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SCHEGGE ASSENNATE – Album di aforismi da Barthes a Warhol via Wilde

SCHEGGE ASSENNATE – Album di aforismi da Barthes a Warhol via Wilde

Estratto dall’introduzione del libro Guida ai grandi aforisti di  Marco Ongaro (Odoya Editrice 2018)

Roland Barthes, ritratto in quest’opera in uno spazio tutto suo, elabora una teoria dialettica di grande efficacia tra Album e Libro. Considerando il Libro l’organizzazione in vita o postuma dell’Album di un autore e postulando una gara tra le due strutture scritte quanto a durata, pone l’interrogativo su quale delle due forme di scrittura prevalga alla fine. Il Libro concepito intenzionalmente, ordinato secondo una predisposizione, un programma rispettato nei dettagli, l’Album inteso come coacervo di ispirazioni casuali, raccolta di osservazioni oscillante tra il diario e l’affastellarsi delle epifanie annotate senza una precisa intenzionalità organizzata. Nell’Album lo scheletro è assente, c’è uno “sparpagliamento antologico di parti”, elementi guidati da un ordine arbitrario, dal caso e dalle circostanze. Succede che l’Album diventi Libro prima della morte dell’autore, come nel caso della Ricerca del tempo perduto di Proust, o dopo la sua dipartita come per i Pensieri di Pascal. L’Album è frammentario, il Libro è un corpo interconnesso e ragionato. L’Album è rapsodico, come Il mio cuore messo a nudo di Baudelaire, il Libro è un cosmo concluso, come Madame Bovary di Flaubert.

L’intuizione geniale di Barthes sta nell’individuare una sfida in questa alternativa. Chi vincerà alla fine tra Album e Libro? Altrettanto acuta è la soluzione al quesito. Se il Libro è il risultato dell’assemblaggio di noticine e annotazioni varie, le paperolles proustiane, idee raccolte e osservazioni incidentali raggranellate in Album durante la fase preparatoria, il tempo e la memoria umana faranno sì che tali monadi strutturate si liberino presto o tardi dalla griglia ragionata che le ha incarcerate per tornare, quali macerie del Libro, alla loro naturale seppur nuova condizione di Album.

Narra a questo proposito un aneddoto tratto direttamente dalla sua vita, nella bella tradizione di autoanalisi con cui Barthes sempre si approccia alla cultura, attingendo cioè a una personale annotazione inserita non senza ironia nel suo corso La preparazione del romanzo.

“L’8 luglio 1979, nell’autobus 21, affollato, di domenica sera, verso le 21.00, accanto a me, imperturbabile, una quarantenne, armata di un righello e una Bic nera, sottolinea quasi tutte le frasi di un libro (non ho potuto vedere quale)”.

Corrobora l’episodio con un’annotazione dalle Mémoires d’outre-tombe in cui Chateaubriand racconta di come Joubert strappasse dai libri le pagine che non gli piacevano, creandosi una biblioteca personale composta di “opere svuotate, racchiuse in copertine troppo grandi”. L’esperienza di vita trova conferma in un’esperienza tramandata nella scrittura, perciò è vera. Il linguaggio crea la realtà e la realtà conferma il linguaggio.

Del Libro rimane dunque la citazione, la frase memorabile che ha letto noi nel momento in cui la si leggeva, prerogativa del classico. Come il classico è costituito dalle vestigia di civiltà un tempo floride e compiute, così il nuovo Album di un individuo, di una cultura, di una società è formato da ciò che ha prevalso nel mare magnum della scrittura, le rovine sopravvissute alle mutazioni delle epoche, resti di un naufragio portati a riva da imperscrutabili maree.

Brani di Jung convivono con pensieri di Freud senza alcuna considerazione della ruggine trascorsa fra i due padri della psicoanalisi. Marcel Proust e Eugène Sue condividono brandelli di memoria letteraria, Jean Cocteau e Andy Warhol partecipano di emozioni simili a dispetto delle rispettive correnti artistiche. I frammenti del Libro giunti a creare il nuovo Album appartenevano a costruzioni compatte, erano sequenze racchiuse in consequenzialità pensate con fatica. Ora sono brandelli di idee riposizionati secondo ordini casuali o associativi, indipendenti dalla loro collocazione temporale e logica.

L’aforisma è la forma d’arte, sintetica ed efficace a un tempo, che meglio rappresenta lo scrittore scomparso nel momento in cui la memoria dell’uomo artista torna ad affermarsi in qualche anniversario, della nascita o della morte. Chi riempie taccuini su taccuini, notturni e diurni, chi scrive sulle tovaglie delle trattorie o sui volantini pubblicitari è portato per natura a essere epigrammatico nei giudizi e nei commenti. Quando si raccolgono i suoi scritti e li si cataloga, gli apoftegmi si stagliano come gemme in una miniera di carbone.

