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Un poeta può nasconderne un altro: Serge Gainsbourg

UN POETA PUÒ NASCONDERNE UN ALTRO: SERGE GAINSBOURG
Introduzione al libro di Marco Ongaro Un poeta può nasconderne un altro – Il senso per la parola di Serge Gainsbourg (Caissa Italia Editore)

Viaggiando in auto in Francia, ai passaggi a livello capita di leggere l’avvertenza: «Un train peut en cacher un autre», che significa «Un treno può nasconderne un altro». È un cartello posto all’attenzione di chi si trova a trepidare sull’orlo dei binari affinché sappia che un treno ben visibile potrebbe non essere l’unico pericolo in caso di attraversamento. L’impazienza potrebbe condurre sotto le ruote di un convoglio celato alla vista da un suo simile. È un avviso che non figura in corrispondenza delle croci di Sant’Andrea in altre nazioni, una premura cautelativa che le ferrovie francesi, SNCF, hanno ritenuto di apporre in conseguenza di alcuni incidenti o forse allo scopo di evitarli.
Il gusto cronico di Serge Gainsbourg per il calembour, la sua sensibilità  per le parole,  per le frasi fatte da ribaltare, la sua passionalità legata alle vibrazioni alfabetiche non l’hanno lasciato indifferente di fronte a un’occasione così ghiotta. Un parere bell’e pronto per essere vampirizzato e modificato come strumento di lancio di un altro concetto, meno concreto e proprio per questo molto più esteso. «Un amour peut en cacher un autre», «Un amore può nasconderne un altro», amplia l’orizzonte dalle rotaie francesi alla sfera sentimentale di chiunque a qualsiasi latitudine. La parola amore, trattandosi ora di poesia e non più di un cartello segnaletico, esplode in miriadi di altri significati, dal desiderio alla passione, dal sentimento alla persona che ne è oggetto, dal soggetto di un’avventura alla tensione di chi vi riversa le proprie aspettative, dall’egoismo del piacere alla diffusione di un altruismo totalitario. Un amore salta di qua e di là dalla carreggiata del senso zigzagando tra le accezioni e le sfumature più o meno evocative. Anche un treno, fosse stato messo in fila dal poeta Gainsbourg assumerebbe infinite sfumature di significato, figurarsi un amore. Un amore può nasconderne un altro: attenzione. Nella forma sintattica dell’avvertenza si cela già una confessione. Chi è sotto i suoi occhi non sa più che cosa ami di lei o se sia proprio lei l’amata. Non sa se non siano piuttosto la madre, la sorella gemella, la prima moglie, una nipote di Tolstoj, una delusione adolescenziale, un’immagine femminile su un poster, una bambina o chissà chi altro a richiamare un bisogno di sostituzione duro da ammettere. Dietro a una sostituzione rimossa balena la scintilla di una frustrazione.
Il poeta Gainsbourg, già pittore, cantautore e autore di successi dell’estate, attore, romanziere, regista cinematografico e pubblicitario, provocatore dandy e icona dell’autodistruzione dichiara «Le parole veicolanti le idee, e non le idee veicolanti le parole. Primordiale. Niente parole niente idee». E ancora: «Non ho delle idee, ho delle associazioni di parole, come i surrealisti: carenza di idee. Questo nasconde un vuoto assoluto, sono sottovuoto». Il calembour è sempre in agguato, come quando afferma: «Fino alla decomposizione, io comporrò». Se un treno può nasconderne un altro e un amore può nasconderne un altro, si può essere più basilari e azzardare che una parola possa nasconderne un’altra: l’anima del gioco di parole sta tutta lì.
Come pure una vita può nasconderne un’altra.


