DETTAGLIO D’AMERICA SERIALE

Se si decide di credere alla narrazione di Capote, famoso per la sua “oggettivazione della soggettività” al punto di far creare per lui ossimori come romanzo-verità o addirittura faction, Norma Jeane era consapevole di quanto l’immagine nello specchio fosse altro da sé. L’aneddoto illustra la diversità del personaggio rispetto alla persona e fissa l’incolmabile similarità di sé con la figura nello specchio, figura artificiale e irrimediabilmente lontana. Norma Jeane è cosciente del distacco tra la creatura posta in essere dalla propria volontà e un io sempre meno certo, tenuto talmente in poco conto da farle sentire il bisogno di rivolgere all’immagine posticcia l’onore di un Lei maiuscolo.
Qualunque cosa Norma Jeane sia nel mondo reale, si sdoppia scientemente nella figura che la sovrasta per successo e ammirazione. È quella Lei a meritare la paga d’attrice, è Lei a essere amata dall’America, Lei a essere accolta da diecimila fan all’aeroporto di Tokyo. Lei è desiderata e sposata dagli uomini, Norma Jeane è quella che invece poi non sa che farsene, che scappa dalla casa di San Francisco, che tradisce il marito, Norma Jeane è quella che divorzia dicendo frasi suggerite dall’avvocato.
È un caso che tra tutte le icone proprio quella di Marilyn, una donna cosciente di essersi vacuamente replicata in una pubblica immagine di sé, abbia ottenuto il massimo incarico di rappresentanza dalla società che l’ha prodotta? Perché un simbolo diventi tanto reale da sostituirsi all’esistenza della cosa simboleggiata, bisogna che la realtà sia già una rappresentazione di qualcos’altro che sfugge. La ripetizione di tale rappresentazione in immagini riproposte in serie sembra acuire la concretezza dell’oggetto mentre se ne allontana, come in un proverbiale gioco di specchi in cui l’originale, ormai perduto, non sia che il dettaglio primario di una catena senza alcuna memoria.
Idraulici e parrucchiere, palestre e aquagym pongono manifesti di Marilyn, e perfino delle serigrafie che Warhol ha fatto di lei, sulle pareti dei loro negozi. La gente guarda senza sapere più di chi si tratti, a parte il nome e l’immagine. Chi ha visto film interpretati da lei si va, per questioni anagrafiche, assiepando ai cancelli dei cimiteri, tra un po’ solo i canali satellitari dediti a vecchie pellicole trasmetteranno un suo titolo, se qualcuno vorrà vederlo. Ma l’icona resta, a memoria di qualcosa che non si sa, svuotando di sé la storia nell’illusione di tracciarla. La pienezza della sua appariscenza corrisponde al vuoto lasciato dal suo valore.
Un valore c’era, da qualche parte. C’era una scintilla, un fascino, un carisma, una potente volontà. Si faceva fotografare nell’atto di leggere l’ultima pagina dell’Ulisse di Joyce, studiava, sapeva recitare sempre meglio. Voleva produrre un film sui fratelli Karamazov, lottava disperatamente per sfuggire all’inconsistenza del simulacro che si era costruita. Si era presa un marito Premio Pulitzer dopo il divorzio dalla gloria del baseball. Voleva migliorarsi, far emergere il pregio interiore a sostegno o a dispetto di quello esteriore. La sua stessa malinconia e le origini di figlia illegittima venivano offerte come elementi di quel pregio, testimonianze della presenza di qualcosa sotto la figura chiamata “Lei”.
Nel suo dibattersi voleva asserire quanto non fosse solo la “bellissima bambina” con cui Truman Capote ha poi sigillato il suo ricordo nella raccolta di ritratti dialogati. La morte suggella il fallimento delle sue aspirazioni: anziché riemergere dalla bidimensionalità dell’immagine creata per lo spettacolo, canonizza la sua persistenza nella virtualità a venire. Questo perché la sua nazione lo crede, la società in cui si è formata lo vuole, l’ingegno del popolo di cui è regina e martire lo realizza con cieca convinzione.
Nel 1962, complice l’archetipo dell’artista pop, Marilyn salda il modello di realtà del suo Paese e l’ideale di progresso che ne sarebbe derivato. La creazione di un’immagine di successo, la sua ripetizione in serie, l’insistenza sulla sua effettiva esistenza nel momento in cui essa diviene fittizia: tutto questo riecheggia capitali quotati e riquotati in borsa per coprire l’estinzione del loro effettivo valore nel mondo reale.
È così che un dettaglio diventa Sistema.