Se poi la forma di scrittura scelta è quella che usa le massime come mattoni su cui edificare l’architettura dell’opera, è evidente che esse vengano in superficie e rimangano come documento vivo della sua arte. L’aforisma è la memoria di un pensatore, l’apoftegma è l’arguzia di un comunicatore. Entrambi sono punte d’iceberg che annunciano o ricordano momenti pregnanti di scrittura ormai sommersa.

Si trattasse del Libro o dell’Album dell’autore, come per i diari di Flaubert o Kafka, per le lettere a padri, fidanzate, amici, amanti, materiali la cui frammentarietà originaria conferisce statuto autorevole di fonte per estrapolazioni d’ogni sorta, l’emersione postuma in forma pregna e sintetica delle citazioni sancisce ora l’effettiva vittoria dell’Album sull’effimero assestamento del Libro. La tendenza necrofila ad assorbire ogni dettaglio di un autore dopo il suo distacco terreno raggiunge apici che sconfinano nella leggenda, riferendo frasi riferite, come “muoio al di sopra dei miei mezzi” pronunciata da Wilde nell’ultimo hotel della sua vita o “questo libro non l’ho letto e non l’ho neanche recensito” attribuita a Flaiano senza suggerirne con precisione l’origine.

Il famoso discorso di Wilde a definizione dell’amore “che non osa pronunciare il suo nome” rappresenta una delle miscele aforistiche extratestuali più significative, non essendo stato scritto dall’autore bensì declamato in tribunale a propria difesa poco prima della condanna ai lavori forzati per sodomia. Riferito direttamente dal cancelliere di un tribunale ha forse più legittimità di poche parole dette a un amico in un caffè, nondimeno rimane paradossale la sua inclusione nell’Album wildiano al pari, se non con maggiore successo, dei suoi scritti volontari, ragionati, interpuntati con precisa intenzionalità, o di brani destinati alla memoria precaria di argute conversazioni.

IL PARADOSSO DEL VERO PICASSO

IL PARADOSSO DEL VERO PICASSO

Estratto dal libro Elogio dello snob di Marco Ongaro (Historica Ed. 2017)

Arthur Koestler (1905-1983) nel saggio L’atto della creazione racconta di una signora che colloca un disegno di Picasso sulle scale fintantoché lo crede una copia, per poi appenderlo al posto d’onore in salotto non appena viene a conoscenza della sua autenticità. Il Duca di Bedford nel suo pamphlet sullo snobismo teorizza che il quadro, in virtù della corretta attribuzione d’autore, abbia acquistato non solo un valore simbolico ma anche estetico. «Brillava, era fonte di delizia e di sincera commozione per le stesse persone che prima erano passate a pochi passi dallo stesso quadro con assoluta indifferenza». È a proposito di questo rappresentativo episodio di snobismo che il Duca afferma che «l’apparenza è realtà» attribuendo all’ipocrisia l’essenza dello snob.

Certo, è l’essenza dello snob che vuole farsi riconoscere in quanto individuo attiguo a nomi altisonanti, possessore di status symbol di casta, auto eleganti, abbigliamento comme il faut, appiccicato a mode in cui identificare una guida al comportamento, al vestire, alla tendenza culturale condivisa da “chi conta”. Questo è il povero snob alla Bouvard e Pécuchet, che non capisce l’essenza di ciò che dovrebbe ammirare per apparire nobile e si affida dunque alla fama già acclamata da altri. Non è certo lo snob dandy, che nello sprezzo di quella fama si elegge ad arbitro del gusto snobbando le mode non appena ne avverte l’olezzo.

In questo aneddoto, tanto Koestler quanto Bedford, lasciano fuori il vero snob, il dandy che supera le classi fregandosene altamente e traendone profitto, il magnete, l’autentico per eccellenza, il creatore che non parla di nessuno e di cui tutti parlano, l’uomo spettacolo che ha animato senza curarsene le meschine vicende snob di quella dimora signorile: Pablo Picasso.

Né Koestler, né il XIII Bedford né tantomeno l’oscura signora proprietaria della casa e del disegno eguaglieranno mai lontanamente in fama e aristocrazia dello spirito l’artefice dell’opera, che nella consapevolezza della sua implicita nobiltà soleva riferirsi a Dio come a «l’altro artigiano».

