IL NOIR DI DYLAN – Poesia, cronaca e narrativa

IL NOIR DI DYLAN

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista 
Inchiostro

Nel 1976 Bob Dylan pubblica Desire, album del suo ritorno al successo. Secondo le parole di Allen Ginsberg: «Un Dylan nuovo, senza paranoia». Il singolo Hurricane, annoverabile tra le canzoni di denuncia, ha tutti i tratti del romanzo poliziesco alla Raymond Chandler o alla Dashiell Hammett. La tradizione della canzone tratta dagli articoli di giornale, cara ai folksinger come Woody Guthrie e lo stesso Dylan degli inizi, in questo pezzo va oltre, trasformandosi nel risultato di un’autentica inchiesta e staccandosi dall’ambito estetico pop rock per entrare nel regno dell’impegno sociale in grado di modificare gli eventi della Storia e della Giustizia.

Il protagonista del brano è il pugile Rubin Carter (1937 – 2014), detto Hurricane, ingiustamente condannato al carcere per un triplice omicidio avvenuto il 17 giugno 1966 nel New Jersey. Carter verrà scarcerato nel 1985 per volere del giudice Haddon Lee Sarokin, per poi essere completamente riabilitato nel 1988. La canzone del menestrello di Duluth ebbe un ruolo non trascurabile nell’evoluzione giudiziaria dell’innocente. L’impatto del successo mondiale della canzone, accompagnato da una campagna di stampa che implica pure una foto di Carter e Dylan separati da sbarre poste tra loro per l’occasione, sensibilizza l’opinione pubblica abbastanza da far riaprire il caso e portare, con tutta la lentezza necessaria, alla scarcerazione dell’imputato.

Ma leggiamo il testo nella bella traduzione di Fabiosroom.

Colpi di pistola rimbombano nel bar
entra Patty Valentine dal piano di sopra
vede il barista in una pozza di sangue
grida «Mio Dio! Li hanno uccisi tutti».

Ecco la storia di Uragano
l’uomo che le autorità incolparono
per qualcosa che non aveva mai fatto
lo misero in prigione ma sarebbe potuto diventare
il campione del mondo.

Patty vede tre corpi a terra
e un altro uomo di nome Bello muoversi furtivo
«Non sono stato io» dice l’uomo alzando le mani.
«Stavo solo rubando l’incasso, spero che tu capisca.
Li ho visti uscire», dice concludendo.

«Meglio che uno di noi chiami la polizia».
E così Patty chiama la polizia
che arriva sulla scena con le sue luci rosse lampeggianti
nella calda notte del New Jersey.

Intanto lontano in un’altra parte della città
Rubin Carter e un paio di amici sono in giro in auto.
Il primo sfidante per il titolo dei pesi medi
non aveva nessuna idea del guaio in cui si stava cacciando
quando un poliziotto lo fece accostare al lato della strada,
proprio come la volta prima e la volta prima ancora.
A Paterson questo è il modo in cui vanno le cose,
se sei negro è meglio che non ti faccia vedere per strada
a meno che tu non voglia passare dei guai.

Il socio di Alfred Bello aveva un conto in sospeso con la polizia.
Lui ed Arthur Dexter Bradley vagavano in cerca di una preda.
Disse «Ho visto due uomini scappare, sembravano pesi medi,
sono saltati su una macchina con targa di un altro Stato».
E la signora Patty Valentine fece solo di sì con la testa.
Il poliziotto disse «Un momento, questo qui non è morto».
Così lo portarono all’ospedale
e sebbene quell’uomo non vedesse molto bene
dissero che avrebbe potuto identificare il colpevole.

Alle quattro del mattino fermano Rubin
e lo portano all’ospedale, gli fanno salire le scale,
il ferito gli dà un’occhiata con la vista appannata
e dice «Cosa lo avete portato a fare qui? Non è lui l’uomo!»

Ecco la storia di Uragano
l’uomo che le autorità incolparono
per qualcosa che non aveva mai fatto,
lo misero in prigione ma sarebbe potuto diventare
il campione del mondo.

Quattro mesi più tardi i ghetti sono in fiamme
Rubin è in Sud America a combattere per il suo nome.
Arthur Dexter Bradley è ancora in ballo per l’affare della rapina
e i poliziotti lo seguono cercando qualcuno da incolpare.
«Ricordi quell’omicidio avvenuto in un bar?
Ricordi di aver detto di aver visto la macchina fuggire?
Ti piacerebbe collaborare con la Legge?
Credi che potrebbe essere stato quel pugile quello che scappava?
Non dimenticare che tu sei un bianco».

Arthur Dexter Bradley disse «Non ne sono sicuro».
I poliziotti dissero «È un’occasione per uno come te.
Ti abbiamo in pugno per quella storia del motel e del tuo socio Bello.
Ora tu non vorrai dover tornare in prigione, fai il bravo.
Farai un favore alla società,
quello è un figlio di puttana.
Vogliamo mettere il suo culo in prigione.
Vogliamo affibbiargli questo triplice omicidio.
Non è mica Gentleman Jim».

