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Ascoltare Dylan in Iran – Ironia dell’ipocrisia

ASCOLTARE DYLAN IN IRAN – Ironia dell’ipocrisia
Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Bob Dylan pubblica With God on Our Side nel 1964. Una canzone tristemente ironica in cui la visione umana di Dio, tirato dalla propria parte dai vari clan che intendono giustificare la propria condotta in fatto di guerra, soprusi e atrocità, si presta a ogni insana manipolazione storica. Così lo sterminio dei nativi, la guerra ispano-americana, la guerra civile statunitense, le due Guerre mondiali, la Guerra fredda, la Shoah, e perfino il tradimento di Gesù da parte di Giuda vengono di volta in volta etichettati come cause protette se non promosse dalla volontà divina.

Oh il mio nome non è niente
La mia età conta meno ancora
Il paese da cui provengo
Si chiama Midwest
Mi hanno cresciuto lì e insegnato
Le leggi da rispettare
E quella terra in cui vivo
Ha Dio dalla sua parte

Oh, lo raccontano i libri di storia
Lo raccontano così bene
Le cavallerie caricarono
Gli indiani caddero
Le cavallerie caricarono
Gli indiani morirono
Oh, il paese era giovane
Con Dio dalla sua parte

Lo guerra ispano-americana
Ha fatto il suo tempo
E anche la guerra civile
Fu presto messa da parte
E mi son stati fatti memorizzare
I nomi degli eroi
Con le pistole in mano
E Dio dalla loro parte

La prima guerra mondiale, ragazzi
È venuta ed è andata
La ragione per combattere
Non me l’hanno mai data
Ma ho imparato ad accettarla
Accettarla con orgoglio
Perché tu non conti i morti
Quando Dio è dalla tua parte

La seconda guerra mondiale
Arrivò ad una conclusione
Perdonammo i Tedeschi
E poi fummo amici
Anche se ne hanno uccisi sei milioni
Li hanno fritti nei forni
Adesso anche i Tedeschi
Hanno Dio dalla loro parte

Ho imparato a odiare i Russi
Per tutta la mia vita
Se arriva un’altra guerra
È contro di loro che dobbiamo combattere
Per odiarli e temerli
Per scappare e nascondermi
E accettare tutto questo con coraggio
Con Dio dalla mia parte

Ma ora abbiamo le armi
Di polvere chimica
Se siamo costretti a bruciarli
Allora dovremo bruciarli
Una pressione sul pulsante
E uno sparo in tutto il mondo
E non fare mai domande
Quando Dio è dalla tua parte

Attraverso molte ore buie
Ci ho pensato
Che Gesù Cristo fu
Tradito da un bacio
Ma non posso pensare per te
Dovrai decidere tu
Se Giuda Iscariota
Aveva Dio dalla sua parte

Quindi ora mentre me ne vado
Sono stanco da morire
La confusione che sto provando
Nessuna lingua può dirla
Le parole mi riempiono la testa
E cadono sul pavimento
Che se Dio è dalla nostra parte
Fermerà la prossima guerra
A parte l’ultima strofa, la canzone trasuda ironia, figura retorica che consiste nel dichiarare l’opposto di ciò che si pensa, uno strumento straordinario contro l’ipocrisia, che consiste nel fare il contrario di ciò che si dichiara, a patto che si sia in grado di rendersi conto che di ironia si tratta. Le metafore, quando sono elevate e non si limitano a una frase ma a un intero corpus simbolico, vanno colte con l’intelligenza o finiscono per essere interpretate letteralmente mettendo in scena nonsense, quando non addirittura significati antitetici a quanto desiderato nel formularle.
Così può accadere che il video girato dai boia iraniani prima dell’esecuzione del ventitreenne Majidreza Rahnavard, giovane impiccato per aver partecipato alle proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, colpevole di non aver indossato il velo in modo corretto il 13 settembre 2022 in un luogo pubblico a Teheran, venga divulgato dai suoi giustizieri per avvalorare la sua condanna a morte senza processo. Le sue ultime volontà: «Non piangete sulla mia tomba, non leggete il Corano, non pregate. Siate gioiosi. Suonate musica allegra» diventano la prova di empietà utile a giustificare pienamente l’esecuzione. Nella mente di carnefici dediti al fanatismo religioso istituzionalizzato le parole di Majidreza non sono l’ultimo desiderio di un martire che si ribella all’oppressione integralista, bensì un’estrema ammissione di colpa. Perché Dio è dalla loro parte, come cantava Dylan, così interamente dalla loro parte da venire sconfessato sull’orlo della morte da un giovane ribelle a cotanta arrogante convinzione. Un video che avrebbe dovuto rimanere secretato per un secolo, tanta è la potenza spirituale del ragazzo che riconosce nella vitalità della musica l’essenza divina che lo anima, è invece diffuso stolidamente a testimonianza del rigore mentale, prossimo al rigor mortis, di un regime che strangola il suo popolo tra le spire della sua inflessibile quanto pretesa interpretazione della religione.
È ancora la musica, sono ancora le canzoni, come la Zombies dei Cranberries cantata dalle giovani manifestanti russe nella primavera di proteste contro la guerra in Ucraina, a segnare il distacco tra l’elasticità del pensiero libero, avvezzo all’ironia, e la fissità di quello totalitario incapace di comprenderla. Majidreza Rahnavard rammenta al mondo che il canto è preghiera, dalle piantagioni di cotone in cui nacque il blues ai gospel ritmati nelle chiese afroamericane, il canto è espressione spirituale nella forma d’arte più astratta e forse per questo più prossima al divino.
Shervin Hajipour ha vinto i Grammy Awards 2023 nella nuovissima categoria “Miglior canzone per il cambiamento sociale” con il brano Baraye, diventato un inno delle proteste in Iran dopo l’uccisione di Mahsa Amini ad opera della polizia morale. Baraye è una parola persiana che significa “per”.

