DETTAGLIO D’AMERICA SERIALE

DETTAGLIO D’AMERICA SERIALE

Articolo scritto da Marco Ongaro per la rivista IDEM

Nel coacervo di produzioni in sequenza destinate a grandi catene distributive, nell’ammasso ripetitivo di ristoranti uguali a se stessi in luoghi poi non così differenti, nella pacata funzionalità di social network dai tenui colori comprensivi di amicizie remote accatastate l’una sull’altra – rassicuranti nelle loro reiterabili formule d’approccio e condivisione – nell’ex babelico panorama di una civiltà omologante sprigionata a intervalli sempre più brevi dalle sempre meno difformi pieghe dell’America del Nord, da quasi cinquant’anni si erge a simbolo un dettaglio iconografico di riconosciuta popolarità.Un dettaglio che è stato reale, che ha vissuto di vita propria, che un tempo è stato corpo e da cinque decenni non lo è più: la figura di un’attrice americana della prima metà del Novecento di nome Marilyn Monroe.
Marilyn non morirà mai. Smette di morire nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962, un anno e qualche mese prima che il suo Presidente, John Fitzgerald Kennedy, ne segua la sorte divenendo altrettanto immortale, fisso, replicato, un eroe sempre giovane e bello. Immediatamente dopo la sua fine, il capofabbrica della pop art Andy Warhol prende a serializzare il volto dell’attrice moltiplicandone l’impatto nelle settoriali variazioni di colore, nell’immobilità del sorriso, nella schematizzazione della tavolozza serigrafica, liberando da lì tutta la potenza icastica fino a quel momento repressa nella contemporaneità della cronaca.
Nella mia fine è il mio principio, scrive Thomas S. Eliot nei Quattro quartetti, durante la Seconda guerra mondiale, e l’impatto della preghiera spinge la vita oltre la vita, traduce cristianamente la morte nel punto di accesso all’eternità. Ma l’illusione di rinascita, nel fenomeno Marilyn, ha valenza tutt’altro che spirituale a dispetto della natura religiosa dei modelli cui Warhol si è ispirato. La perpetuazione è data dalla moltiplicazione visiva dell’esemplare trasfigurato, non dal suo ingresso in una dimensione più elevata, per quanto fisicamente rarefatta. L’operazione è equiparabile piuttosto alla ripetizione di una bugia il numero di volte sufficiente a farla passare per una verità.
Mille Marilyn nascono dalla morte di una sola, quella vera. In un universo di dubbia realtà, l’immagine s’innalza a regina incontrastata e spadroneggia sulla vita non appena la morte glielo permette. Nel creare la Marilyn Monroe d’oro, Andy Warhol tratta la diva come un’icona bizantina dorata, una Beata Vergine che vergine non è, e ancor meno beata. Il sorriso è quello di un’allegra seduttrice, ma il volto soffuso di un erotismo ammiccante mostra le palpebre abbassate in tono ambiguo, atteggiate sia all’adescamento che a una malinconia interiore non attenuata dal sorriso stesso. La mercificazione del corpo-immagine, consumata fino alla morte di Marilyn, diventa arte l’indomani grazie alla corrente pop di cui l’artista americano è il massimo esponente. Arte di massa, arte di consumo, in cui il creatore non è più il protagonista e la cui oggettività riprodotta innumerevolmente sancisce la consacrazione di ciò che i mezzi di comunicazione – di massa – hanno diffuso fino al giorno prima. Marilyn era oggetto cinematografico e pubblicitario, era lancio d’agenzia e obiettivo dei fotografi gossip, feticcio e mito erotico. Ora è espressione artistica in virtù dell’esasperazione artificiosa della serializzazione di cui è stata oggetto in vita tramite i media e l’industria dell’informazione. Se in epoca bizantina il mito raffigurato su sfondo dorato era la Vergine Maria, nel Novecento il mito è la diva più famosa del mondo, la regina del contrasto tra immagine e sostanza, tra fortuna e infelicità, la stella del cinema divisa tra fallimenti sentimentali e successi professionali.
Il primo ritratto è una Marilyn d’oro, cui segue una Testa di Marilyn Monroe, poi la misura si moltiplica incattivendo il riferimento consumistico dell’operazione. Le sei Marilyn – Marilyn confezione da sei equipara la sua effigie, e l’opera in sé, alla birra venduta nei supermercati. La commercializzazione all’ingrosso diviene parte dell’oggetto artistico. Laddove si poteva avere una sola testa di Marilyn per un determinato prezzo, se ne possono avere ben sei. Utile oltre che conveniente. Come per la birra, portarsi a casa sei prodotti in una volta impedisce al consumatore di restarne sguarnito durante il weekend. L’operazione di riproduzione si va intensificando e si rivolge in seguito a una parte del corpo, spersonalizzando anche lo scampolo residuo di senso costituito da un viso compiuto e suggerendo l’idea ironica che nella funzione erotica della diva il dettaglio equivalga all’insieme.