La propria non corrisponde ai desideri, mai del tutto, anche la più fortunata. L’uomo è un assemblaggio di insoddisfazioni tenute insieme dall’alternanza di successi e sconfitte. Chi ha tutto ciò che vuole sull’ottovolante della quotidianità dovrebbe esserne sazio invece di frantumarsi il cuore con fumo e alcol anticipando l’oblio della morte a ogni sbornia. A meno che non sia un poeta, quella particolare creatura che vive a metà tra l’aldilà e ciò che è definito reale, l’individuo sacro suo malgrado che porta il fardello consapevole della tragedia umana. Per quanto nichilista, aqualescopista, epicureo scopatore e consumatore accanito di bellezza, il poeta è scorticato vivo, come dicono i francesi, senza pelle, una sigaretta che brucia ai due lati, l’incaricato della sopportazione universale da parte di un Dio cui neanche crede. Non può essere felice neanche quando lo è. Jean Cocteau lo definisce «Un essere indispensabile, non si sa a cosa». Ma può sembrare qualcos’altro da sé, può mostrarsi aedo di altri mondi a un mondo che lo capirà, forse, solo dopo la sua morte. L’esistenza sotto i riflettori sembra invidiabile e lo è, ma può nascondere un’altra esistenza: il peggiore sguardo diretto sulla metafisica. Non c’è abbastanza ingegno in giro per comprendere ciò che sta facendo, eppure continua a farlo. Instancabile, sempre in bilico tra i due regni. È scampato all’aborto, alla deportazione e alla Shoah, non solo la vita ma la sua stessa morte può nasconderne molte altre.
Chi è il poeta in questione e di quale poesia va cianciando? È il giustiziere venuto a rimettere in ordine le tristezze degli anni Quaranta portandole attraverso lo swing cinico dei Cinquanta fino all’esplosione shock dei Sessanta festanti sulle aiuole delle fanciulle in fiore? L’eroe dei Settanta psichedelici e degli Ottanta per legionari gay rockeggianti intorno al bunker nazi di una discoteca rasta? Questo poeta si nasconde dietro un altro poeta che prima di tutto è un artista. Il pittore ha scelto «un’arte minore che piace ai minori», quella della canzonetta estiva, dopo aver duettato a distanza con la canzone maiuscola e irridente di Boris Vian, con l’esistenzialismo scabro di Juliette Gréco, e si appresta a épater les bourgeois come a loro piace con il vezzo delicato di scarti di vocale e sciarade che apparentemente non significano granché. Tutto è superficiale se lo si guarda in superficie.
Il poeta stupisce sì, ma con innocenza. A volte giocando con le parole sporche come i bambini. Mostra l’intelligenza come un bene casuale, con timidezza sufficiente a mascherare il dispetto per un aspetto fisico indesiderato che dovrà pur diventare un punto di forza. Come il Riccardo III shakespeariano si sfida a conquistare la mano della bellissima Anna che sta seppellendo il marito da lui ucciso, così il poeta Gainsbourg riveste di attrazione la propria “deformità” e si circonda delle donne più avvenenti insinuando nel gusto generale il relativismo di un’estetica in continua discussione. Ora l’inverno del suo scontento è mutato in estate gloriosa grazie al sole di Brigitte Bardot. La Bestia attira la Bella e la espone come trofeo, massimo atto poetico che scardina la stolida solidità del pensiero in esilio nel luogo comune. È bello ciò che piace, la bellezza contamina il suo opposto rivelando il Principe nascosto nel rospo. La favola bella li vedrebbe vivere felici e contenti, ma il poeta è un harakiri ambulante e si decompone componendo, corre su un Orient Express che nasconde una Transiberiana e ciò che lascia è la sua unica meta: la poesia.

La poesia, dal greco ποίησις, poiesis, con il significato di “creazione”, non è la semplice messa in fila di parole su una riga che va a capo prima della fine, non è neanche il puro accostamento di termini in una comunicazione fallita che richiede una decodifica, e non è l’accostamento di note musicali a testi di alta o bassa pretesa. La poesia nel suo senso etimologico, nella lingua in cui Aristotele la menzionava, è creazione. Tutto vi si presta: parole, musica, colori, forme, azioni, imitazioni di azioni, narrazione, dialoghi, vittorie, disastri, gourmet e scatologia, in breve: la vita. La poesia è la creazione della vita, un’opera d’arte spesso riassunta in un insufficiente epitaffio.
L’opera può essere la vita e la vita può essere l’opera. Serge Gainsbourg ha voluto abitare più di un anno nell’albergo parigino in cui Oscar Wilde è morto, identificandosi platealmente con lo scrittore irlandese e il suo paradosso tra genio e talento, vita e arte. Le due si compenetrano e sostituiscono, mescolate si rivelano. Distinte, l’una mostra l’altra. Un poeta che lascia al mondo la sua poesia lascia in eredità la sua vita.
Che può nasconderne un’altra.

