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IL PARADOSSO DEL VERO PICASSO

IL PARADOSSO DEL VERO PICASSO

Estratto dal libro Elogio dello snob di Marco Ongaro (Historica Ed. 2017)

Arthur Koestler (1905-1983) nel saggio L’atto della creazione racconta di una signora che colloca un disegno di Picasso sulle scale fintantoché lo crede una copia, per poi appenderlo al posto d’onore in salotto non appena viene a conoscenza della sua autenticità. Il Duca di Bedford nel suo pamphlet sullo snobismo teorizza che il quadro, in virtù della corretta attribuzione d’autore, abbia acquistato non solo un valore simbolico ma anche estetico. «Brillava, era fonte di delizia e di sincera commozione per le stesse persone che prima erano passate a pochi passi dallo stesso quadro con assoluta indifferenza». È a proposito di questo rappresentativo episodio di snobismo che il Duca afferma che «l’apparenza è realtà» attribuendo all’ipocrisia l’essenza dello snob.

Certo, è l’essenza dello snob che vuole farsi riconoscere in quanto individuo attiguo a nomi altisonanti, possessore di status symbol di casta, auto eleganti, abbigliamento comme il faut, appiccicato a mode in cui identificare una guida al comportamento, al vestire, alla tendenza culturale condivisa da “chi conta”. Questo è il povero snob alla Bouvard e Pécuchet, che non capisce l’essenza di ciò che dovrebbe ammirare per apparire nobile e si affida dunque alla fama già acclamata da altri. Non è certo lo snob dandy, che nello sprezzo di quella fama si elegge ad arbitro del gusto snobbando le mode non appena ne avverte l’olezzo.

In questo aneddoto, tanto Koestler quanto Bedford, lasciano fuori il vero snob, il dandy che supera le classi fregandosene altamente e traendone profitto, il magnete, l’autentico per eccellenza, il creatore che non parla di nessuno e di cui tutti parlano, l’uomo spettacolo che ha animato senza curarsene le meschine vicende snob di quella dimora signorile: Pablo Picasso.

Né Koestler, né il XIII Bedford né tantomeno l’oscura signora proprietaria della casa e del disegno eguaglieranno mai lontanamente in fama e aristocrazia dello spirito l’artefice dell’opera, che nella consapevolezza della sua implicita nobiltà soleva riferirsi a Dio come a «l’altro artigiano».

Il suo nome nel certificato di nascita è Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Ruiz y Picasso. Nato a Malaga nel 1881, a vent’anni per distinguersi sceglie il cognome della madre, quel cognome di origine ligure che celebrerà la sua grandezza nel mondo con il suono e l’immagine di un marchio registrato.

Suo padre è un pittore di modesta levatura e insegnante, sposato a una cadetta di possidenti terrieri da parte di madre. Dalle prime parole che la mamma asserisce di avergli sentito pronunciare, «piz, piz», abbreviazione di lápiz, che in spagnolo significa «matita», si capisce che la nobiltà ricercata e trovata da Pablo sarebbe appartenuta a un ambito aristocratico diverso. Divenuto uno degli artisti più ricchi del mondo, se ne sarebbe rimasto sempre in disparte, nonostante l’inguaribile protagonismo, con l’atteggiamento blasé del monarca assoluto, alternando a un abbigliamento di vistosa eleganza, una tuta da operaio o una tenuta più volte fotografata dai massimi ritrattisti dell’epoca nel sud della Francia e consistente in un paio di pantaloncini corti larghi, a torso e piedi nudi.

Un dandismo di ritorno assimilabile a quello di Gandhi, non fosse per l’immensa distanza morale tra i due.

Quello di Picasso è lo snobismo vincente del genio, radicato nella coscienza di un’arte che solo alcuni, i migliori, riescono a comprendere pienamente e tutti gli altri fingono di accogliere con entusiasmo per pura ignoranza. La fame iniziale, il sospetto di anarchismo che gli sarebbe valso il rifiuto della naturalizzazione francese pur avendo vissuto in Francia per la maggior parte della sua vita, la curiosa adesione al comunismo combinata con il calcolo minuzioso delle quotazioni dei quadri, la misurata gestione dei collezionisti per trarre il massimo guadagno dalla propria opera e il senso innato per l’opportunità pongono Picasso all’incrocio dei venti di tutti gli snobismi tra Ottocento e Novecento senza mai incasellarlo in una categoria classificabile. La sua opera e il suo nome diventano status symbol del jet-set internazionale e modello di primissimo ordine per ogni rango dell’arte moderna.

Circondato da poeti, riconosce la poesia come unico complemento alla sua arte, il poeta come unica compagnia degna. Nutre la propria tirannia sull’amore femminile in virtù di una potenza creatrice senza rivali, cui aggiunge un connaturato senso del marketing che lo conduce alla vetta del successo mondiale, in posizione superiore a qualunque nobile più o meno snob. Non c’è regina o sovrano che possano ambire alla sua elevatezza, nessuno che lo possa snobbare senza apparire sprovveduto.

Dipinge quadri cubisti con Georges Braque e non si perita di firmarli, lasciando dubbi ancora insoluti in merito alla paternità delle opere. Fondatore insieme a Braque del Cubismo, se ne chiama fuori come Guglielmo Marconi potrebbe chiamarsi fuori dalla radiofonia. Scrutatore e anticipatore di mille correnti, non se ne lascia catturare ma le precorre tutte fino a oggi, imitando qualunque genere in modo inimitabile.

Nel nostro secolo, successivo al suo, la casa automobilistica Citroën ha in catalogo un’auto che ne porta il nome e la firma. Non perché Picasso ne abbia siglato la linea della carrozzeria, ma perché qualche erede ne ha permesso l’uso da parte della Citroën come marchio di garanzia artistica. Una forma di snobismo al contrario ha preso l’esempio inverso dalla pop art dell’altro dandy di nome Andy Warhol, appropriandosi della firma per avvalorare l’artisticità di un prodotto seriale anziché trasformare il prodotto stesso in opera d’arte esposta nelle gallerie. Non è la Coca-Cola a brillare in una serigrafia bensì la calligrafia e il nome di Picasso a viaggiare sulla lamiera delle auto in serie.

Morto nel 1973 alla veneranda età di 91 anni, ha trasformato ogni donna amata in una regina più o meno infelice e ogni figlio in un erede di alto lignaggio, con destino non sempre fortunato quanto la ricchezza paterna avrebbe lasciato immaginare. Avaro e munifico come chi non deve niente a nessuno, ha donato mille dipinti inestimabili alla città di Barcellona e altri a Parigi. Echi della sua ricchezza risuonano in un orfanotrofio del Vietnam lontano, come lascito remoto di aventi diritto che gli sono sopravvissuti per qualche tempo.

Le sue parole in punto di morte riecheggiano con maggior leggerezza quelle del Cristo, dandy leggendario ancora insuperato: «Bevete alla mia salute».