Per

Per ballare nei vicoli
Per il terrore quando ci si bacia
Per mia sorella, tua sorella, le nostre sorelle
Per cambiare le menti arrugginite
Per la vergogna della povertà
Per il rimpianto di vivere una vita ordinaria
Per i bambini che si tuffano nei cassonetti e i loro desideri
Per questa economia dittatoriale
Per l’aria inquinata
Per Valiasr e i suoi alberi consumati
Per Pirooz e la possibilità della sua estinzione
Per gli innocenti cani illegali
Per le lacrime inarrestabili
Per la scena di ripetere questo momento
Per i volti sorridenti
Per gli studenti e il loro futuro
Per questo paradiso forzato
Per gli studenti d’élite imprigionati
Per i ragazzi afghani
Per tutti questi “per” che non sono ripetibili
Per tutti questi slogan senza senso
Per il crollo di edifici finti
Per la sensazione di pace
Per il sole dopo queste lunghe notti
Per le pillole contro l’ansia e l’insonnia
Per gli uomini, la patria, la prosperità
Per la ragazza che avrebbe voluto essere un ragazzo
Per le donne, la vita, la libertà
Per la libertà
Per la libertà
Per la libertà
 

Hajipour l’ha pubblicata per la prima volta su Instagram nel settembre 2022. In soli due giorni Baraye ha raccolto 40 milioni di visualizzazioni e ha dato grande notorietà all’autore attirando l’attenzione del governo iraniano che lo ha fatto arrestare e poi rilasciare su cauzione. Nel frattempo è stata cantata dai Coldplay in concerto a Buenos Aires e intonata negli stadi dei mondiali in Qatar come inno contro il giogo iraniano grazie al suo testo esplicitamente libertario, di scarsa ironia ma di urgenza esemplare.
La canzone di Shervin Hajipour potrà essere riproposta in ogni epoca e in ogni luogo senza grande fraintendimento. Non si può dire lo stesso di Dio dalla nostra parte, che per essere compresa necessita di un livello lievemente superiore alla semplice, per quanto poetica, emotività. La canzone di Bob Dylan, fosse cantata oggi in Iran, potrebbe essere presa alla lettera e usata come inno degli Ayatollah, tanto sono convinti, come altri prima di loro, che Dio sia dalla loro parte.