Rubin era in grado di far fuori un uomo con un pugno
ma non gli era mai piaciuto parlare troppo di questo.
«É il mio lavoro», diceva. «E lo faccio per i soldi.
E quando sarà finito me ne andrò veloce per la mia strada,
su, in qualche paradiso della natura
dove nuotano banchi di trote e l’aria è limpida,
e dove si può fare una corsa a cavallo lungo i sentieri».
Ma poi lo hanno messo in prigione
dove cercano di trasformare un uomo in topo.

Tutte le carte di Rubin erano segnate fin dall’inizio
il processo fu una farsa, non ebbe mai una sola possibilità.
Il giudice disse che i testimoni della difesa erano ubriaconi.
Per la gente bianca Rubin era uno straccione rivoluzionario
e per i negri era solo un negro pazzo,
nessun dubbio che fosse stato lui a premere il grilletto.
E sebbene non riuscirono a produrre l’arma del delitto
il Pubblico Ministero disse che aveva compiuto lui l’omicidio
e la giuria composta esclusivamente da bianchi fu d’accordo.

Rubin Carter fu processato con l’inganno,
fu omicidio di primo grado, indovinate chi testimoniò?
Bello e Bradley ed entrambi mentirono sfacciatamente
e tutti i giornali si gettarono a pesce sulla notizia.
Come può la vita di un tale uomo
essere nelle mani di gente così folle?
Nel vederlo così palesemente incastrato
mi sono vergognato di vivere in un Paese
dove la giustizia è un gioco.

Ora tutti quei criminali in giacca e cravatta
sono liberi di bere Martini e guardare il sole sorgere,
mentre Rubin siede come Buddha in una cella di pochi metri,
un innocente in un inferno vivente.

Questa è la storia di Uragano
ma non sarà finita finché non riabiliteranno il suo nome
e gli ridaranno indietro gli anni che ha perduto.
Lo misero in galera ma sarebbe potuto diventare
campione del mondo.

Una nota necessaria ci spinge a specificare subito che Gentleman Jim è il titolo di un film di Raoul Walsh del 1942, nel quale Errol Flynn interpreta il campione di pesi massimi James J. Corbett (1866–1933). Per il resto, il tratto secco hard boiled dell’incipit, con il suo sguardo dall’alto sulla scena del delitto, porta direttamente al bianco e nero di The touch of evil di Orson Welles, al suo piano sequenza mozzafiato, alla sua durezza visionaria. Ma rammenta pure i gangster movies come La belva umana dello stesso Walsh o Il grande sonno, noir per eccellenza di Howard Hawks alle prese con Chandler. Quest’ultimo però si avvale della irresistibile voce narrante di Humphrey Borgart mentre la terza persona in Dylan è spietata, anche se niente affatto oggettiva e super partes. Il poeta ha il chiaro intento di sollevare le coscienze in favore dell’ennesimo caso di innocenza violata, tipico meccanismo narrativo alla Alfred Hitchcock, e per farlo attinge a una estraneità iniziale che gradualmente trascolora nell’impegno personale sempre più acceso, pur esulando dalla formula in prima persona. Il suo punto di vista si erge così a giudizio comune, per la sua evidenza e per l’autorevolezza con cui è espresso attraverso il potente loop che dal La minore al Fa maggiore rilancia continuamente l’accusa verso i corrotti e gli ingiusti che hanno fatto oggetto Rubin Carter di un tale sopruso. Insieme al riff ripetitivo del violino a evocare il vento della storia che sempre riprende a soffiare in difesa degli oppressi, la voce teologale di Bob Dylan diventa Coro greco e rappresenta la coscienza di tutti coloro i quali si prendono cura dei diritti civili, si oppongono al razzismo e puntano al lieto fine in un polar normalmente votato al finale amaro.

Questo, guardando il testo dal mero punto di vista narrativo, giacché entrando nella filologia di ciascun verso si può trovare molto di più, come sempre, in un poeta giustamente premiato con il Nobel. Un esempio su tutti? Quando nel prefinale scrive che i criminali “sono liberi di bere Martini e guardare il sole sorgere”, andando a guardare bene come suona in inglese scopriamo che “are free to drink Martinis and watch the sun rise” richiama nella medesima riga due cocktail, sebbene uno vi risulti camuffato. Il Tequila Sunrise dei primi Eagles, cocktail alcolico riconosciuto ufficialmente dalla International Bartenders Association, occhieggia nell’immagine dei balordi che bevendo italiano già mirano al Messico, nuova terra di conquista per i loro loschi affari.

Questo tiene aperta la vecchia questione che la poesia in fondo abbia sempre la gamba un po’ più lunga della narrativa.