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Il Blog di Marco Ongaro.

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ELEGANZA DELLA POESIA, POESIA DELL’ELEGANZA – Beau Brummel e George Byron

ELEGANZA DELLA POESIA, POESIA DELL’ELEGANZA – Beau Brummel e George Byron

Estratto dal libro Elogio dello snob di Marco Ongaro (Historica Ed. 2017)

Primo tra i dandies George Bryan (Beau) Brummel, è vissuto tra il 1778 e il 1840 in Inghilterra e poi in Francia dove morì in esilio. Campione del dandismo e figura cardine dello snobismo in tutta la sua ambiguità, Lord Brummel mai fu Lord pur ricevendone l’appellativo, studiò a Eton, poi passò a Oxford da perfetto snob all’inseguimento del Principe di Galles di cui divenne amico prima di alienarsene le grazie.

La forza di Brummel stava nella sua convinzione di superiorità, una convinzione di superiorità, per dirla con il Duca di Bedford, probabilmente nata e cresciuta in seno alla consapevolezza di un’inferiorità oggettiva. Di umili origini, il suo massimo merito, per il quale ancora lo si annovera tra i “nobili” – i famosi – è stato di rendere talmente evidente la raffinatezza del gusto da imporla come manifestazione sostanziale di una elevatezza tutta da dimostrare.

Il disinteresse per la natura – riconosciuta come religione da sconfessare dal suo più noto successore Baudelaire – e l’indifferenza per qualunque altra problematica del mondo sono state le armi critiche che hanno permesso a Brummel d’innalzarsi sopra il suo rango, mostrando alla società l’inconsistenza dei valori cui la società affettava di tenere.

Attribuendo all’eleganza l’unica importanza nel vivere, Brummel sbatte in faccia ai sacerdoti del decoro la loro ipocrisia, snobba ogni pretesa preoccupazione per il miglioramento sociale e accusa di peccare dello stesso cinismo chiunque riconosca in lui la “nobiltà”.

Molto diverso in questo dal dandy a intermittenza George Byron, secondo lo scrittore francese Barbey d’Aurevilly (1808-1888) autore di un saggio sul dandismo, il dandy Brummel è un concentrato di libertinismo senza seduzione seriale. Un Don Giovanni di Molière che disdegna fanciulle e fanciulli, giacché l’eros, come ogni passione che non riguardi il vestire, non si sottrae al tedio dell’insieme del creato e alla noia degli individui inferiori, cioè tutti gli altri.

La grandezza di Brummel sta nella capacità d’incarnare in un solo corpo entrambi i movimenti dello snobismo: quello verso l’alto che vorrebbe elevare l’uomo di bassa schiatta in virtù di nobili eccellenze assimilate e quello del superiore che indolente vorrebbe asserire l’inesistenza di chi cerca di avvicinarsi all’altezza del suo rango, l’incolmabile distinzione che lo separa da tutti.

In un’epoca come la sua, l’abbigliamento distingueva davvero le persone, il cencioso era cencioso e l’elegante era nobile perché poteva permetterselo. Ma già la ricchezza borghese imbrogliava le carte, permettendo a gente come lui di studiare nelle università e di abbigliarsi secondo criteri al di sopra del proprio censo, al di là del proprio orientamento sessuale presunto. Da qui la necessità di una nuova distinzione, che il Beau cavalcò come la più fiera delle tigri. Fiera di cosa? Ma delle vanità, è ovvio.

George Byron (1788-1824) era un vero nobile che riconosceva la superiorità della poesia – si spese per aiutare lo sfortunato John Keats che di nobile aveva solo quella – era un seduttore inveterato, bisessuale e incestuoso, un vero libertino che pose tra le sue opere più lunghe e incompiute un Don Juan di estrema purezza.

Un uomo divorato dalla noia e dalla passione al punto di morire sull’isola di Missolungi nel tentativo di togliere la Grecia agli Ottomani per restituirla agli dei dell’era classica. Del dandy cosa condivideva Lord Byron con “Beau” Brummel, se non l’impudenza verso ogni nobiltà non conquistata? Nobile in disgrazia per la rovina delle sostanze di famiglia per opera di un prozio, Byron era snob in entrambe le direzioni. Si guadagnava da vivere grazie al successo dei suoi versi ed era malvisto alla Camera dei Lord per i numerosi scandali della sua vita licenziosa, tra cui quello di una figlia nata dall’amore con la sorellastra Augusta.

