KURT VONNEGUT – La normalità del peggio

Kurt Vonnegut – La normalità del peggio

Articolo scritto da Marco Ongaro per la rivista IDEM
Nel film Cosmopolis, che David Cronenberg ha tratto dall’omonimo romanzo di Don DeLillo, viene presentata la paura del fallimento come espressione della paura del futuro, essendo il futuro di ciascuno destinato per sua natura al fallimento. Il giovane magnate del cyber-capitale che attraversa la città nella bianca limousine blindata non ha saputo intuire l’anomalia nell’andamento dello yuan, responsabile della sua precipitosa bancarotta, e risale allo snodo cruciale dell’infanzia per accedere finalmente alla morte per interposta persona.

In lui la figura emblematica del suicida per fallimento si ripresenta attuale come non mai, avallata dall’atmosfera da “futuro incombente” tipica del cinema di Cronenberg. Un avvenire indesiderabile si profila all’orizzonte e chi aveva quasi tutto, di fronte alla minaccia di perdere ogni cosa, si toglie di torno. Secondo l’accoppiata Cronenberg/DeLillo, l’avvenire è un tempo che deve restare là dove lo si sogna. Se piove addosso con troppa contemporaneità, sono guai.
Non è un concetto su cui la cultura riflette solo da oggi: dal crollo di Wall Street del 1929, con la pioggia di uomini in picchiata dai grattacieli come i grafici delle statistiche, l’Occidente ha fatto in tempo ad abituarsi alla morte per fallimento. Una morte creata dall’improvvisa, disastrosa anticipazione del futuro. Si era ricchi con la paura di diventare poveri: lo si è diventati. Il futuro è qui, intollerabile, dunque “si toglie il disturbo” nell’illusione di riallontanarlo deragliandosene fuori.
Arrivati dall’altra parte della paura e verificata la puntualità delle dure aspettative, si sarebbe magari trovato un senso al futuro rovinosamente “contemporaneizzato”, se ci si fosse permessi il lusso di sopravvivere.
La paura si manifesta con reazioni biochimiche interne tendenti a difendere l’essere vivente da pericoli presunti o effettivi. Tali reazioni inducono l’organismo a comportamenti che, in condizioni endocrine diverse, non avrebbero ragione di esistere. Quando simili stati individuali coinvolgono un gruppo più vasto, si parla di psicosi. È la diversa scala in cui si riscontra il fenomeno a spostarne la pertinenza dalla biochimica alla sociologia, dalla psicologia all’antropologia.
Dalla Grande depressione, ci dice la Storia, si è usciti con la Seconda guerra mondiale: due grandi eventi interlacciati a livello planetario, due grandi paure avverate che hanno drasticamente influenzato la vita di milioni di persone e fatto scorrere fiumi d’inchiostro. Lo scrittore americano di origine tedesca Kurt Vonnegut Junior ne è forse il miglior esempio di sintesi, sotto il profilo biochimico e sotto quello antropologico, ergendosi a modello di sopravvissuto al peggior futuro nel più breve arco di tempo.
Il 14 maggio del 1944 la madre di Kurt Vonnegut Junior si suicida. A tale episodio lo scrittore alluderà in particolare nel romanzo Il grande tiratore, accostando simbolicamente il subdolo avvelenamento da amianto all’insinuarsi della depressione che attraversa il libro in ogni suo personaggio. Nella lenta preparazione e nell’invisibile decorso che porta alla morte della madre nella narrazione, annunciata e rammentata di capitolo in capitolo, è rappresentata l’oscura depressione – mentale ed economica – che ha condotto la donna all’insano gesto nella realtà. In Un pezzo da galera l’autore è più diretto e informa con sereno disincanto che sua madre si è tolta la vita perché non riusciva a sopportare di aver perso lo status di “una delle donne più ricche di Indianapolis”. Come non bastasse, più avanti tratteggia la protagonista di fantasia del libro come la donna più ricca del mondo, costretta a vivere da barbona per non essere derubata.
Il suicidio di Edith Lieber Vonnegut è ironicamente aggravato dall’essersi consumato nel giorno della Festa della Mamma, mentre il soldato ancora ventiduenne è a casa in licenza. I sonniferi stanno nella casa di ogni buon americano e ingollarne una quantità letale è impresa alla portata di chiunque. Ce n’erano di giorni in un anno in cui togliersi la vita. Edith Lieber ha scelto questo. Non poteva aspettare, o forse ha aspettato troppo. La crisi economica ha consumato i suoi giorni migliori e la ricchezza trascorsa non concede rassegnazione al fallimento.
Il 19 dicembre 1944 Kurt Jr e i suoi commilitoni si arrendono all’esercito nazista durante la Battaglia del Belgio. Di questo avvenimento e delle sue conseguenze – la traduzione come prigioniero a Dresda e la sopravvivenza al bombardamento alleato che la notte del 14 febbraio 1945 rade al suolo “la città più bella del mondo” uccidendo 130 mila persone – le opere di Vonnegut saranno pervase un po’ tutte, di volta in volta con allusioni più o meno esplicite.
Nel romanzo che è la vita di Kurt Vonnegut Jr, tra il suicidio della madre nel maggio 1944 e la liberazione della Germania nel maggio 1945, si è già consumato tutto. L’orrore disponibile ha fatto bella mostra di sé, la paura ha preso il suo pegno e la morte ha fatto capire chi comanda a questo mondo. Il resto sarà l’epilogo beffardamente inconsueto dell’esistenza di un ventitreenne invecchiato anzitempo per forza di cose. Sopravvissuto all’ecatombe, lo scrittore orfano di madre approda alla sua disillusa allegria grazie a una sorta d’anestesia emotiva non priva d’impietosa lucidità. Riemerso “a riveder le stelle” superando lo spettro di timori puntualmente realizzati – inclusa la morte della sorella per cancro e quella del di lei marito in un incidente ferroviario tre soli giorni prima, doppio tragico evento che lo indurrà ad adottarne i figli – lo scrittore dimostra che niente più può spaventare chi ha accettato la normalità del peggio. Dimostra anche che nessuno si sente chiamato a una responsabilità civica superiore, irresoluta, incancellabile, quanto chi ha visitato la parte più profonda delle paure umane.[addtoany]