VIAGGIO A BREMA – La musica come arma

VIAGGIO A BREMA – La musica come arma

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Non è certo Il Pellegrinaggio in Oriente di Herman Hesse, uscito nel 1932, il primo esempio di apparente inconcludenza che un’esperienza di viaggio suscita in una narrazione. I protagonisti, che dopo aver percorso parte dell’Europa e del Medio Evo si incagliano in un contrattempo che li blocca a Bormio Inferiore, stimolano una visione mistico metaforica della natura iniziatica del viaggio. L’insegnamento viene dal progredire attraverso lo spazio e il tempo, non dal raggiungere una meta fittizia la cui prospettiva è utile più che altro a dare avvio all’avventura. Si fermeranno e si disperderanno a Bormio Inferiore ben prima di scoprire che quell’intoppo, la sparizione di un servitore insieme ad alcuni loro oggetti personali, era la vera prova da superare per raggiungere l’obiettivo spirituale. L’Oriente, come culla filosofica ma anche come semplice punto sorgente della luce del mattino, si trova ovunque la misera personalità del neofita abbia l’opportunità di temprarsi. Qualunque prova del pellegrinaggio ne è la meta nella misura in cui forgia lo spirito del viaggiatore. Come si diceva, non è certo questo gioiellino di mise en abyme e metaletteratura mistica il primo esemplare di incompiutezza nella narrazione di un viaggio. Basti pensare a Giovinezza, racconto autobiografico pubblicato da Joseph Conrad nel 1898, in cui il carico nella stiva di una nave che il secondo ufficiale deve contribuire a far giungere a Bangkok non arriverà mai, ma importa poco, perché le promesse che l’età ha in serbo per il giovanotto superano di gran lunga le vicissitudini e la mancata realizzazione della missione. Ancora una volta, la meta non è geografica ma esistenziale e lo scopo è connaturato alla stagione della vita che si sta attraversando. Il protagonista del Pellegrinaggio è ormai ben adulto e alla ricerca di una elevazione religiosa, quello di Giovinezza è talmente immerso nei suoi vent’anni da accogliere la meraviglia sotto qualunque forma gli si presenti, sia pure come traversia. Il viaggio è iniziazione in entrambi i casi, a dispetto dell’approdo in un luogo designato.
Grande anticipazione in tal senso si trova nella gustosa fiaba I musicanti di Brema, pubblicata dai fratelli Grimm nel 1819 ma risalente, come denuncia la scelta della città nel titolo, al periodo anseatico in cui essa si fregiava di diritti speciali di libertà. La Lega anseatica è un’alleanza tra alcune città che dal tardo Medioevo fino all’inizio dell’Era moderna hanno mantenuto il monopolio dei commerci su gran parte dell’Europa settentrionale e del Mar Baltico, favorendo l’emigrazione all’estero lungo il Weser via Brema. La sua fondazione viene fatta risalire al XII secolo, epoca a partire dalla quale Brema assume musicisti per la municipalità fino alla fine del XVIII secolo. Nella fiaba è naturale che diventi l’immagine di un luogo di nostalgia per gli animali che sono fuggiti dal loro paese per evitare di finire male, ciascuno a suo modo. Molte sono le chiavi di interpretazione di una storia così essenziale e stralunata. Un asino, un cane, un gatto e un gallo si incontrano sulla via di fuga dalle rispettive inospitali fattorie di provenienza e, dopo essersi narrati minacce e peripezie che li hanno spinti fino a lì, decidono di proseguire insieme per trovare lavoro a Brema come musicisti.
Qual è il loro strumento musicale? Il verso. Il ragliare dell’asino, il miagolio e pure il soffio del gatto, l’abbaiare e il guaire del cane, nonché la celebre onomatopea del gallo, unico ad aver diritto nel suo verso all’appellativo nobile di “canto”. Il primo piano metaforico è quello dell’orchestra, una realtà in cui le differenze si intrecciano per miracolo risultando in un’armonia che, proverbialmente, non sarebbe poi naturale tra bestie non affini come il cane e il gatto. I musicisti devono farsi andar bene lo scopo comune, la band è un crogiuolo che trasforma in accordo, grazie alle comuni disgrazie, ciascuna nota stridente tra i caratteri dei suonatori. Il livello simbolico si innalza così alla diversità delle specie, delle etnie eterogenee costrette a giungere a miti consigli e fare “lega” per l’obiettivo comune di sopravvivere.