SERGE GAINSBOURG – Il terrore di non essere frainteso

SERGE GAINSBOURG – Il terrore di non essere frainteso

Articolo scritto da Marco Ongaro  per la rivista Inchiostro

Nel 2021 scade il trentesimo anniversario della morte di Serge Gainsbourg. Nel 1961, trent’anni prima della sua morte, esce il suo terzo album, L’étonnant Serge Gainsbourg. I numeri contano ma non significano quanto vorrebbero. Il brano che ne viene estratto, La chanson de Prévert, offre all’autore-interprete un successo duraturo dopo la sicura qualità degli album precedenti, Du chant à la une! del 1958 e Serge Gainsbourg N°2 del 1959, apprezzati dalla critica e dal pubblico “rive gauche” ma non ripagati da altrettanta fama. Nel 1960 il singolo L’Eau à la bouche, L’acquolina in bocca, appartenente alla colonna sonora dell’omonimo film di Jacques Doniol-Valcroze ha raggiunto le centomila copie vendute, buon risultato ma cifra non immensa per le vendite dell’epoca.

La Chanson de Prévert è scritta in origine per la cantante Michèle Arnaud che la registra in studio nel novembre del 1960 e la canta in tivù il mese successivo in una trasmissione televisiva di dieci minuti a lei dedicati. Depositato alla società degli autori solo nel gennaio 1961, diventa uno dei successi più celebri cantati poi dal suo autore. Ma di quale canzone parla questa canzone che ne include un’altra nel titolo? Del celebre brano Les Feuilles mortes, Le foglie morte, portato al successo da Yves Montand, scritto e composto da Jacques Prévert e Joseph Kosma per il film Les Portes de la nuit, Mentre Parigi dorme, di Marcel Carné del 1946. Nel film lo stesso Montand, che debutta sul grande schermo nel ruolo di Diego, canticchia il brano che poi raggiungerà notorietà internazionale, ripreso da Juliette Gréco nel 1951, quindi da Édith Piaf, Françoise Hardy, Dalida e, in inglese come Autumn Leaves, da Frank Sinatra e Nat King Cole. Già Le foglie morte nel suo testo parla di una canzone, rendendo l’effetto “all’infinito”, la mise en abyme celebrata da André Gide, un gioco vorticoso di rimandi meta-canori. Basti pensare che la stessa Juliette Gréco canterà in un album nel 2006 La chanson de Prévert, ma non l’aveva già cantata?

Il brano interpretato da Montand si apre con lo stesso verso che Gainsbourg riprenderà nell’incipit del suo: Oh je voudrais tant que tu te souviennes, Oh, vorrei tanto che ti ricordassi, inaugurando dal principio una spirale vertiginosa di reminiscenze a incastro. Cosa dovrebbe ricordare la donna cui si rivolge il protagonista? Le foglie autunnali che si accatastano e vengono spalate via come i ricordi e le tracce degli amori disuniti cancellate sulla spiaggia, l’autunno come stagione che si rispecchia nell’autunno della vita, tempo della perdita e dei rimpianti, delle occasioni passionali sfiorite, dei raggi di sole ormai assorbiti dal grigiore che annuncia la sterilità invernale. E insieme a questa nostalgia di una nostalgia, dovrebbe rammentarsi una canzone che lei cantava.

È una canzone
Che ci somiglia
Tu mi amavi
E io ti amavo

La canzone stessa nel testo di Prévert rinvia a una rassomiglianza, non fosse bastato il gioco di specchi allestito dal poeta, dunque una canzone nella canzone e una canzone che somiglia a chi la cantava e all’amore da lei condiviso con chi gliela vuol fare ricordare. Occasione ghiotta per il magico manipolatore di linguaggio che una mattina di autunno alle 10 si presenta a casa di Jacques Prévert per chiedergli il permesso di citarlo nel titolo e nel testo della propria composizione. Gainsbourg sa da quando ha lasciato la pittura per la musica che la canzone è la forma più popolare di messinscena emotiva, il palcoscenico sentimentale per eccellenza, e con il suo dirompente cinismo anti-kitsch lavora già da tempo al sabotaggio del mezzo con l’arguzia di un Odisseo che concepisce il Cavallo di Troia. Prévert lo accoglie con champagne mattutino, accompagnando con sigari aromatici le proverbiali Gitanes del giovanotto. Gainsbourg se ne esce con la liberatoria e la libertà di creare un cioccolatino avvelenato che la gente adorerà, come sarà tradizione nella sua opera e come già lo fu in quella del suo amato Oscar Wilde, senza veramente comprendere tutto ciò che vi è celato. “Vivo nel terrore di non essere frainteso”, aveva scritto l’autore irlandese, e se Serge Gainsbourg non prova terrore, certo nutre la speranza che non tutto ciò che compie, o perpetra, venga colto subito fino in fondo.