In esilio dall’Inghilterra, il Byron dal piede caprino, tocco satanico dovuto a un tendine d’Achille troppo corto dalla nascita, se ne fregò bellamente dell’alto lignaggio sancito dalla sua casata, cercando di meritarne di più concreti: quello sommo della Poesia, quello armato di una causa gloriosa. Snob perché incurante delle barriere sociali, dandy per l’eleganza, il gusto e l’insolenza, il VI barone di Byron rappresenta dall’alto il disprezzo per i privilegi acquisiti quanto Brummel lo ha rappresentato dal basso.

Entrambi sono stati costretti all’esilio, come poi sarà momentaneamente per Charles Baudelaire in Belgio per sfuggire ai creditori, per Oscar Wilde in Francia sommerso dalla patria impopolarità e per James Joyce in fuga volontaria dalle mediocri guerre di religione d’Irlanda. Ma Byron, Baudelaire, Wilde e Joyce avevano dalla loro la poesia, Brummel aveva solo la ricercatezza del vestire e una smisurata presunzione di superiorità.

Questa fu la sua poesia. L’attribuire sconfinata importanza alle frivolezze era l’unico lato nobiliare di cui amò impossessarsi, essendo l’unica manifestazione esteriore di chi non ha bisogno di nulla. L’assenza del bisogno o la sua ostentata noncuranza è irrinunciabile prerogativa di chi ha tutto.

Per il buddismo il desiderio è l’essenza della trappola dell’universo, per l’induismo è la fonte della sofferenza, per Brummel il confinamento del desiderio nel solo regno della futilità è rigore intellettuale senza scappatoie. Una frivola forma di ascesi.

Il talento nell’eleganza non viene dalla nascita ma si coltiva grazie a un’inclinazione, pure innata, verso la squisitezza, che etimologicamente riporta alla “ricerca” quale unica via per una distinzione senza scorciatoie. Data la meta di distinguersi dalla volgarità delle moltitudini – il popolo è volgare per definizione – come i nobili di nascita hanno avuto in sorte, ecco apparire nel proto-dandy l’ispirazione di insegnare pure a loro la vera squisitezza. Virtù che paradossalmente non s’impara.

Il dandy Brummel dunque rimane solitario sul baluardo dell’eleganza a guardare in basso le migliaia che si azzuffano nel tentativo di raggiungere l’eccellenza nell’abbinamento di una cravatta a un solino, scienza di cui lui mantiene insindacabile giudizio. Più gli altri cercano di eguagliarlo nel gusto e più riconoscono la propria sudditanza alla futilità. Più cercano di distinguersi somigliandogli, e meno sono distinti. Così il dandy vince la sua guerra di denuncia, costringendo ogni snob, in alto e in basso, a mostrare la propria effettiva distanza dalle cose importanti nel mondo.

Il poeta non può che essere dandy, inascoltato esploratore del mistero dell’esistenza, unico interprete ispirato dell’aldilà, veggente inviso alla concretezza, dedito a escursioni in ciò che vi è di più vano: la parola, volatile e imprendibile. Il dandy non necessariamente è poeta.

La sua poesia è un’ossessione specialistica per il dettaglio dell’abito, che risulta nello smascheramento della futilità altrui. Perciò Byron, diviso tra essenze poetiche e politiche voluttà, ebbe a dire: «Brummel è uno dei maggiori uomini del diciannovesimo secolo; egli occupa il primo posto, al secondo c’è Napoleone e al terzo ci sono io».

LA METAFORA DELL’ATTESA – Ed è subito sera

LA METAFORA DELL’ATTESA – Ed è subito sera

Estratto dal libro Elogio della puntualità di Andrea Battista e Marco Ongaro (Giubilei Regnani Editrice 2014)

Attendere implica una tensione verso qualcosa cui si aspira e che non si possiede. L’attesa è l’ingrediente essenziale del desiderio, è ciò che determina il ritmo e il successo di una rappresentazione teatrale, la piacevolezza prosodica di una poesia, il gradimento di una previsione soddisfatta e il brivido di un’aspettativa dall’esito sorprendente. È uno stato che, se protratto oltremodo, genera disagio.

«Si dice che l’attesa sia lunga, noiosa», scrive Thomas Mann. «Ma è anche, in realtà, breve, poiché inghiotte quantità di tempo senza che vengano vissute le ore che passano e senza utilizzarle». Passando dalla letteratura alla canzone in direzione non per forza verticale, Giorgio Gaber ben la definisce insieme al suo collaboratore Sandro Luporini nell’omonima canzone: «L’attesa è una suspense elementare / è un antico idioma che non sai decifrare / è un’irrequietezza misteriosa e anonima / è una curiosità dell’anima. / E l’uomo in quelle ore /guarda fisso il suo tempo / un tempo immune da avventure / o da speciale sgomento».