La canzone che ne ha tratto Vinicio Capossela nel 2019 si ferma al di sotto di questo livello limitandosi a interpretare in dettaglio le ragioni che hanno spinto i poveri animali a scappare dalle loro case e il miraggio che Brema li accolga nell’orchestra cittadina. La speranza di salvarsi insieme è sorretta da un’Utopia che la canzone giustamente non si cura di mostrare raggiunta mentre la fiaba, pur non narrandone a sua volta la realizzazione, affina la tavolozza delle corrispondenze a un livello superiore con morali della favola avvitate a spirale e potenziate. E qui il prodigio del canto, del verso, del fraintendimento diventa il vero tema in un mondo che si affida alla comunicazione tra umani.
Durante il viaggio i quattro migranti si trovano a passare per un bosco di notte e, affamati, decidono di trovare rifugio in una casa abitata da briganti che stanno apprestandosi a mangiare ogni ben di Dio. I quattro animali allora si pongono l’uno sopra l’altro e tengono il loro primo concerto, denunciando la consapevolezza di quanto la loro arte sappia essere molesta. Il fracasso è tale da far scappare a gambe levate i ribaldi, convinti che il frastuono sia conseguenza di un maleficio di fantasmi. Non c’è niente di più spaventoso di ciò che non si capisce: questa potrebbe essere una morale del racconto, giacché i bruti temono l’ultraterreno e sono portati a credere alla sua esistenza. Una seconda morale, che la musica può essere celestiale ma anche infernale a seconda della volontà dei suonatori, e qui è evidente che l’intento del gruppo era di spaventare, non senza svelare la loro malafede di aspiranti strumentisti. Il loro progetto di suonare per la municipalità di Brema, per quanto città illuminata dagli accordi anseatici, non avrebbe forse avuto buon fine. Ne sono coscienti, non per niente usano la loro musica come arma.
Ma l’intrico dei segni malintesi non si ferma a questo punto del racconto. Nella notte uno dei briganti, forse il più furbo o il più affamato, torna alla casa per sincerarsi di poter riprenderne possesso. I presunti musicanti stanno dormendo, la casa è immersa nel buio e ciò favorisce l’ispessimento semiotico della fiaba: entrando al buio il poveretto va in cucina per trovare una candela e vede brillare nell’oscurità gli occhi del gatto. Li prende per carboni ardenti e avvicinando lo stoppino stimola la reazione violenta del felino che gli salta in faccia e lo graffia. Qualche passo indietro e il cane gli addenta una gamba. Uscendo una zoccolata d’asino lo prende in pieno mentre il gallo dal tetto emette uno dei suoi versi più lugubri e acuti. Di nuovo in fuga ma stavolta per minacce ben più concrete della cacofonia di un concerto animalesco, il malcapitato torna dai compari e fa il suo resoconto dell’accaduto. Leggiamolo nella preziosa traduzione di Antonio Gramsci:
“Il brigante corse come meglio poté dal suo capo e disse: «Ahimè, nella casa si è stabilita una orrenda strega, che mi ha soffiato in faccia e con le sue lunghe dita mi ha graffiato; dinanzi alla porta stava un uomo con un coltello che mi ha pugnalato la gamba e nel cortile era sdraiato un mostro nero che mi ha bastonato con una mazza, e sopra il tetto c’era il giudice che gridava: – Consegnatemi quel briccone! – Sono riuscito a stento a scappare».
Il travisamento è degno delle migliori interpretazioni psicoanalitiche in merito alle personali fobie. Ciò che non si vede lo si immagina, si riveste qualcosa di ignoto con ciò che è noto anche se del tutto infondato, il buio favorisce fantasie sperticate, l’oscurità della ragione offre sempre spiegazioni la cui plausibilità risiede nei fantasmi della mente di chi ignora. Alla ridda di morali assommate nello squisito finale si aggiunge l’equivoco del verso del gallo scambiato per un discorso compiuto: “Consegnatemi quel briccone!” Quanta paura ci vuole per trasformare l’ululato di un capo-pollaio nelle parole di un magistrato? E quanto il giudice temuto assomiglia in verità a un galletto allarmato?
Il trucco narrativo che dovrebbe insegnare ai bambini a non fidarsi delle apparenze chiude la storia: i velleitari musicisti in cambio di una casa tutta loro, il sogno del migrante, rimangono nel frutto del loro esproprio proletario e rinunciano a raggiungere Brema. Rubare una casa a dei briganti non è reato. Le illusioni artistiche scemano non appena il loro obiettivo utilitaristico viene a decadere. In fondo non erano musicisti nell’anima, volevano solo sbarcare il lunario e avere salva la vita. Ora che la sopravvivenza è assicurata, chissenefrega della musica e della municipalità.
Accade questo con i viaggi della speranza, hanno una destinazione cangiante, autoriducibile a seconda delle circostanze. E tutti i viaggi, sotto sotto, lo sono.