Il suo nome nel certificato di nascita è Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Ruiz y Picasso. Nato a Malaga nel 1881, a vent’anni per distinguersi sceglie il cognome della madre, quel cognome di origine ligure che celebrerà la sua grandezza nel mondo con il suono e l’immagine di un marchio registrato.

Suo padre è un pittore di modesta levatura e insegnante, sposato a una cadetta di possidenti terrieri da parte di madre. Dalle prime parole che la mamma asserisce di avergli sentito pronunciare, «piz, piz», abbreviazione di lápiz, che in spagnolo significa «matita», si capisce che la nobiltà ricercata e trovata da Pablo sarebbe appartenuta a un ambito aristocratico diverso. Divenuto uno degli artisti più ricchi del mondo, se ne sarebbe rimasto sempre in disparte, nonostante l’inguaribile protagonismo, con l’atteggiamento blasé del monarca assoluto, alternando a un abbigliamento di vistosa eleganza, una tuta da operaio o una tenuta più volte fotografata dai massimi ritrattisti dell’epoca nel sud della Francia e consistente in un paio di pantaloncini corti larghi, a torso e piedi nudi.

Un dandismo di ritorno assimilabile a quello di Gandhi, non fosse per l’immensa distanza morale tra i due.

Quello di Picasso è lo snobismo vincente del genio, radicato nella coscienza di un’arte che solo alcuni, i migliori, riescono a comprendere pienamente e tutti gli altri fingono di accogliere con entusiasmo per pura ignoranza. La fame iniziale, il sospetto di anarchismo che gli sarebbe valso il rifiuto della naturalizzazione francese pur avendo vissuto in Francia per la maggior parte della sua vita, la curiosa adesione al comunismo combinata con il calcolo minuzioso delle quotazioni dei quadri, la misurata gestione dei collezionisti per trarre il massimo guadagno dalla propria opera e il senso innato per l’opportunità pongono Picasso all’incrocio dei venti di tutti gli snobismi tra Ottocento e Novecento senza mai incasellarlo in una categoria classificabile. La sua opera e il suo nome diventano status symbol del jet-set internazionale e modello di primissimo ordine per ogni rango dell’arte moderna.

Circondato da poeti, riconosce la poesia come unico complemento alla sua arte, il poeta come unica compagnia degna. Nutre la propria tirannia sull’amore femminile in virtù di una potenza creatrice senza rivali, cui aggiunge un connaturato senso del marketing che lo conduce alla vetta del successo mondiale, in posizione superiore a qualunque nobile più o meno snob. Non c’è regina o sovrano che possano ambire alla sua elevatezza, nessuno che lo possa snobbare senza apparire sprovveduto.

Dipinge quadri cubisti con Georges Braque e non si perita di firmarli, lasciando dubbi ancora insoluti in merito alla paternità delle opere. Fondatore insieme a Braque del Cubismo, se ne chiama fuori come Guglielmo Marconi potrebbe chiamarsi fuori dalla radiofonia. Scrutatore e anticipatore di mille correnti, non se ne lascia catturare ma le precorre tutte fino a oggi, imitando qualunque genere in modo inimitabile.

Nel nostro secolo, successivo al suo, la casa automobilistica Citroën ha in catalogo un’auto che ne porta il nome e la firma. Non perché Picasso ne abbia siglato la linea della carrozzeria, ma perché qualche erede ne ha permesso l’uso da parte della Citroën come marchio di garanzia artistica. Una forma di snobismo al contrario ha preso l’esempio inverso dalla pop art dell’altro dandy di nome Andy Warhol, appropriandosi della firma per avvalorare l’artisticità di un prodotto seriale anziché trasformare il prodotto stesso in opera d’arte esposta nelle gallerie. Non è la Coca-Cola a brillare in una serigrafia bensì la calligrafia e il nome di Picasso a viaggiare sulla lamiera delle auto in serie.

Morto nel 1973 alla veneranda età di 91 anni, ha trasformato ogni donna amata in una regina più o meno infelice e ogni figlio in un erede di alto lignaggio, con destino non sempre fortunato quanto la ricchezza paterna avrebbe lasciato immaginare. Avaro e munifico come chi non deve niente a nessuno, ha donato mille dipinti inestimabili alla città di Barcellona e altri a Parigi. Echi della sua ricchezza risuonano in un orfanotrofio del Vietnam lontano, come lascito remoto di aventi diritto che gli sono sopravvissuti per qualche tempo.

Le sue parole in punto di morte riecheggiano con maggior leggerezza quelle del Cristo, dandy leggendario ancora insuperato: «Bevete alla mia salute».