Queste ultime descrizioni rendono l’idea dell’attesa nella sua forma meno romantica, quella in cui la persona si trova defraudata della propria libertà d’impiegare altrimenti il proprio tempo. In tale accezione essa si accomuna meno al concetto ampio di speranza, rimanendo piuttosto incollata all’idea di un’aspettativa prossima, concreta e parzialmente delusa come accade quando qualcuno è in ritardo a un appuntamento.

Non l’attesa del desiderio che è meglio protrarre per evitare la delusione implicita nella sua soddisfazione, non l’attesa del piacere che è piacere essa stessa, come sostiene lo scrittore tedesco Gotthold Ephraim Lessing, bensì il tempo regalato involontariamente a qualcuno che si è preso il proprio tempo per fare irrispettosamente dell’altro. Quella zona grigia di non vita, di concentrazione su un non evento in grado di rapinare tempo a chi nutre fiducia in qualcuno che, in quella misura, non la meritava.

Un’attesa veniale, rispetto a quella grave e diffusa in cui l’essere umano spesso spreca la propria vita, tra semafori e pratiche burocratiche, code negli uffici postali, speranze illusorie e segrete paure di agire. Una rappresentazione minuscola, simbolicamente riduttiva dell’attesa narrata fulmineamente da Salvatore Quasimodo nel 1930, nella raccolta Acque e terre:

Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera.

Non è poi così terribile aspettare qualcuno in ritardo a un rendez-vous, ma nel suo piccolo il fatto richiama alla coscienza dei più sensibili l’immensa attesa cui ogni essere è chiamato nel venire al mondo, quella del senso di un’esistenza e della morte che la troncherà. Il raggio di sole, che il poeta pone come un giavellotto piantato verticalmente lungo la spina dorsale dell’uomo, lo lascerà ancora sbigottito solo un attimo dopo, con il sempre improvviso avvento della sera. L’universale solitudine sul cuore della terra si fraziona in ogni piccolo atto d’attesa, mostrando all’individuo la povertà del tempo a disposizione e l’urgenza, forse inutile, di impiegarlo meglio che si può.

Ogni minuto sprecato rammenta, a chi vuole vivere, l’immenso sperpero cui la Natura lo espone. Senza attardarsi troppo nelle camere del tragico, si può asserire che ogni ritardo sulle previsioni di un incontro, avvenimento, scadenza, appuntamento drammatizza in minima parte lo stato di attesa fondamentale da cui l’uomo cerca disperatamente di affrancarsi.

IL DESTINO DEL DESTINO – Da Gounod a Sofocle senza ritorno

IL DESTINO DEL DESTINO – Da Gounod a Sofocle senza ritorno

Estratto dal libro Elogio della puntualità di Andrea Battista e Marco Ongaro (Giubilei Regnani Editrice 2014)

Nel 1927 due uomini stanno viaggiando nella regione delle Alpi Marittime francesi. Si fermano a una locanda e conversano ad alta voce di ciò che interessa maggiormente loro: la musica, la poesia. Si mettono a enumerare le arie del Faust di Charles Gounod nelle quali, concordano, il compositore ha superato se stesso. Uno degli interlocutori dichiara che talune hanno l’andatura del sogno. Un signore si alza dal tavolo accanto e si presenta: è il nipote di Gounod. Racconta loro che il compositore ottocentesco aveva effettivamente sognato quelle melodie del Faust per poi annotarne le note al risveglio.

A rendere straordinario l’aneddoto è la conferma dell’impressione espressa dai due signori, di per sé sbalorditiva, ma soprattutto la coincidenza dell’incontro, se si considera che i due onorati dalla confidenza del nipote di Gounod erano il poeta Jean Cocteau e il compositore Igor Stravinskij in viaggio di collaborazione per la stesura dell’opera-oratorio Œdipus Rex, che quell’anno avrebbe debuttato a Parigi al Théatre Sarah Bernhardt.

Quante probabilità c’erano che tre personaggi di tal fatta s’incontrassero in una guinguette della riviera franco-mediterranea e che in quell’esatto momento due di loro parlassero di un’opera il cui autore aveva depositato testimonianza spirituale presso il proprio nipote seduto al tavolo accanto? Nel rimarcare il carattere innocuo di questa manifestazione del Meraviglioso è impossibile non ravvisare la trama di un appuntamento inconscio, gentilmente soprannaturale, inspiegabile attraverso gli strumenti della scienza – com’è appunto prerogativa del Meraviglioso – tuttavia di indiscutibile puntualità.