Tutto il folle amore di Pier Paolo Pasolini – Da Velásquez a Modugno

TUTTO IL FOLLE AMORE DI PIER PAOLO PASOLINI
Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Che cosa sono le nuvole?, il titolo dell’episodio firmato Pier Paolo Pasolini nel film collettivo Capriccio all’italiana, in cui il poeta compare come regista insieme a Monicelli, Steno, Bolognini, Pino Zac e Franco Rossi, si staglia all’inizio su una fascetta da annuncio cinematografico posta su un manifesto che riproduce Las meninas di Diego Velásquez. Perché scegliere a emblema del cortometraggio il quadro del 1656, chiamato in italiano Le damigelle d’onore? Forse perché il dipinto al Museo del Prado di Madrid instaura un gioco di specchi che confonde lo spettatore, posto in una stanza in cui davanti all’immagine si trova a sua volta uno specchio. L’autoritratto del pittore lo mostra mentre dipinge l’Infanta e le damigelle fissando un grande specchio dove in verità si trova l’osservatore, lastra d’argento che ritrae uno specchio più piccolo sullo sfondo dove i regnanti ammirano non visti la scena. O sono esattamente loro l’oggetto del ritratto? In tal caso non avrebbe senso la posa in cui le bambine sembrano immortalate in uno dei quadri prospetticamente più ingannevoli della storia dell’arte. Giù in fondo, un uomo segue la scena da una porta spalancata che getta la luce del giorno sull’intera opulenta visione di un ritratto che si ritrae da sé. Pier Paolo Pasolini ha scelto questa festa di mise en abyme per rappresentare la sua storia, somma circonvoluzione di una profondissima eco figurativa, un effetto all’infinito di teatro nel teatro, nella fattispecie di marionette, in cui la recita narra la contraddittoria avventura del vivere, dal suo inizio all’attimo estremo attraverso un copione scespiriano omogeneizzato per il popolo.
Il testo della canzone che accompagna e contrappunta il breve film è scritto da Pier Paolo Pasolini e musicato e cantato da Domenico Modugno, che interpreta un “mondezzaro” in diretto rapporto tra il teatro dei pupi e una discarica a cielo aperto, becchino di basso rango, Caronte munito di camioncino raccogli rifiuti. La pellicola, girata nella primavera del 1967 e diffusa al cinema nel 1968, con Ninetto Davoli, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Laura Betti, Adriana Asti e Carlo Pisacane, l’indimenticato Capannelle de I soliti ignoti, è l’ultima interpretata da Totò, che morirà prima della sua uscita. Tutte maschere attoriali che impersonano altrettante marionette nella sarabanda metaforica dell’esistenza, in cui si viene al mondo e si muore agendo a dispetto della propria volontà, mossi da fili invisibili che obbligano a scelte indesiderate. La rappresentazione della vita e delle sue tragedie comprende e si focalizza in piccolo nell’Otello di William Shakespeare, una riproposizione popolare che include l’epilogo tipico della sceneggiata napoletana in cui il pubblico di bassissimo ceto interagisce linciando i cattivi, Iago e Otello, e portando in trionfo il buon Cassio.
Il dentro e fuori dalla “tragedia umana” è esemplificato nei dialoghi dietro le quinte, quando i personaggi non agiti dal burattinaio liberamente filosofano sulla verità, sulla vita, sull’amore, sulla cattiveria, senza che tale consapevolezza intervenga poi sulla scena a influenzare il modello prefissato del loro agire. Shakespeare è citato da Totò/Iago, «Siamo un sogno dentro a un sogno», per spiegare a Ninetto Davoli/Otello l’insensatezza delle loro azioni sulla ribalta. L’effimera libertà permette loro una comprensione che priva Totò della malvagità e permette a Ninetto Davoli interrogativi fuori copione. E perfino il burattinaio, vice-demiurgo vestito da commesso, insinua spiegazioni rozzamente psicoanalitiche, «Forse perché Otello vuole uccidere Desdemona… forse perché Desdemona vuole essere ammazzata», insistendo però sul “forse”. Pur tirando i fili, nemmeno lui ha una cognizione autentica del mistero dell’esistere.
Quando si torna in scena, il testo va seguito inesorabile e Laura Betti/Desdemona deve morire anche se innocente, uccisa da un Otello riluttante eppure condannato alle reazioni passionali che dietro le quinte non riconosce valide. L’abisso allestito da Pasolini è senza fondo. A muovere le marionette potrebbero essere gli dei – come dice Jean Cocteau «Gli dei esistono, sono il diavolo» – o il diavolo stesso nella sua emanazione deleteria chiamata passioni umane, gelosia, invidia, omicidio o, segnatamente, femminicidio.
Oltre alla grandezza poetica dell’operazione in sé, oltre alla significazione vertiginosa di vedere maschere pubbliche come Franco, Ciccio, Capannelle e Totò interpretare maschere scespiriane in forma di marionetta, oltre a una scelta di colori e costumi di rara bellezza filmica – Totò/Iago è letteralmente verde di invidia – oltre a una vicinanza estrema al pensiero del regista e dei suoi personaggi attraverso l’escamotage del dentro e fuori scena, con l’osceno che appare saggio e il rappresentato che risulta assurdo, il miracolo di questo capolavoro allarga la vorticosa voragine in una esterrefatta riflessione sull’esistenza, semplificata come un dialogo platonico riscritto per gente di periferia. Se Pier Paolo Pasolini voleva essere vicino agli ultimi e condividere con loro la genuinità della sua immensa cultura, niente avrebbe potuto ottenere un risultato migliore, apparentabile forse, pur nella minore umiltà, all’episodio La ricotta censurato dal film Ro.Go.Pa.G. del 1963.
Nell’operazione di avvicinamento ecumenico ai più sprovveduti spettatori del mondo s’inserisce l’elemento canzone, forma d’arte minore, modesta per sua natura, interpretata da Mister Volare, eclatante maschera dell’universo canoro internazionale non estranea al mondo dei pupi siciliani in quanto glorioso interprete del Rinaldo in campo di Garinei e Giovannini nel 1961. Dal casting alla canzone-collante dell’episodio, nulla è stato lasciato al caso. Il brano musicato da Modugno con il suo magnifico afflato dona al folle amore perduto uno struggimento lirico irresistibile.