Serge Gainsbourg-L'étonnant

La canzone arrangiata da Alain Goraguer s’intrufola nel testo di Prévert apparentemente omaggiandolo, per poi smontarlo attraverso la propria sensibilità corrosiva.

Oh, vorrei tanto che ti ricordassi
Questa canzone era la tua
Era la tua preferita, credo
Sia di Prévert e Kosma
 
E ogni volta le foglie morte
Ti riportano al mio ricordo
Giorno dopo giorno gli amori morti
Non la finiscono di morire
 
Con altre è ovvio mi abbandono
Ma la loro canzone è monotona
E poco a poco mi viene l’indifferenza
A questo non ci si può fare niente
 
Perché ogni volta, le foglie morte
Ti richiamano al mio ricordo
Giorno dopo giorno gli amori morti
Non la finiscono di morire
 
Si può mai sapere dove comincia
E quando finisce l’indifferenza?
Passi l’autunno e venga l’inverno
E che la canzone di Prévert
 
Questa canzone, Le foglie morte
Si cancelli dalla mia memoria
E quel giorno i miei amori morti
Avranno finito di morire

Dopo la citazione iniziale con cui prende il testimone dal poeta Prévert, il poeta Gainsbourg gli si sovrappone oscurandone i lati più patetici con un’ironia spietata. Quando dichiara perplesso il nome degli autori, “credo sia di…”, affetta l’indifferenza che si annuncia come vero tema del suo brano. La donna cui si rivolge potrebbe essere la stessa cui parla il primo poeta o riflettere una nostalgia personale – un poeta può nasconderne un altro e una donna può nasconderne un’altra – se non fosse che a causa di questa donna, di questa ex che gli riporta alla mente la fine di un amore, Le foglie morte è una canzone tossica, un brano che con la sua lamentevole malinconia aggravata dalla bellezza melodica insiste a rigenerare in lui la morte degli amori senza permettere loro di essere sepolti. In questo testo risuonano con dandistica nonchalance i versi potenti di Giuseppe Ungaretti che in Non gridate più del 1947 chiede, ordina, forse supplica:

Cessate d’uccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
 
Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo.

L’adynaton del primo verso, figura retorica che esprime un’impossibilità, torna nei ritornelli di Gainsbourg che trasformano il sentimentalismo nostalgico prevertiano in una sorta di creazione di zombie emozionali ogni volta rimessi in circolazione dalla canzone che evoca una canzone che evoca una canzone su un rimpianto che evoca un rimpianto che evoca un rimpianto. Sembra che l’autore sbotti: “Finitela con queste foglie morte, o moriremo tutti di nostalgia”. Nessuno potrà più amare perché ogni altro amore è sotto l’influsso di questo patetismo che istiga per reazione all’indifferenza.

Si può mai sapere dove comincia e quando finisce l’indifferenza?/Passi l’autunno e venga l’inverno… sembra quasi il lamento di Thomas S. Eliot ne La terra desolata: Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo /Con un po’ di pazienza. Ci deve essere la morte prima della rinascita, se si continua a rammaricarsi per la morte di qualcosa, quella cosa continuerà a morire. Come Gainsbourg sperava, anche grazie alla felice orchestrazione che nei ricami di chitarra ispira l’orecchiabilità avvolgente del sirtaki, quasi nessuno ha pensato a quanto in verità stesse smontando il successo universale de Le foglie morte augurandosi che finissero le mille riprese dei mille interpreti, così da concedergli di innamorarsi ancora, di cantare vivaddio una nuova canzone. Ancora mise en abyme: la nuova canzone è giusto La chanson de Prévert che stiamo ascoltando.

Gainsbourg dev’essersi leccato i baffi per il perfetto fraintendimento ottenuto, un’intima presa in giro di un’arte minore attraverso un suo esemplare ben riuscito. Se a questo si aggiunge il senso supremo celato in tutta l’operazione, quello squisitamente linguistico che al creatore di calembour non può certo essere sfuggito, il capolavoro si manifesta in tutto il suo splendore: Prévert in francese significa “prato verde”. Con questa grandiosa truffa di successo, Gainsbourg si prende il lusso di fare giustizia di un cognome rispetto alla sua propensione lirica, togliendo il “prato verde” dalla stagione autunnale e cancellandone la visione da una memoria sintonizzata su una stantia immagine nostalgica. Quando La canzone del prato verde si sarà cancellata dai suoi ricordi, finalmente gli amori morti di Gainsbourg la finiranno di morire e, come diceva più o meno Ungaretti, l’erba potrà tornare lieta dove non passa quel frignone di un uomo.

