MARIO MONICELLI – Nuova Italia o nuova commedia?

Mario Monicelli sta attaccando alla radice l’impalcatura sociale dell’epoca attraverso uno dei mezzi di comunicazione più efficaci e popolari, il cinema, e con un genere di discorso tra i più affilati e penetranti, quello usato dalle maschere nei carnevali e dai buffoni a corte: il paradosso grottesco, il lazzo del comico che facendo ridere dice la verità. Per farlo però con credibilità, deve umanizzare l’elemento carnevalesco e trasformare il comico in un uomo qualunque. Il primo elemento che favorisce la diffusione di un messaggio è l’identificazione tra l’eroe e lo spettatore. Finché il personaggio rimane caricatura il pubblico continuerà a sentirlo altro da sé. È per questo che la più grande maschera mutuata dall’avanspettacolo nel dopoguerra, Totò, gettata nella carbonaia la maschera, rimane l’uomo che hanno voluto Monicelli e Steno, l’uomo in cui l’italiano può immedesimarsi e tramite il quale può assumere un pensiero difforme da quello grato al Palazzo. I poveracci degli anni Cinquanta sono figli di altri poveracci e sono parte della stessa classe sociale, questo passa dallo schermo allo spettatore grazie alla forza di una risata che si volge in commozione.
Se il Neorealismo si era accostato con uno sguardo triste e problematico al mondo che rappresentava, qui la riflessione scaturisce nello spettatore dal contrasto tra quello sguardo e la risata. Un poveruomo, un ladruncolo che cerca di dar da vivere alla sua famiglia, incontra un poliziotto, un poveruomo come lui che cerca di fare lo stesso con la propria. Le due famiglie e i due mondi entrano in contatto e si scoprono tremendamente simili e vicini. “Rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca” è una dichiarazione programmatica di Vittorio De Sica, tra i massimi esponenti del Neorealismo. La Commedia all’italiana, che dal Realismo e dal Neorealismo ha preso ciò che le serviva e che in Guardie e ladri trova una convincente anticipazione, potrebbe parafrasarne il manifesto più o meno così: “Rintracciare il ridicolo nelle situazioni quotidiane, l’assurdo nella piccola cronaca”.
Il Maestro confiderà: “In Guardie e ladri il fatto che un ladruncolo e una povera guardia si ritrovassero ad avere gli stessi problemi scandalizzò talmente che fui convocato dalla direzione generale della cinematografia”. Per ottenere un effetto così scandaloso, i due registi e sceneggiatori hanno lavorato alla mutazione, alla trasformazione, alla riconversione della marionetta Totò in umile essere umano, e hanno centrato in pieno il bersaglio. Non si fermeranno qui.
L’attore aveva già indossato i panni del poveraccio, in Totò cerca casa aveva bene incarnato il mondo sfollato del dopoguerra, però mantenendo sempre il tocco surreale che solo Pasolini, col principe de Curtis ormai in tarda età, avrebbe lottato per far riaffiorare. Monicelli parla con un certo rimorso del lavoro metamorfico operato sulla maschera Totò, operazione che, per quanto giustificata dallo scopo e dal risultato, forse è stata responsabile del mancato sviluppo completo del genio del grande attore. La sua comicità lunare avrebbe potuto condurlo a toccare altre vette artistiche, commenta il regista con rimpianto qua e là, mostrando un apprezzabile senso autocritico e una sensibilità che talvolta ha cercato di nascondere. In Totò e Carolina, l’umanizzazione della marionetta diventerà tale da rendere fin troppo credibile l’attore, costringendo la censura a ricordare nella didascalia finale di quel film del 1955 che il personaggio è un attore, un fantasista, in poche parole un pagliaccio alle cui azioni non bisogna credere. Provvedimento di un paternalismo parossistico. Umanizzato Totò al punto da farne reclamare ufficialmente dalla censura la categoria marionettistica, non restava che assistere al procedere degli eventi narrandoli, influenzandoli forse, mai abbastanza. Monicelli ci prova comunque, senza rinunciare, a dispetto della grettezza istituzionale di chi è preposto a giudicare il suo lavoro.