Cosa sono le nuvole?

Che io possa esser dannato
se non ti amo
e se così non fosse
non capirei più niente.
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.

Ah, ma l’erba soavemente delicata
di un profumo che dà gli spasimi!
Ah, ah, tu non fossi mai nata!
Tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.

Il derubato che sorride
ruba qualcosa al ladro
ma il derubato che piange
ruba qualcosa a se stesso.
Perciò io vi dico
finché sorriderò
tu non sarai perduta.

Ma queste son parole
e non ho mai sentito
che un cuore, un cuore affranto
si cura con l’udito.
E tutto il mio folle amore
lo soffia il cielo
lo soffia il cielo… così.

Il protagonista della canzone soffre per amore ma rammenta che, se il derubato deve ridere del furto subìto per sentirsi meno derubato, l’innamorato abbandonato sorridendo del proprio destino avvertirà meno la perdita dell’amata. Una semplice strategia sconfessata dallo stesso poeta nel riconoscere al canto elegiaco scarsa efficacia: «Non ho mai sentito che un cuore, un cuore affranto si cura con l’udito».
Però che cosa sono le nuvole? Come quelle dei fumetti, sono i veicoli dei versi e del folle amore soffiato via dal cielo, presente nelle mille sue forme cangianti, nella straordinarietà di contenitori di lacrime celesti riavvolte in affascinanti pareidolie. L’esclamazione messa in bocca alla marionetta Totò nel finale, quando i due cadaveri non morti trasfigurano il terrore del trapasso nell’esperienza estetica ammirando le nuvole, «Ah straziante meravigliosa bellezza del creato», è la diretta asserzione del regista intento a sopire la tragedia esistenziale con una attenuazione tutta greca dell’orrore trascolorato nella bellezza. Il poeta, anche se sa che le parole non curano, non esita a usarle per attutire il brivido tra vita e morte. Lo stesso fa nella canzone lasciandosi andare all’estasi dell’erba «soavemente delicata di un profumo che dà gli spasimi».
Come Piero Ciampi ne Il vino, tre anni più tardi, caduto ubriaco in un fosso canta «e in mezzo all’acqua sporca mi godo queste stelle», o come la favoletta zen narra del disperato che tra il dirupo e le minacciose tigri sopra e sotto, abbarbicato a una vite rosicchiata dai topi riesce ad assaporare la squisitezza di una fragola sul ciglio del burrone, così le marionette morte eppure vive, abbandonate dal “mondezzaro” innamorato a fissare la meraviglia da una discarica affacciata sul cielo, apprezzano il prodigio incommensurabile delle nuvole, foriere di nuance, imprendibili creatrici di immagini fantasiose celebrate poi nel 1990 da una anziana voce femminile ne Le nuvole di Fabrizio De André. L’addomesticamento artistico dell’orrore teorizzato da Friedrich Nietzsche è offerto al pubblico nella sua prospettiva più ordinaria. Nel travaglio costante tra alto e basso, tra cielo e discarica, tra passioni umane e stupefazione estetica, sta la sintesi sublime di un grande drammaturgo classico moderno di nome Pier Paolo Pasolini.