La Chanson de Prévert non è semplicemente la Canzone di Prévert, ma è la critica ai sentimenti autunnali in essa riposti, un passo verso la liberazione di tutti gli amori morti ramazzati con la pala dai parchi e tracciati nei passi degli amori disuniti sulla spiaggia, la rivendicazione di una primavera d’amore che preluda a un’estate erotica senza precedenti, che sappiamo Gainsbourg inaugurerà nel ’69 con Je t’aime… moi non plus.

JE T’AIME… MOI NON PLUS – Andirivieni d’amore…

…tra Jane Birkin e Serge Gainsbourg

Articolo di Marco Ongaro  per la rivista 
Inchiostro 

Uno special televisivo su Serge Gainsbourg, a Parigi. Una di quelle trasmissioni celebrative del genio dopo la sua morte. Non che lui non avesse goduto di riconoscimenti in vita, anzi. Ma se li era tutti guadagnati. Eppure pareva non averne mai abbastanza, ruminava e bruciava alcol e sigarette come non dava posa all’intelletto. “Uno scorticato vivo”, lo definiva Jane Birkin sullo schermo. Uno che amava la vita e la scioglieva nell’acido, potremmo anche dire. Il grandissimo successo di Je t’aime… moi non plus, tanto frainteso all’estero quanto naturale in Francia. Moi non plus significa neanch’io. Vallo a dire a chi di qua delle Alpi è ancora convinto che voglia dire io non più, oppure io di più com’era stato cantato nella versione italiana. La grandezza poetica di un uomo che alla donna innamorata nel bel mezzo dell’atto sessuale risponde neanch’io è troppa perché una mente semplice la possa abbracciare. C’è il potere e la debolezza, c’è la consapevolezza di Casanova e la coscienza della fatuità del sentimento coronato dal piacere. Il Grande Veneziano dichiarava amore eterno, s’inerpicava su promesse irraggiungibili e vagheggiava impossibili matrimoni quand’era animato dal demone del desiderio. Lo faceva senza mentire, poiché sapeva che quel sentimento era la menzogna che si consuma nella verità dell’attimo. Ciò che sarà poi non è dato saperlo, e pure il sentimento della donna che dichiara in quell’attimo il massimo amore è passibile di decadenza, quando non di scadenza. Ecco come una promessa d’amore rimane vera anche di fronte a ogni postuma evidenza contraria. Questa era la genialità di Casanova, questo era il motivo per cui le donne gli cedevano: si sentivano sinceramente amate. Con loro condivideva onestamente l’effimero dell’amore passionale, la sua caducità intrinseca. E questa stessa era la consapevolezza espressa in gran parte della poetica di Leonard Cohen, che già nel 1966 cantava in Hey, that’s no way to say goodbye :

Ti ho amata nel mattino
I nostri baci caldi e profondi
I tuoi capelli sul cuscino
Come una dorata tempesta dormiente
Molti hanno amato prima di noi
Lo so non siamo nuovi
In città e nelle foreste
Hanno sorriso come noi
Ma ora ci siamo allontanati
E dobbiamo entrambi tentare
I tuoi occhi sono bagnati di tristezza
Ehi, non è questo il modo di dirsi addio

Non sto cercando un’altra
Mentre vago per il mio tempo
Accompagnami fino all’angolo
I nostri passi faranno sempre rima
Sai che il mio amore viene con te
Come il tuo amore resta con me
È solo il modo che cambia
Come il mare e la battigia
Ma non parliamo d’amore o di catene
E di cose che non possiamo sciogliere
I tuoi occhi sono bagnati di tristezza
Ehi, non è questo il modo di dirsi addio

Ma come? L’ha amata nel mattino e sono già all’addio? Già nell’apice dell’amplesso se ne consuma lo scioglimento. Non per rivalità o dissapori. Non è una questione di lei o lui o un’altra o un altro. Si tratta dell’amore in sé che, come canta ancora Cohen nella sua Ballad of absent mare, “è come fumo senza via di scampo”. Siamo a pochi passi dal 1968, l’addio è sull’uscita del rapporto sessuale, appena finito ci si saluta per sempre. Comunque dopo essersi espressi l’amore nell’acme erotico.

