrazione, dialoghi, vittorie, disastri, gourmet e scatologia, in breve: la vita. La poesia è la creazione della vita, un’opera d’arte spesso riassunta in un insufficiente epitaffio.
L’opera può essere la vita e la vita può essere l’opera. Serge Gainsbourg ha voluto abitare più di un anno nell’albergo parigino in cui Oscar Wilde è morto, identificandosi platealmente con lo scrittore irlandese e il suo paradosso tra genio e talento, vita e arte. Le due si compenetrano e sostituiscono, mescolate si rivelano. Distinte, l’una mostra l’altra. Un poeta che lascia al mondo la sua poesia lascia in eredità la sua vita.
Che può nasconderne un’altra.