KURT VONNEGUT – La normalità del peggio

Nasce così il compassato sarcasmo di Kurt Vonnegut Jr, involucro artistico della gravità con cui tratta ogni aspetto della vita. Gravità sconfessata, solo in superficie, dal suo modo leggero di parlare e scrivere, dal suo argomentare provocatorio e apparentemente strampalato. Il suo discorso corre talmente sul filo della sconclusionatezza da sembrare frutto di uno sguardo fantascientifico, mentre invece l’autore sta osservando da vicino, e spassionatamente come pochi, l’essere confuso e scalcinato chiamato uomo.
Gli esseri umani sono cialtroni che si danno arie da evoluti, sono piccole scimmie che agitano il tocco e la bacchetta per sembrare professori, sono bambini che si atteggiano a una maturità che non raggiungeranno mai. Ha avuto modo di verificarlo all’università, tra la facoltà di chimica e quella di antropologia, e sul campo, tornando in licenza giusto in tempo per assistere al festoso suicidio della Mamma prima di ripartire verso il disastro. L’ha potuto capire bene sopravvivendo in un sotterraneo adibito alla conservazione delle carcasse accumulate nel mattatoio soprastante, vivo grazie a una serie di ribaltamenti degni di un mondo sottosopra, un mondo bislacco come quelli descritti da Jonathan Swift e Lewis Carrol.
Salvo grazie a un mattatoio, recupera i corpi in decomposizione dei civili fatti fuori dal “bombardamento amico” sulla città priva di obiettivi militari nella quale è prigioniero. Le antinomie e i paradossi si rincorrono con una frequenza tale da farli sembrare normali. Il mestiere con cui tratta avvenimenti ed esseri umani, azioni e reazioni, coincidenze mai abbastanza casuali e sempre troppo illogiche, rende evidente quanto chimica e antropologia si assomiglino.
Gli uomini sono così, fanno cose assurde di consueto e cercano, in virtù di tale consuetudine, di farle passare per normali giacché per loro lo sono. Qui s’individua la principale vena nella miniera poetica dello scrittore di Indianapolis, tesa a narrare pulsioni e azioni strambe ritenute però serissime da chi le compie. L’apparente levità della scrittura, la caustica ironia, la piana chiarezza con cui illustra tranquille mostruosità che sono semplici espressioni della vita quotidiana presso questi crogiuoli chimici chiamati uomini, sono particolarità di un processo che nel mostrarsi straniante conduce invece al centro esatto della questione.
L’uomo è un folle e qualunque extraterrestre se ne può rendere conto in un momento. È un essere programmato come una macchina, una provetta di reazioni che lo spingono a compiere atti insensati offrendogli tuttavia l’illusione di essere l’unico individuo ragionevole nei dintorni. L’uomo è pazzo e ovviamente non è in grado di rispondere della propria follia. Dichiarare questa terribile verità con un amaro sorriso sulle labbra è parte costitutiva dell’arte vonnegutiana, arte scioccamente confusa con la fantascienza o con la scarsa serietà. Kurt Vonnegut Jr è serissimo, solo che i suoi allarmi non vengono strombazzati come sirene antiaeree, ma detti col tenore di una tranquilla conversazione in giardino o durante una passeggiata in campagna. Con lo spirito di osservazione e l’umorismo vivace di Mark Twain, considerato da Vonnegut uno dei Santi d’America.
La chimica e l’antropologia si assomigliano e, racchiudendo come due fette dello stesso sandwich il nucleo drammatico dell’esistenza giovanile dello scrittore, incorniciano la sua visione del mondo riconducendo la sua logica a fattori basilari, semplici e inoppugnabili. Ai tempi della chimica pensava al giornalismo, quando è passato all’antropologia sentiva che avrebbe fatto lo scrittore. Sapeva già quello che voleva fare nella vita. Conosceva il potere della programmazione e sapeva che la forza della chimica in atto nel corpo dell’essere umano si riverbera nell’alchimia tra gli individui e i popoli, conosceva l’intima verità dell’alto e del basso, dell’infimo e del sublime, del micro e del macro. Era consapevole delle trasformazioni fondamentali che dirigono le azioni umane perché le aveva studiate nei laboratori formidabili di guerra e disperazione, tra un’università e l’altra, identificando nella scrittura il solvente capace di catalizzare ogni precipitazione in una cristallizzazione sensata, in una risultanza istruttiva per sé e per il mondo. Sapeva che organismo e chimica sono una sola cosa, che il comportamento dell’individuo e quello di un popolo seguono leggi precise la cui qualità non varia in base alle diverse grandezze.
Sapeva di essere lui stesso il frutto di una composizione strana, scaturita dall’incrocio tra il libero pensiero del nonno Clemens e la depressione autodistruttiva della mamma Edith Lieber. Tra la bellezza infantile della moglie Jane Marie Cox e l’orgoglio pacato del padre Kurt Senior. Sapeva di essere caduto grazie a loro su un pianeta strano della cui descrizione non poteva che assumersi il compito.