Nel 1968 – tale era l’anno previsto per l’uscita di Je t’aime… moi non plus nella versione con Brigitte Bardot poi passata al 1969 con la Birkin – Serge Gainsbourg oltrepassa il confine e guarda la realtà in faccia. Non quella dell’attimo, ma quella del tempo compreso in tutta la sua interezza. Il momento dell’incanto è già avvolto dalla vacuità, dal marciume. Come Baudelaire guarda il bel viso di donna che ha di fronte senza riuscire a togliersi dagli occhi l’immagine del futuro teschio divorato dai vermi, così lo chansonnier osserva il futuro di un amore forse mai nato, arso nell’atomo di tempo logorato nella passione.

Lei: Ti amo, ti amo
oh sì, ti amo

Lui: Neanch’io

Lei: Oh amore mio
Lui: Come l’onda irrisolta

Vado vado e vengo
Tra le tue reni
Vado e vengo
Tra le tue reni
E mi trattengo

Lei: Ti amo ti amo
Oh sì ti amo

Lui: Neanch’io
Lei: Oh, amore mio
Tu sei l’onda, io l’isola nuda
Tu vai e vieni
Tra le mie reni
Tu vai e vieni
Tra le mie reni
E io ti raggiungo

Lei: Ti amo, ti amo
Oh sì ti amo
Lui: Neanch’io
Lei: Oh, amore mio
Lui: L’amore fisico è senza uscita

Vado e vengo
Tra le tue reni
Vado e vengo
Tra i tuoi fianchi
E mi trattengo
Lei: no adesso continua
vieni

Il poeta sente che lei gli dice che lo ama perché sta facendo l’amore, perché sta andando e venendo tra le sue reni nel tentativo di unirsi, raggiungerla, farsi raggiungere. Ma tutto questo è già finito, è un’illusione. Il sentimento che lei dice di provare ora è eterno quanto l’atto che stanno compiendo. Solo la ripetizione donerà loro la speranza di una perpetuità impossibile. Potranno rifarlo, sì, e proveranno forse le stesse meravigliose sensazioni, ma fino a quando? Qui Serge Gainsbourg affonda il verso decisivo: L’amore fisico è senza uscita. L’andirivieni non porta da nessuna parte, quell’intensità è già inganno. Appena passato, nel languore che segue l’amplesso, quando si vorrà fumare, mangiare qualcosa o bere un bicchiere di vino, tutto avrà assunto già i contorni del ricordo confuso col sogno. L’avrà davvero amato? Sarà mai stata sincera?

Gainsbourg decide di non conformarsi all’ipocrita lettor cui si rivolse Baudelaire e risponde ciò che pensa, ciò che sa. E lo fa da poeta, con tre semplici sillabe: moi non plus, neanch’io. L’ipocrita ascoltatore straniero può illudersi con una traduzione fasulla, può immaginare che senz’altro il cantante intendesse dire anch’io, poiché è più logico, più bello e sopportabile. Ma non fa che negare a se stesso ciò che sa o, più facilmente, preferisce continuare a ignorare. La risposta ribalta la domanda in modo troppo brusco e la cosa avviene in un ambito troppo dolce e sensuale perché si possa permettere alla brutalità della vita di irrompervi impunemente col suo cinismo.  Rispondendo “neanch’io” dichiara la consapevolezza che nemmeno lei lo ama, in primo luogo, che lo sappia o meno. O sta mentendo in preda all’ebbrezza deviante del desiderio oppure è inconsapevole. Non per questo la bugia è meno falsa.

L’uomo Gainsbourg, intervistato in proposito, languidamente accovacciato su un divano a fianco della sua Jane, dopo aver lanciato su vinile per il mondo intero lo scandalo del suo rapporto sessuale con la donna amata, risponde con magistrale ironia: “Sono un uomo molto pudico, per cui quando lei mi dice che mi ama non oso rispondere anch’io”. L’inventore della canzone erotica con tanto di sospiri e gemiti ha la spudoratezza di definirsi pudico. Fino a dove può spingersi l’ironia di un genio?

In verità si tratta di effettivo pudore. L’artista sente che sarebbe davvero spudorato solo se rispondesse anch’io a una menzogna tanto implicita. Jane dopo alcuni anni non ne può più di una vita fatta di notti bianche, alcol e sigarette. Un mattino se ne va lasciando un biglietto in cui lo implora di non cercarla. Forse non aveva torto il poeta. I poeti non hanno torto né ragione: sentono, tutto lì.