Da notare: l’opera che Cocteau e Stravinskij stanno mettendo a punto in questo viaggio è, si è detto, l’Œdipus Rex, adattamento del poeta francese dal testo tragico greco di Sofocle. Tragedia che tre anni più tardi lo stesso Cocteau rielaborerà nella pièce teatrale La macchina infernale.

Ora, se esiste una storia che simbolicamente rappresenta alla perfezione il gioco degli appuntamenti inconsci, con o senza destino, dei piedi dell’uomo che “lo portano dove egli è atteso”, questa è la narrazione eterna della tragedia edipica. Per dirla con Stefano Jacomuzzi dell’Università di Torino, che ha scritto l’introduzione alla pubblicazione italiana del dramma di Cocteau: «Gli dei hanno davvero approntato una macchina infernale, che nessuna forza può far scattare a vuoto. La casualità occasionale degli incontri e dei gesti di Edipo si colora fin dall’inizio della beffarda, più che tragica fatalità. Il Caso e il Fato coincidono: il primo offre i momenti, i luoghi, gli appuntamenti, le circostanze, le coincidenze, le parole per la ferrea catena degli accadimenti imposti dall’altro».

Riassumendo in breve il meccanismo a orologeria che presiede alla vicenda della stirpe di Laio, ci si rende conto della trappola inesorabile approntata da forze superiori in una serie di appuntamenti reconditi cui i poveri esseri umani cercano inutilmente di sfuggire.

A Laio, re di Tebe e marito di Giocasta, l’oracolo di Delfi annuncia che se avranno un figlio: «Egli ucciderà suo padre. Sposerà sua madre». Concepito comunque in una notte di ebbrezza, il neonato è abbandonato sulla montagna con i piedi forati e legati. Un pastore corinzio lo trova e lo consegna agli sterili regnanti di Corinto, Polibo e Merope, che lo adottano col nome di Edipo, ossia Piedi forati.

Cresciuto, il ragazzo s’insospettisce sulle sue origini in seguito a un alterco con un ubriaco che gli ha dato del bastardo. Interroga allora l’oracolo di Delfi che dà il solito responso: «Ammazzerai tuo padre e sposerai tua madre». Per non nuocere a chi crede siano i suoi genitori, decide di non tornare a Corinto e prende la direzione di Tebe. A un crocicchio incontra una scorta. Viene urtato da un cavallo, scoppia una contesa, un servo lo minaccia, reagisce con una bastonata. Il colpo mal diretto ammazza il signore. Il vecchio ucciso è Laio, re di Tebe, che si stava recando a Delfi a chiedere responso per liberare la sua città dal flagello della Sfinge. Senza saperlo, all’incrocio delle strade di Delfi e di Daulia, Edipo ha ucciso suo padre.

La scorta, orbata del re, si dà alla fuga mentre il giovane prosegue il suo tragitto. In una sosta apprende che la “Cagna canora” decima la gioventù tebana incapace di risolvere l’indovinello da lei proposto. La vedova di Laio, Giocasta, offre il regno e la mano al vincitore della Sfinge. Edipo sfida la “Fanciulla alata” e ne indovina l’enigma liberando così la città. Entra trionfante a Tebe e sposa la regina. Senza saperlo, sposa sua madre.

Ciascun appuntamento fissato dall’oracolo è stato rispettato con assoluta precisione, grazie all’ignoranza che circonda un verdetto oracolare di proverbiale laconicità. Gli uomini vogliono conoscere il futuro e poi cercano di evitarlo: nel tentativo, gli finiscono dritti in bocca. Questa è la beffa che il poeta tragico canta, commosso dal vano dibattersi dei suoi simili al cospetto del soprannaturale.

L’aspetto commovente della vicenda è l’insistenza con cui l’essere umano cerca di rapportarsi con il trascendente attraverso l’oracolo, il che lo espone al primo e massimo dei paradossi: se quanto annunciato è stato letto nel futuro, è inutile tentare di modificarlo poiché è già successo.

Allora a cosa serve indagarlo in anticipo? Solo l’ansia di sapere tipica dell’uomo lo lascia in balia del suo futuro. Meglio costruire il destino da sé tenendo aperto l’avvenire nell’illusione che non si sia ancora verificato. Così ciascun appuntamento rimane segreto e il suo puntuale verificarsi costituirà una sorpresa. Ma non è forse la paura di brutte sorprese a muovere l’uomo verso gli oracoli? Ebbene, la storia di Edipo gli serva di lezione per non spiare più attraverso la serratura del non ancora accaduto.